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Finitudine

Discorsi sulla morte
di
Luca Grecchi
Editrice Petite Plaisance, 2015
Pagine 57

grecchi_sulla_morteI quattro capitoli di cui si compone il volume sono costituiti da altrettante lezioni che Grecchi ha tenuto a degli studenti di psicologia. Circostanza che dà un taglio didattico e divulgativo al libro. L’attenzione si concentra sulla filosofia greca, dai pensatori delle origini all’ellenismo. Della riflessione successiva viene analizzata l’opera di Leopardi, con veloci accenni conclusivi a filosofi del Novecento.
Il risultato di questa ricognizione è che mentre il pensiero e la società greco-romana hanno dedicato molta attenzione alla morte, essa nel mondo contemporaneo è invece quasi del tutto rimossa, con conseguenti gravi angosce individuali e disturbi collettivi.
I Greci sapevano che «siamo una unità psicofisica, una unità che ha sempre presente la propria limitatezza, la propria finitudine, e che per vivere bene deve cercare di valorizzarla» (p. 12); che la materia è una costante trasformazione degli enti singoli, la quale non tocca la stabilità ed eternità dell’intero; che la condizione dei viventi -umano compreso- è intrisa di un metabolismo «che conduce irreversibilmente alla morte, senza ritorni né recuperi» (26). Comprendere teoreticamente e accettare nella prassi tale condizione significa conciliarsi con il tempo e la necessità, e dunque poter attingere almeno un poco di serenità. Il rigetto della finitudine conduce invece all’ansia, al panico, alla depressione.
Tutto ciò conferma che siamo fatti di tempo, che «l’uomo non riesce ad accontentarsi di vivere solo il proprio presente, poiché ha dei ricordi, delle radici, un passato; al contempo ha un futuro, un progetto di vita, vuole dare senso e valore alla propria esistenza, e dunque non può limitarsi al presente» (45).
Il plesso inseparabile di finitudine, materia e tempo suggerisce che la morte non è un ente, non è una sostanza ma costituisce un evento che porta al culmine e insieme a conclusione il processo più o meno duraturo della vita. Non si dovrebbe dunque parlare di morte ma del morire, vale a dire di qualcosa che accade sin dal concepimento e definisce lo stesso vivente.

«Quell’antica luce risplende ancora»

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco.
Vol. III Il conflitto degli ideali di cultura nell’età di Platone
(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, Walter de Gruyter e Co., 1947)
Trad. di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1990
Pagine 540

Il grande affresco sulla παιδεία si chiude (dopo il volume I e volume II) confermando la complessa unitarietà della cultura e dell’antropologia greca nella quale etica, medicina, politica e arte fanno tutt’uno, pur rimanendo distinti nella conoscenza. Anche per questo l’immagine di Platone come puro dialettico è certamente errata. Già vecchio, egli si sottopone alla fatica di un terzo viaggio a Siracusa per confermare la praticabilità del progetto politico della Repubblica. Diversamente da quanto spesso si ripete, per Platone il corpo non è soltanto σῆμα della mente ma anche elemento imprenscindibile nella formazione dell’essere umano. La medicina greca non si compone di una molteplicità di saperi specialistici, dedicati alla cura di morbi particolari ma guarda all’armonia del corpomente. La malattia consiste precisamente nello spezzarsi di tale armonia. «In questo senso superiore l’ideale greco della cultura umana può definirsi anche come l’ideale dell’uomo sano» (pag. 76). Platone pone sempre l’accento sull’azione, sul vivere, su una corrispondenza stretta e costante fra il pensare e l’essere.
Jaeger difende l’autore delle Leggi dalle accuse che questo dialogo ha ricevuto di eccentricità, pedanteria o -con Popper- di totalitarismo. Egli mostra come anche nell’ultimo suo dialogo Platone avversa l’accentramento del potere nelle mani di uno solo. Lo studioso esorta a paragonare la teocrazia platonica non agli stati moderni ma a quell’impresa educativa che è la chiesa cattolica. Emerge qui la dimensione religiosa della lettura di Jaeger, vicina a quella di Eric Voegelin, il quale in Order and History fa anch’egli di Platone una sorta di profeta del cattolicesimo. Quella lettura di Voegelin non mi convinse e non mi persuade neppure questa parte dell’interpretazione di Jaeger, per numerose ragioni. La principale è che Platone vuole fondare un’istituzione educativa -lo stato- in questo mondo e non una chiesa rivolta per definizione a preparare alla trascendenza. Le forme ideali platoniche sono l’essenza degli enti mondani, non la fase propedeutica alla santità del cielo.
Ma Platone è solo uno dei protagonisti di questo volume. Gli si affiancano Isocrate, Senofonte, Demostene. Nella diversità e persino nel conflitto delle loro posizioni politiche –basti pensare al filomacedone Isocrate contrapposto all’intransigenza di Demostene verso le imprese di Filippo- pulsa la stessa dimensione educativa del sapere e la medesima visione aristocratica del mondo e della παιδεία.
Come per i Sofisti, anche per Isocrate sono tre i fondamenti dell’azione educativa: la natura, l’apprendimento e l’esercizio. Se uno dei tre viene a mancare, essa non può che fallire. Indispensabile è dunque l’insegnamento, ma esso risulta efficace solo dove la natura -e cioè il biologico- ha predisposto un terreno adeguato all’impresa. Si deve anche a questa realistica consapevolezza se in Atene, «città incomparabile» (85), «si raggiunse una media culturale così alta» (75). Isocrate ebbe il merito di sostituire alla antica nobiltà di nascita «una nuova aristocrazia intellettuale» (264). La perennità della παιδεία ellenica è inseparabile da un sentimento elitario della vita.
Se «quell’antica luce risplende ancora» (513) si deve anche a un legame fortissimo con la dimensione naturale dell’uomo. Da qui nasce un’antropologia del possibile e del raro, un umanesimo tanto pervasivo ed esigente quanto lontano dal pregiudizio umanistico dei moderni.

