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Tragedia / Luce

Il mondo greco, gli uomini che lo hanno costituito, le opere che esso ha prodotto sono oggetto di un racconto infinito, il racconto del sapere europeo. Sempre nuovi, infatti, sono gli approcci alle parole e ai manufatti che da quel mondo continuano a parlarci. Un’ermeneutica inesauribile narra i Greci e in questo modo chiarisce meglio a noi stessi ciò che siamo.
Tutto in questo mondo appare legato, se è vero che persino la furia di Dioniso -signore delle donne tebane nelle Baccanti di Euripide- si ritrova in qualche modo nel disincanto del sofista Gorgia, il quale nell’Encomio di Elena mostra sino in fondo e con grande maestria argomentativa la forza che le potenze disumane e sovrumane esercitano su ciascuna delle nostre decisioni e azioni. Lo spazio della tragedia si apre nella duplicità della decisione umana e della potenza divina.
Secondo Vernant la tragedia è un’invenzione della πόλιϛ greca, iniziata e conclusa in un momento assai preciso della sua storia -nei due secoli che vanno da Solone ad Aristotele- ed è frutto di pochi autori, di una ben precisa struttura storica, di un intreccio peculiare di tecniche espressive, di credenze religiose, di vicende politiche. Per quale ragione allora la tragedia greca è apparsa e ancor oggi ci sembra esemplare di qualcosa che supera i suoi limiti storici? Perché la tragedia è di noi che parla, della condizione che accomuna i Greci del V secolo a ogni altro tempo e forma.
La potenza di ogni azione e produzione umana è inseparabile dalla coscienza della nostra finitudine. La nostra durata è sempre vanità rispetto al volgere senza fine degli evi. Le intenzioni, le consapevolezze, i progetti e le risposte che diamo conservano sempre una dimensione enigmatica che apre lo spazio della riflessione e impedisce risposte definitive. Pensare che, invece, tale risposta la si possa trovare è una delle forme più insidiose di ὕβριϛ, la ὕβριϛ di Edipo. È lui il simbolo più compiuto della tragedia, l’uomo nel quale la risposta che salva è nello stesso tempo quella che perde, in cui l’apice della luce è il fondo della tenebra, l’enigma svelato è la mente che svela. Lui stesso infatti è l’arcano insoluto e insolubile, metafora infinita della nostra finitudine, del nostro accecamento quando vogliamo non vedere il limite e costruire il perfetto.
Tuttavia il bisogno di pienezza è pur esso parte della natura umana. E i Greci hanno trovato un nome anche per questo: Dioniso. Il dio incarna «la nostalgia di un altrove assoluto […], l’evasione verso un orizzonte diverso» (J.P. Vernant, P. Viddal-Naquet, Saggi su mito e tragedia [1986], a cura di G. Vatta, Einaudi, 1998, pp. 5-6). Se, di fronte alla varietà delle leggende, dei fatti e degli eroi messi in scena nei loro teatri, i Greci si chiedevano che cosa tutto ciò avesse a che fare con Dioniso -il dio della tragedia- la risposta è che tutto e niente avesse a che fare con lui. Niente, perché di rado egli è protagonista -forse solo nelle Baccanti– o compare sulla scena. Persino il suo nome viene pronunciato assai poco. Tutto, perché nel raccontare i desideri e la morte, le passioni e il loro superamento, l’ebbrezza e la distruzione, Dioniso è lì a sorridere e, ancora una volta, a vincere; perché i personaggi principali della tragedia sono in qualche modo maschere di Dioniso: «È tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso e che per molto tempo l’unico eroe presente in scena fu appunto Dioniso. Con la stessa sicurezza peraltro si può affermare che fino a Euripide Dioniso non cessò mai di essere l’eroe tragico, e che tutte le figure più famose della scena greca, Prometeo, Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quell’eroe originario» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia ovvero Grecità e pessimismo, trad. di S. Giametta, in «Opere», vol. 3, tomo 1, Adelphi 1972, § 10, p. 71). Egli dispensa momenti di pura felicità a chi lo onora e scaglia nella follia chi ne respinge la divinità. Ma, in ogni caso, «perfino nell’Olimpo Dioniso incarna la figura dell’Altro. […] Non ci stacca dalla vita terrena con una tecnica di ascesi e di rinuncia. Confonde le frontiere tra il divino e l’umano, l’umano e il ferino, il qui e l’aldilà. Fa comunicare ciò che era isolato, separato» (Saggi su mito e tragedia, p. 127).

Non corpo estraneo -come voleva Rohde- ma elemento enigmatico e fondamentale della Grecità, il dionisiaco rappresenta ciò che Nietzsche gli attribuisce nel legame con Apollo: «Prodotti necessari di uno sguardo gettato nell’intimità e terribilità della natura, per così dire macchie luminose per sanare l’occhio offeso dall’orrenda notte» (La nascita della tragedia, § 9, p. 64).

Taranta

LA TERRA DEL RIMORSO
Contributo a una storia religiosa del Sud
di Ernesto De Martino
Il Saggiatore, Milano 19763 (1961)
Pagine XXXII-440

Appena in tempo. Ernesto De Martino fece appena in tempo nel 1959 a vedere, cogliere, studiare il tarantismo nel Salento. Di lì a poco, infatti, lo sviluppo economico, la mutazione dei costumi, la trasformazione antropologica che coinvolsero la civiltà contadina avrebbero cancellato «un fenomeno culturale già condannato a scomparire del tutto nel giro di pochi decenni» (pag. 36). I segni di una dissoluzione del tarantismo erano già evidenti a conclusione di una lunga storia nata nel Medioevo, entrata in crisi nel Settecento -a causa dell’azione convergente dell’illuminismo napoletano e della cristianizzazione da parte della cappella di San Paolo in Galatina- e ormai del tutto impoverita perché privata della sua ricchezza musicale-coreutica-cromatica. «Ma la pietà dello storico non poteva lasciarle inghiottire dal risucchio dei secoli trascorsi, senza aver tentato di restituire loro carne sensibile e dignità di vita nell’unico modo che a uno storico è consentito di fare, cioè mediante la rammemorazione del passato» (118).
Una rimemorazione metodologicamente rigorosa e profondamente partecipe del proprio oggetto; una rimemorazione interdisciplinare -lo storico delle religioni fu coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi- e scandita in tre fasi costituite dall’indagine sul campo, dalla ricerca filologica e dalla ricostruzione storica.
Al di là dell’antitesi tra umanesimo e naturalismo, De Martino mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disordine psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. Ma che cosa è esattamente il tarantismo? Chi sono i tarantati? «Convenimmo di considerare “tarantati” tutti coloro i quali, nell’estate del ’59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della taranta mediante la musica, la danza e i colori» (43). Dei 37 tarantati così identificati, la ricerca ne analizzò 21. Tutti contadini, quasi tutti analfabeti, poverissimi. La simbiosi profonda fra antroposfera e zoosfera era diventata in queste persone un orizzonte esistenziale, una ricerca di significati, una sacralizzazione del quotidiano, una ritualità dolorosa e insieme redentrice: «Solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome» (161). Dei 21 tarantati soltanto uno era stato morso dal latrodectus tredecim guttatus -l’unico aracnide presente in quelle terre davvero pericoloso per gli umani-, per gli altri i fenomeni reali di frenesia, malinconia, di ossessione e di danza protrattasi per ore e giorni circondati dai suonatori e dai parenti, erano un modo rituale e arcaico per sfuggire all’angoscia e al dolore, per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. […] Il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore della armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza» (170). Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per niente economico. Il ricorso, infatti, ai suonatori, i mancati giorni di lavoro, le offerte alla cappella di San Paolo comportavano esborsi molto onerosi per dei soggetti e dei nuclei familiari già poverissimi. Ma danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico «che per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto “minore” nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come “religione del rimorso” e come “terra del rimorso” la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione “minore” vide per alcuni secoli il suo giorno» (179).
La Terra del rimorso è quindi certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori intrecciati. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine la «più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa sino a confini del mondo abitato dagli uomini» (273), è l’intero pianeta che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore e dell’errore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
De Martino intende quindi utilizzare l’etnografia allo scopo di ricostruire uno specifico ed emblematico episodio di storia religiosa nel contesto della questione meridionale ma in realtà il significato della sua indagine è molto più universale. Essa tocca i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme -non sopra o dentro ma proprio insieme– alla Terra intera. Nel tarantismo il passato che una volta è accaduto può sempre tornare, può sempre ri-mordere, in un eterno ritorno del dolore e del suo riscatto nel quale sull’originaria struttura dionisiaca si innestò -dal Medioevo in avanti- un tentativo di cristianizzazione che alla fine ebbe successo e così ne distrusse senso e contenuti, dissolvendolo per sempre. Non quindi rimorso come rammarico per l’accaduto ma ri-morso come riaccadere del dramma. Il ri-morso torna ogni anno alla stessa epoca del primo morso e ogni volta può essere esorcizzato con la potenza coreutico-musicale-cromatica che lo guarisce. La taranta è ancora viva e ogni anno ritorna ma ogni volta viene uccisa. L’eco degli antichi riti mediterranei è evidente. Anche se l’etnografo sostiene giustamente che il tarantismo è irriducibile non soltanto alla medicina o alla psichiatria ma anche al tipo sincronico di altre civiltà e all’antecedente diacronico delle culture pagane, afferma in molto altrettanto netto che