Baci

Mente & cervello 134 – febbraio 2016

M&C_134_febbraio_2016Innato e appreso non sono in contraddizione ma costruiscono insieme la continuità dell’umano e di molti altri animali. L’intelligenza ha certamente delle basi biologiche e genetiche -che la costituiscono per il 40% circa- ed è poi «ovvio che un potenziale cognitivo su basi genetiche si esprime in un ambiente adatto, vale a dire dipende da fattori sociali scolastici, dal crescere in un ambiente stimolante e via dicendo» (A. Oliverio, p. 18)  Per questa e per altre ragioni, la tesi di Noam Chomsky sulla grammatica interna -e quindi innata- del linguaggio è assolutamente plausibile, nonostante le critiche che da più parti le vengono rivolte: «Una ricerca pubblicata su ‘Nature Neuroscience’ sembra però offrire una prova alla presenza di un meccanismo cerebrale che consente di costruire un’organizzazione gerarchica per comprendere il linguaggio» (V. Daelli, 20).
Innato è il sentimento amoroso, nella varietà assai complessa delle sue forme storiche e strutture psichiche. Tra di esse le più importanti sono quelle che i Greci definivano Eros, Philia e Agape, l’amore passionale, l’amore materno e amicale, il sentimento universale di condivisione del medesimo destino.
Al tema è dedicato il dossier di questo numero della rivista. Uno degli articoli si occupa del bacio, pratica non così universale come di solito si ritiene: «Nel complesso, Jankowiak ha osservato 77 culture in cui il bacio romantico era presente e 91 in cui era assente» (F. Sgorbissa, 34). Nata molto probabilmente in India tra il 1500 e il 1200 a.C., la pratica del bacio venne diffusa tramite le conquiste di Alessandro il Grande e divenne poi dominante a Roma. Da qui è transitata ovunque in Europa e nel Mediterraneo. Le ricerche di Jankowiak mostrano che c’è una correlazione tra la pratica del bacio e le condizioni economiche e culturali di una società: «Più è complessa una cultura maggiore è la probabilità che gli individui si bacino». Il piacere erotico ha infatti «una componente di provocazione e ‘attesa’ […] e solo le società che possono permettersi di perdere tempo in attività di intrattenimento possono aver sviluppato il bacio» (Id., 34). Questo dato non è affatto in contraddizione con la constatazione che molti altri animali, in particolare i nostri cugini primati, si bacino. Le ragioni sono ovvie e legate al piacere che il bacio offre e scatena ma si può anche aggiungere che le società composte da altri animali hanno di solito molto più ‘tempo libero’ di quelle umane -«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre» (Mt., 6,26). Espressione della Philia è anche la compassione, l’essere sensibili alla sofferenza degli altri, unita al desiderio di alleviarla. Più che l’autostima, è l’autocompassione a costituire una condizione di equilibrio, purché naturalmente non diventi un alibi: «Essere aperti alla propria sofferenza e gentili con se stessi, non condannarsi ed essere consapevoli che la sofferenza accomuna tutti, così da non sentirsi soli e non provare vergogna» (F. Cro, 54).
In questa nostra debole e dolorosa esistenza possiamo comunque contare su molte e differenti risorse. La prima è il corpo stesso che siamo, un dispositivo fragile ma anche potente, come è confermato dagli studi sulla neuromodulazione, i neurotrasmettitori, gli endocannabinoidi che il corpo genera per affrontare i momenti più delicati della vita e dei giorni. Kevin Tacey sostiene giustamente che «il nostro corpo è un’enorme industria farmaceutica. Chi scoprirà il modo per modulare la produzione endogena dei neurotrasmettitori in maniera precisa e accurata avrà trovato la chiave per curare un gran numero di patologie neurologiche e psichiatriche» (98).