il tarantismo non soltanto rinvia agli antecedenti dei culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica e ai paralleli africani che, dentro certi limiti, si richiamano alle civiltà protomediterranee, ma deve la sua formazione di fenomeno molecolare storicamente individuato al fatto che durante il Medioevo la vita culturale delle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale fu particolarmente esposta, soprattutto a partire dalla rapida espansione dell’Islam con il VII secolo, a plurisecolari influenze che possiamo genericamente chiamare “afro-mediterranee”. (188)

Si tratta quindi di una sopravvivenza tenace del menadismo dionisiaco, alla quale la contaminazione cattolica del culto di San Paolo tolse lentamente ma inesorabilmente significato proprio perché Paolo di Tarso fu il più ostinato nemico dei culti dionisiaci, come risulta particolarmente evidente nella Prima lettera ai Corinzi. La pratica coreutica del tarantismo si collega alla catartica musicale del pitagorismo, fiorito nelle stesse terre. Il personaggio eschileo (Prometeo) di Io, ragazza/vacca tormentata dalla continua puntura di un tafano e per questo costretta a mai interrompere il proprio andare, si reincarna nelle tarantate, le quali «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”» (31). Dioniso fu il dio più importante della zona della Magna Grecia che aveva in Taranto il proprio centro. Il morso, il contesto acquatico e silvano del rito, l’altalena, lo specchio, la catartica coreutico-musicale «si ritrovano nel mondo religioso greco secondo strutture mitico-rituali e funzioni esistenziali analoghe, che richiamano quelle del tarantismo» (199).
Di tutto questo Paolo fu nemico totale e accanito. La costruzione a Galatina della cappella a lui dedicata fece convergere in quel luogo le menadi contadine, che dal santo venivano ogni volta graziate ma che alla fine furono dissolte nel senso stesso della loro identità, intesa come orizzonte sacro di riscatto. Sta qui, in questa esiziale ambiguità del santo cristiano tarantato allo scopo di cancellare ogni traccia del menadismo dionisiaco, il profondo significato e l’esito della ricerca di De Martino.

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del  caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte alla interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica, per la coscienza dell’apostolo combattente essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. […] Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna -che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato- deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante la assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della Croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. (236-237)

Una spiegazione data, come si vede, in una forma letterariamente così bella, in uno stile tanto sobrio e  insieme coinvolgente, da fare de La terra del rimorso un capolavoro non soltanto dell’etnografia del Novecento ma anche di una saggistica narrativa che nel raccontare nulla perde del proprio rigore e guadagna, invece, in chiarezza argomentativa e in profondità ermeneutica.

[ Questo video del 1962 documenta il fenomeno al suo tramonto ]

 

Platone / Il piacere

Si racconta che in occasione di una lezione Sul Bene Platone si mise a parlare di numeri e di matematica, con stupore di chi lo ascoltava. Qualcosa di analogo accade a chi legga il Filebo. L’indagine sul piacere diventa indagine sulle proporzioni, la misura e la gerarchia dell’essere. Mediante le quattro categorie dell’illimitato, di ciò che limita, della mescolanza tra di loro e della causa, Platone dimostra il valore del pensare come forma suprema del piacere, quella che -circoscrivendone la potenza- rende davvero possibile il godimento dei piaceri, senza esserne sopraffatti. Alla misura di cui è permeata l’intelligenza non tutti possono accedere ma quei «pochissimi» sono degli uomini felici, la loro gioia è la gioia dei saggi:

Il pensare, l’avere intelligenza ed il ricordare, e poi le attività a queste affini, opinione retta e ragionamenti veri, sono più convenienti e più desiderabili del piacere, almeno per tutti quegli esseri viventi che sono in grado di prendervi parte: per tutti coloro che possono o potranno parteciparne, quelle sono le cose più vantaggiose di tutte.
(Trad. di Claudio Mazzarelli, in Tutti gli scritti, Rusconi 1991, 11 B-C)

L’intelligenza vince quindi su ogni altro piacere ma con due importanti precisazioni. Nel quotidiano -nella fatica del corpo, della natura e del sociale- è necessario che la rigidezza delle forme etiche sia sempre mescolata alle forme del piacere, per quanto soltanto alle più pure. Di più: il Bene trascende non solo il piacere ma lo stesso pensiero, di entrambi è l’altrove. Si delinea quindi una gerarchia assiologica che al suo vertice pone la misura -opposta a ogni hybris– e subito dopo, in ordine, il bello-proporzionato, l’intelligenza-pensiero, le scienze e l’opinione corretta, i piaceri della mente ma anche delle «sensazioni» (66 A-C). Piaceri e azioni “ignobili” vengono «affidate alla notte, come se la luce non dovesse vederle» (66 A).
Così vicino al cristianesimo per la tendenza a sottovalutare la corporeità, il platonismo si mostra comunque irriducibilmente pagano quando sostiene che non sia «ingiusto né invidioso gioire dei mali dei nemici» (49 D). Gioire del dolore dei nemici è quello che fanno i pagani, appunto, secondo l’esatta definizione che Jeshu-ha-Notzri dà di loro in Mt 5, 43-48. La dismisura morale del cristianesimo distrugge in realtà la possibilità stessa dell’etica. A essa Platone oppone la misura come armonia della ragione nell’uomo, come saggezza ordinatrice nelle cose.
Il dialogo è uno degli ultimi di Platone, secondo alcuni il penultimo prima del Timeo. Anche per questo il suo stile è solenne fin dalle prime battute, estremamente analitico nell’indagine, tripudiante nella certezza di avere ormai raggiunto una forma luminosa del pensare e dell’essere.