Educare

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco
Vol. I L’età arcaica – Apogeo e crisi dello spirito attico

(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, 1933)
Trad. di Luigi Emery; trad. degli aggiornamenti di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1978
Pagine XIII-719

Paideia_JaegerIdentità e distanza, eredità ed estraneità, modello e rifiuto sono soltanto alcune delle modalità che caratterizzano l’approccio moderno alla Grecità. Gli studi di Werner Jaeger consentono di comprendere meglio i Greci ma anche il nostro atteggiamento verso di loro. Jaeger si muove, infatti, tra una esplicita presa di distanza da ogni forma di classicismo antistoricistico e la profonda convinzione della natura esemplare del mondo greco. Egli intende costruire una storia della Bildung ellenica che vada oltre l’approccio letterario-formale e oltre quello soltanto politico-storico per cogliere invece i Greci come esperienza assolutamente centrale per l’identità culturale dell’Europa. La compenetrazione fra cultura e politica rappresenta l’orizzonte ermeneutico nel quale Jaeger esplicitamente si pone. Ciò gli consente una lettura corretta e sempre chiarificatrice dei rapporti fra individuo e comunità nel mondo ellenico, evitando indebite attualizzazioni di segno liberale o autoritario, nella consapevolezza della inscindibilità per i Greci di morale pubblica e privata. Anche questo elemento consentì loro di evitare quasi sempre gli eccessi della dipendenza da capi geniali e della subordinazione alla volontà delle masse e dei loro demagoghi.
Fra le chiavi di lettura utilizzate dall’Autore sono importanti: la convinzione della costanza nel tempo, dentro la ricchezza di tutti i suoi sviluppi, della forma originaria dello spirito greco; il suo affondare le proprie radici nella contrapposizione/complementarità di apollineo e dionisiaco; la centralità della misura di contro a ogni υβρις, la continua rammemmorazione dei limiti dell’paideia’educazione, infatti, ha senso soltanto come frutto ed espressione di un progetto sull’umano.
L’originalità educativa dei Greci consiste soprattutto nel fatto che essi non solo possiedono una paideia ma costituiscono nel loro stesso esistere, operare, produrre una paideia fra le più alte e complesse d’ogni tempo. E ciò perché essi sono «il popolo antropoplasta per eccellenza» (p. 15), la cui analisi dell’uomo rappresenta in primo luogo la chiarificazione delle leggi universali della natura umana. Natura umana: è precisamente quanto molti progetti educativi e politici della contemporaneità negano che possa persino esistere, frammentata e dissolta nelle infinite variabili storiche, sociologiche, psicologiche che fanno da alibi alla paura di capire chi e che cosa siamo. Nessuna, forse, delle produzioni culturali elleniche può essere compresa al di fuori di categorie come fato, carattere, necessità. La loro razionalizzazione produsse l’idea centrale di Tucidide -come di Platone- «che le vicende degli uomini e dei popoli si ripetono, perché la natura umana rimane la stessa» (p. 652). L’umano è infatti inseparabile dal cerchio più grande delle cose, dalla struttura generale dell’essere, dalla componente biologica della specie. Eraclito parla di tre anelli concentrici -l’umano, il cosmologico, il teologico- i quali fanno sì che l’umanità sia sottoposta come ogni altro ente alla legge che governa gli eventi.
Il significato pedagogico della Grecità consiste in gran parte nella radicale consapevolezza dei limiti di ogni pratica educativa. L’ira di Achille dimostra che contro la potenza dell’irrazionale, contro l’Ate divina, ben poco può fare anche il migliore degli educatori: l’antico maestro di Achille -Fenice- rimarrà inascoltato. Molto, certo, dipende dalla formazione ma moltissimo, l’essenziale, da ciò che si è già, fin dall’inizio, all’apparire nel mondo. Tale limite educativo è pertanto inseparabile dalla differenziazione di vari livelli all’interno dell’umano. Dato che questo è precisamente il nucleo di ogni questione sociale, si conferma la profonda unità per gli Elleni della dimensione pedagogica con quella politica, entrambe radicate sul terreno antropologico. Pur nella grande varietà delle loro esperienze sul potere, i Greci concordano nel far discendere la differenziazione sociale «dalla naturale diversità fisica e psichica degli individui» (p. 28). Ciò che veramente conta è -come dichiara il Pericle di Tucidide- che l’uguaglianza di fronte alla legge si accompagni all’aristocrazia del talento. Senza di essa -aggiunge Platone- «non vi sarà pace per la città e per l’intero umano genere» (Repubblica, 473 c-d). L’originalità politica dei Greci nel mondo antico consiste soprattutto nel superamento del privilegio di nascita sociale, di stirpe, di luogo, di ricchezza in favore dell’areté quale vera nobiltà della persona. Soltanto su questa base diventa possibile porre alla società, e quindi all’educazione, la meta di un infinito miglioramento degli uomini fino alla formazione di un’umanità superiore rispetto a quella del presente.
Si scioglie così e si chiarisce il magnifico paradosso educativo individuato da Jaeger:

Occorre ricordare come questa stessa aristocrazia greca dello spirito abbia tuttavia costituito il punto di partenza d’ogni cultura umana superiore e cosciente, e s’intenderà come appunto in tale intima antinomia tra il dubbio pensoso circa l’educabilità e l’indomabile volontà d’educare stia l’eterna grandezza e fecondità dello spirito greco (p. 527).

È lo stesso paradosso, o meglio la medesima complessità colta da Jacob Burckhardt nella sua formula sintesi della Grecità: pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Di fronte al riduzionismo comportamentista e di tutte le sue tecniche didattiche, rispetto a ciò che Jaeger definisce la «smania di livellamento della novissima sapienza pedagogica» (p. 37), la paideia dei Greci mostra ancora tutta la sua potenza teoretica e operativa.
Due sono i contributi centrali che questo volume offre a una pedagogia che voglia essere coraggiosa e unzeitgemäß, feconda perché inattuale. In primo luogo il ricordare che esiste una cultura non riconducibile alle capacità puramente tecnologiche e professionali e che l’invenzione di tale cultura la si deve ai Greci. E poi la tranquilla consapevolezza che i Greci ebbero (e che è radicata nella struttura biologica e sociale degli umani) del fatto che «nessuna forma di società può sopravvivere a lungo senza una accurata e cosciente educazione dei suoi membri più capaci e più valenti» (nota 6, p. 31).

[Del II volume dell’opera di Jaeger ho parlato alcuni anni fa: Paideia ]

Alieni

Mito e Natura. Dalla Grecia a Pompei
Palazzo Reale – Milano
A cura di Francesco Venezia
Sino al 10 gennaio 2016