Dark Edipo

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Guido Paduano
Impianto scenico e costumi di Maurizio Balò
Musiche di Marco Podda
Con: Daniele Pecci (Edipo), Melania Giglio (Spettro della Sfinge), Laura Marinoni (Giocasta), Maurizio Donadoni (Creonte), Ugo Pagliai (Tiresia), Mauro Avogadro (Servo di Laio, Sacerdote)
Regia di Daniele Salvo
Sino al 22 giugno 2013

Pecore insanguinate e cadaveri di appestati. Una grande testa della Sfinge. Scale che portano alla reggia e al nulla. Su tutto vaga, aleggia, vola lo spettro della morte. Avanzano su questa scena i cittadini di Tebe, malati e angosciati per la peste che stermina la città. Chiedono a colui che già una volta li ha liberati dal male, a Edipo, di fare di tutto per salvarli ancora. E il re promette che tenterà ogni strada, che non abbandonerà Tebe, che porterà davanti ai propri occhi e a quelli del popolo la causa di tanto lutto. Promette che saprà.
E questa conoscenza arriva. Lo raggela. Lo distrugge. Lo rende cieco di dolore.

ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν
ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν
τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών.

Davvero non puoi dire sereno nessuno degli effimeri, se prima non sia giunto libero da mali al giorno della sua morte. (Οἰδίπους Τύραννος, vv. 1528-1530)

Tutto questo è interpretato a Siracusa in una chiave profonda, dark e funerea. Vi appare lo spettro della Sfinge a volare sopra i tebani, a punirli, a gridare il proprio orrore in un urlo trattenuto e sconvolgente. Espressivi anche i costumi e adeguata la recitazione di tutti tranne, ahimè, quella del protagonista: enfatica, patetica, romantica e televisiva.
La musica che intride questa messa in scena restituisce all’antico dramma la sua natura completa: visuale, scritta e cantata. Si chiude con Edipo che se ne va mentre gli si spalancano le porte di una luce che egli non può vedere. A volte è meglio non sapere. Detto da un greco, è questa la vera tragedia.

 

Ellenismo

I secoli che vanno dalla battaglia di Cheronea vinta da Filippo di Macedonia contro le città greche (338 a.C.) alla dinastia imperiale dei Severi sono noti -a partire dalla definizione di Droysen- con il nome di Ellenismo. Sono secoli in cui l’identità greca si conferma, si amplia e trasforma. Dopo le imprese di Alessandro il Grande tre regni si disputano l’egemonia sull’impero da lui fondato: la Macedonia degli Antigonidi, l’Asia dei Seleucidi, l’Egitto dei Lagidi. L’intervento romano -o meglio i vari momenti nei quali Roma si alleò con alcuni Greci contro altri Greci- chiude l’esperienza politica degli Elleni (definitivamente nel 146 a.C.) ma non quella culturale, linguistica, civile che anzi si rafforza ed estende fino a far sì che «per non insignificanti aspetti l’impero romano dev’essere letto come realizzazione suprema dell’ellenismo» (I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di Salvatore Settis, vol. II/3 Una storia greca. Trasformazioni, Einaudi, 1980, p. 680). La storia delle πóλεις muta ma non scompare, anzi si rafforza e da vicenda di guerre permanenti diventa storia di una cultura complessa e ricca, garantita dalla pax alessandrino-romana.
Quella ellenistica è una società fortemente urbanizzata, culturalmente raffinata, in grado di vedere in se stessa la realizzazione di un principio universalistico e dedita in ogni suo aspetto e livello alla pienezza del vivere. Fondazione di nuove città e contatti sempre più intensi fra di esse determinano il potenziamento della πóλις classica, sino a fare di quasi ogni centro urbano -piccolo o grande- un luogo di diffusione della lingua e della cultura greche. La città ellenistica costituisce il modello della stessa Roma e quindi di tutta la successiva cultura urbana che caratterizza così fortemente la civiltà europea.
Nelle città ellenistiche –Pergamo, Siracusa, Alessandria, Atene– i successori di Alessandro dedicano grande attenzione e finanziamenti alle scienze, alle arti, alla filosofia. Quest’ultima vide forse proprio nell’Ellenismo la maggiore realizzazione del progetto platonico se è vero che «in molti, se non nella maggior parte dei contesti politici, la presenza e la visibilità dei filosofi fu altamente apprezzata» (468), tanto che nella stessa Roma -a partire dalle lezioni tenute nel 155 a.C. dai maggiori scolarchi greci- iniziò un interesse e «un desiderio per la filosofia che non sarebbe diminuito per il resto dell’antichità» (476). Lo sviluppo delle scienze durante l’Ellenismo dà ragione all’ipotesi di Lucio Russo, per il quale il III secolo a.C. fu il tempo di una vera e propria rivoluzione scientifica negli ambiti più diversi, una rivoluzione che non è stata soltanto l’anticipatrice di quella ben più famosa del XVII secolo ma la sua vera e propria fonte. E infatti: «Il secolo e mezzo successivo al presunto floruit di Euclide vide lo sviluppo davvero straordinario di una ricerca matematica di prim’ordine» (687), di una astronomia il cui valore fu riconosciuto da Copernico, di una filologia rigorosa in grado di elaborare le metodologie di lettura e di analisi dei testi «che costituiscono ancor oggi il fulcro della disciplina filologica: l’ eàkdosiv, o edizione, e il commento continuo dei testi» (1201), di una geografia fisica e antropica frutto della convergenza di calcoli geometrici, di conoscenze climatiche, di contatto diretto con i popoli.
La Biblioteca di Alessandria è solo la maggiore e più famosa delle tante istituzioni di ricerca che trasformarono il libro, la lettura, lo studio in strumenti di crescita economica e culturale. La lingua di questa cultura è il greco, sempre più diffusa nel mondo -dal I sec. a.C. al III dell’era volgare-, la più usata in Oriente insieme all’aramaico, parlata e scritta dalle persone colte di tutto l’Occidente. I Greci dell’Ellenismo sono certamente diventati cosmopoliti, hanno ampliato enormemente il proprio orizzonte di vita ma sono ancora i Greci attenti alla libertà del singolo, a quei principi di autonomi@a ed eleuqeri@a che rappresentano uno dei fattori di continuità, di lunga durata, della storia greca dall’età arcaica sino all’impero di Roma. I rapporti fra la Grecia e la romanità costituiscono certamente uno dei temi centrali dell’indagine sull’Ellenismo. Dall’incontro fra Roma e la Grecia è infatti nata l’Europa medioevale e moderna, con il suo peculiare stile di vita urbano, tecnico e teso all’espansione. Sembra di poter dire con sufficiente sicurezza che «non c’è momento della storia romana del quale si possieda documentazione che non riveli il marchio della cultura greca» (941).
L’uomo dell’Ellenismo è dunque ancora l’uomo Greco, con la sua gioia di vivere, incarnata da Dioniso dispensatore di ebbrezza e di distruzione; dalla miriade di Satiri, Ninfe, Menadi, Centauri, Eroti il cui riso e felicità sono ancora vivi nella plastica ellenistica; da Pan con la sua sessualità straripante, innocente, doppia: «Gli antichi […] erano affascinati dalla bisessualità come da un fenomeno di intensificato piacere dei sensi. Nei giochi della fantasia ci si poteva augurare di provare allo stesso modo sia le gioie maschili che quelle femminili» (592). Per questi Greci una vita senza piacere e festa, senza la gioia del corpo, non vale la pena di essere vissuta; abbiamo «a che fare con un’epoca interessata a organizzarsi la vita in maniera comoda e piacevole» (593), un’epoca che così vuol vivere anche perché consapevole della dimensione aleatoria dell’esistenza, cosciente del potere che l’attimo e il caso -καιρóς e tu@ce- sempre esercitano sul mondo degli umani.
Questi Greci sono davvero diversi da noi, dallo sfondo sacrificale e ascetico della civiltà cristiana, sono lievi, disincantati, ironici e sereni. E sono anche politicamente più avanzati per la loro capacità di distinguere l’interesse privato da quello pubblico, per la loro volontà di non subire pericolosi conflitti di interesse. Fra di loro chi aveva da difendere i propri beni e aziende (ta# iòdia, oikeia) non poteva né doveva farli prevalere e confondere con il bene di tutti, con la sfera della politica (ta# dhmo@sia, politika@). E anche socialmente avremmo da imparare da uomini meno ipocriti, che non proclamavano ideali di eguaglianza e fratellanza universale ma che di fatto consentivano agli schiavi di «possedere beni ed effettuare transazioni legali» (713) mentre nelle nostre società umanitaristiche sono ampiamente tollerate le più subdole e feroci forme di schiavitù. Ma forse vale in particolare per i Greci quanto Strabone afferma dell’Europa intera:

Bisogna dunque cominciare dall’Europa, perché è la regione che più di ogni altra si trova nelle migliori condizioni per varietà di forma e per eccellenza di uomini e di governi e che più di ogni altra ha elargito i propri beni al resto del mondo (Geografia, 2.5.26).

Arcaici / Ora

Gran parte delle moderne esegesi sui pensatori delle origini derivano da Aristotele e da Teofrasto, poiché la stessa dossografia greca trae dai due peripatetici le proprie informazioni, i testi, gli schemi. Il problema consiste nel fatto che Aristotele e la sua scuola sono molto lontani dalla dimensione dionisiaca, misterica, iniziatica che è propria del pensiero greco arcaico. Giorgio Colli sgombera anzitutto il campo da questa lettura per poi affidarsi alla propria sensibilità filologica e alla guida dei pochi che avrebbero «compreso qualcosa di vitale della Grecia»: Nietzsche e Burckhardt (La natura ama nascondersi. Φυσις κρυπτεσται  φιλει, Adelphi 1998 [I ed. 1948], p. 14). Che cosa questo significhi è ben esemplificato dal ritratto che emerge di Empedocle, assai vicino a ciò che Nietzsche è stato nella contemporaneità: «Il dramma è recitato con una maschera inalterabile, un sorriso melanconico e staccato accompagna la rivelazione delle verità più strazianti» (214). Più in generale, la grandezza dei filosofi arcaici è consistita in alcuni elementi che essi hanno posseduto in sommo grado, che Platone ancora conserva e che dopo di lui andarono perduti per riapparire ancora una volta al tramonto del mondo classico, con Plotino. Con quest’ultimo, infatti, «uno squarcio soltanto di vita presocratica basta a chiudere degnamente la grecità» (33).
Fra tali elementi, sono importanti la distanza, la libertà, l’interiorità, il dionisiaco.
Ciò che Nietzsche chiama pathos della distanza e gusto del gioco costituisce la radice della grandezza greca: «Il senso del distacco, l’essere sempre al di fuori di fronte a ciò che si presenta, l’opporsi ad ogni trascinamento e ad ogni livellamento» (22). Chi -come Protagora- proclama l’eguaglianza degli uomini si pone totalmente al di fuori dell’ellenismo più profondo. È per questo -per la sua vicinanza agli arcaici- che Platone è così ostico verso l’illuminismo democratico, «che tollera soltanto nel maestro», in Socrate (262).
Una libertà politica senza confronto permise ai primi filosofi greci di affermare delle verità terribili, di porsi con alterigia verso il potere e verso il demos, e ciononostante di vivere ancora: «Nessuna potenza terrena tollerò in seguito alcunché di simile» (24).
L’interiorità di questo mondo si esprime per Colli proprio in quella parola -φυσις- che la scuola aristotelica interpretò come principio materiale e che invece andrebbe letta come «interiorità noumenica» (179).
Del dio che sempre muore e sempre riappare nella sua gioia strabordante, nella sua passione tragica per la vita e per le cose -di Dioniso- tutto il pensiero arcaico è intriso. Per queste ragioni il giovane Platone è per Colli l’ultimo pensatore delle origini: «La sua teoria delle idee nasce ora come traduzione espressiva dell’esperienza dionisiaca che l’ha portato alla solitudine. La realtà ultima delle cose deve essere costituita da essenze αυτά καθ’αυτά, ossia da individualità perfettamente indipendenti, prive di ogni limitazione fenomenica, pure verità interiori, viventi una vita solitaria» (264).
Se tale è stato il mondo greco arcaico, due nomi ne riassumono la pienezza e il tramonto: Parmenide e, appunto, Platone. Il primo rappresenta un’oggettività senza cedimenti, una natura talmente piena di sé da vedere nel potere politico soltanto una forma infima dell’essere; il secondo prosegue e porta a compimento la vicenda e la forma del “maestro venerando e terribile” ma poi cede di fronte alla sua stessa altezza e finisce schiavo della passione e delle contraddizioni politiche. Parmenide fu quindi «staccato in una sfera eterogenea ad ogni espressione, autosufficiente e senza desiderio» (166). Platone colse il frutto di tanta potenza nel cammino filosofico che dal Fedone lo porta al Simposio passando per il Fedro. Poi però «concreto e sereno come nel Simposio egli non sarà più, perché qui soltanto raggiunge il suo fragile punto di equilibrio, e dovrà in seguito fatalmente scendere la china dell’astrazione. Un miracolo del genere è unico nella storia dello spirito» (289).
La  forza di Colli consiste nello sguardo profondo ed empatico del filosofo capace di trarre alla luce e rendere vive le parole di una sapienza antica. Il suo limite sta nella difficoltà che tuttavia emerge di unire sino in fondo il rigore filologico con l’approccio teoretico. È ciò che a Colli riuscirà comunque più tardi, allorché il lavoro critico su Nietzsche gli consentirà un cammino a ritroso da questi a Schopenhauer, a Spinoza, a Eraclito-Parmenide, per cogliere nell’anello del ritorno anche il ritorno della sapienza arcaica nel cuore della modernità all’apparenza più romantica e invece -nella sua essenza- dionisiaca, o almeno del dio ancora una bella maschera.

Odissea, la fiaba/luce

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Odyssey
di Simon Armitage da Omero
Con 17 attori della Compagnia del National Theatre of Greece
Musiche composte ed eseguire da Theodoris Ekonomou
Costumi di Yashi Tabassomi
Progetto, regia, scene e luci di Robert Wilson
Produzione National Theatre of Greece  e Piccolo Teatro di Milano
Sino al 24 aprile 2013

Fare recitare la luce. Intrisa delle parole millenarie che raccontano di un uomo abile nell’astuzia, più curioso di un bambino, innamorato di un’idea -Penelope- e di una terra -Itaca-, determinato come il destino, il carattere, il proprio demone. Raccontare il suo racconto ai Feaci -ciò che lo precede e ciò che lo segue- senza nessun naturalismo, psicologismo, rovello interiore. Elementi, questi, tutti profondamente moderni e quindi non greci. Rimanere pertanto fedelissimi a Omero. Nonostante la riscrittura del poeta inglese Simon Armitage. Nonostante le musiche eclettiche -tra pop e new age- eseguite al pianoforte da Theodoris Ekonomou. Nonostante i costumi futuristi, geometrici, infantili e fumettistici di Yashi Tabassomi. Nonostante la regia scanzonata e rigorosissima, formale e fiabesca di Bob Wilson.
Nonostante? A causa, piuttosto. Perché in questa messa in scena l’armonia della lingua di Omero risuona ancora nello spazio del nostro tempo, recitata in greco da attori greci. Perché è come se il poema venisse letto ai bambini per farli addormentare cullati da una grande storia. Perché la favola/mito mostra la propria immortale natura di paradigma dell’inquietudine e della passione umani.
In tutto questo si perde, certo, la struttura arcaica dell’Odissea, il suo venire da un mondo per noi non più comprensibile. Ma si guadagna, in compenso, la sua identità di “opera d’arte totale”, fatta di parole ma anche di danza, di canto, di musica e -appunto- di luce. Nella più densa e profonda tra le ventisei scene che compongono lo spettacolo -quella dell’incontro con i morti- la madre Anticlea esorta il figlio Odisseo con queste parole: «Adesso parti. Trova la luce che ti nutre».

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