160-P74Natura e materia. Altro non c’è nel mondo, altro non è neppure pensabile. La potenza inimmaginabile ed eterna della Terra e del Cielo genera tutte le forze che plasmano gli enti e si contendono il dominio sul divenire. I nomi degli dèi sono i nomi degli alberi e delle foreste, dei raccolti, delle acque, degli antri, dei vortici, delle stelle. Dioniso -una cui statua incoronata di pampini apre la mostra e la cui presenza tutta la pervade- è la vite; Apollo è palma e alloro; Zeus è la quercia; Atena l’ulivo; Demetra  è la spiga di grano. Da queste forze sgorga l’agricoltura come dono degli dèi: il vino, i cereali, l’olio, la frutta, l’ombra, lo stormire del vento tra le piante.
Circa centocinquanta opere dall’VIII sec. prima dell’e.v al II sec. dopo l’e.v. testimoniano di questa Stimmung, di questa potente tonalità dell’esistere e del pensare. Tra di esse un bel cratere ateniese con disegnate sul bordo delle navi da guerra che avanzano sul mare; un grande bacile con Viaggio di Nereidi su mostri marini per consegnare armi ad Achille, splendido anche perché policromo; un elegantissimo lekytos (vaso per unguenti) con sfondo bianco che raffigura Demetra con spighe nella mano e in compagnia della figlia Persefone; vari paesaggi nilotici ritovati a Roma; i lussureggianti giardini raffigurati a Pompei, a Paestum e in altre località, emblema della potenza che è il divino. Il Giardino delle Esperidi si trova all’estremo Occidente del mondo e rappresenta il luogo dove vivere felici. Non un paradiso eterno come retribuzione degli atti compiuti in qualche decina d’anni -contraddizione clamorosa che rende assurda ogni idea di premio o castigo dopo la morte- ma semplicemente e profondamente un luogo terrestre dove la felicità è possibile, dove l’animale che pensa è una cosa sola con la lussureggiante vegetazione, con gli altri animali, con gli dèi.
Ovunque l’interazione e l’integrazione tra architettura e paesaggio è profonda, lontanissima dallo stupro urbanistico ed ecologico del nostro tempo.
Infine, colma di gioia e di commozione è la Tomba del tuffatore, dipinta a Paestum nel V secolo. Un giovane spicca un tuffo da un piedistallo che forse rappresenta le porte dell’Ade. Nelle acque fioriscono delle belle piante e nella tomba sono raffigurate scene di vita. Il tuffo è anche una metafora del passaggio dalla vita alla morte. Questa magnifica opera è pervasa da una tale serenità e da un così intimo rapporto con gli elementi naturali da essere impensabile nel cristianesimo e negli altri monoteismi, tutti volti al macabro, al lugubre, al doloroso, al disprezzo della vita.
Davvero i Greci -e gli antichi in generale- rimangono degli alieni, nonostante secoli di studi su di loro. Rimangono alieni della serenità, del disincanto, della misura. Questa splendida mostra milanese ci fa almeno intuire perché tali siano e tali restino.

Dio

aristotele_2La filosofia è per Aristotele conoscenza delle cause, degli elementi, dei principi primi del reale. Il mondo, infatti, è assai complesso e i concetti che cercano di darne conto non sono mai univoci. Anche per questo nella Fisica (trad. di A. Russo e O. Longo, Laterza 1983) lo Stagirita afferma che a dirsi «in molti modi» non è soltanto l’essere (A, 185 a) ma anche l’uno (A, 185 b), il divenire (A, 190 a), le cause (B, 195 a). Agli «antichi» che, «spinti dalla loro inesperienza» (A, 191 a), cercarono un principio o una modalità unica del divenire e dell’essere, Aristotele oppone delle indicazioni metodologiche molto precise. In generale, la sensazione è in grado di apprendere il particolare, il “pensiero” -invece- l’universale (A, 189 a); coniugando dunque sensazione e pensiero Aristotele cerca di costruire una teoria completa e plausibile del cielo, del movimento e del tempo.
«Che la terra sia immobile, valga per ammesso» (De caelo, Ivi, B, 289 b); qui l’empirismo mostra tutta la propria efficacia come anche i suoi limiti. Il constatare con i sensi l’immobilità e la centralità della Terra non rende per questo meno falsa tale concezione; avevano maggior ragione, invece, i Pitagorici con il loro fare “mistico e matematico”, poiché ritenevano «che al centro è posto il fuoco, mentre la terra è uno degli astri, e si muove in circolo attorno al centro, producendo in tal modo la notte e il giorno» (De caelo, B, 293 a).
Tra le due ipotesi alternative della sfericità o piattezza del nostro pianeta, Aristotele opta per la prima: la Terra è «una sfera non molto grande, perché altrimenti non renderebbe così rapidamente visibile il mutamento degli astri, quando noi ci spostiamo di così poco» (De caelo, B, 298 a). Incorruttibile, ingenerato, eterno, il cielo è mosso di moto uniforme (De caelo, B, 289 a), formando con la Terra tutta la materia; la quale è soggetta a trasformazione sul nostro pianeta e che invece nel resto del cosmo è immodificabile perché perfetta. Fuori del cielo non si dà luogo, né vuoto, né tempo.
L’eternità del movimento è gemella dell’eternità del tempo. Una tesi, questa, che separa con chiarezza la prospettiva aristotelica da quella cristiana, in particolare agostiniana, per la quale il divino è fuori dal tempo. Per Aristotele, invece, il divino è il tempo stesso: «Ma se sono impossibili l’esistenza e il pensiero del tempo senza l’istante, e se l’istante è una certa medietà e ha simultaneamente principio e fine -principio del futuro, fine del passato-, è necessario, allora, che ci sia sempre un tempo […] Ma se c’è un tempo, è ovviamente necessario che ci sia anche un movimento, dato che il tempo è un’affezione del movimento» (Θ, 251 b).
Tuttavia non è di solo movimento che il tempo si compone. Aristotele coniuga infatti il tempo della materia con quello della psiche. Lo Stagirita riconosce un’aporia di fondo che fa apparire il tempo come esistente e insieme inesistente poiché «una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza» (Δ 218 a). Impalpabile e sfuggente, il tempo sembra anche motore della corruzione e della fine (Δ 221 b e 222b) ma soprattutto esso è presente ovunque e «in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Δ 223 a).
Nel mondo oggettivo della quantità, il tempo irrompe con la misura scandita dalla mente:

Si potrebbe, però, dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza della mente. Infatti, se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto la mente o l’intelletto che è nella mente hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella della mente […]. Ma il prima e il poi esistono in un movimento, e appunto essi, in quanto sono numerabili, costituiscono il tempo. (Δ 223 a)

L’ordine fisico e la razionalità matematica della Natura trovano dunque nel tempo il loro emblema, la realtà più piena, la prova della unità di ogni ente e dimensione. Tempo e movimento, insieme, costituiscono ancora una volta l’eternità. Tale è il cosmo ordinato dei Greci: eterno come il tempo, essendo il tempo Dio.
Oltre che del movimento, il tempo è anche «numero della sfera, perché mediante questo si misurano gli altri movimenti ed il tempo medesimo» (Δ 223 b). Una circolarità che coniuga la mente e l’Universo nell’istante eterno: «Anche questo nome di αἰών si direbbe pronunciato dagli antichi quasi per divina ispirazione: si dice infatti αἰών di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura. Parimenti, anche il termine perfetto di tutto il cielo, che contiene ed abbraccia la totalità del tempo e l’infinità di esso, anche questo si dice αἰών, e prende questo nome da αιει εἶναι [essere sempre], immortale e divino» (De caelo, A, 279 a).
La materia è eterna, il tempo è sempre. Materia e tempo sono Dio.

Foristeri

Teatro Greco – Siracusa
Le Supplici
da Eschilo
Adattamento scenico in siciliano e greco moderno di Moni Ovadia, Mario Incudine, Pippo Kaballà
Musiche di Mario Incudine
Regia di Moni Ovadia
Con: Mario Incudine (Cantastorie), Angelo Tosto (Danao), Donatella Finocchiaro (Prima Corifea), Moni Ovadia (Pelasgo), Marco Guerzoni (Araldo degli Egizi)
Scene Gianni Carluccio
Costumi Elisa Savi
Sino al 28 giugno 2015

I cinquanta figli di Egizio sono decisi a prendere le cinquanta cugine Danaidi, anche contro la loro volontà. Le ragazze e il loro genitore fuggono e cercano rifugio ad Argo, terra d’origine di Io, loro antenata amata da Zeus e per questo perseguitata in tutti i modi da Era, anche quando Zeus trasforma la ragazza in giovenca per nasconderla agli occhi della dea. Le sue discendenti supplicano ora Pelasgo di dare loro ospitalità; dopo qualche titubanza il re la concede, anche se questo significherà guerra certa con gli Egizi.
Le Supplici descrive dunque la ἀνδρών ὕβριν (v. 528), la dismisura del maschio che non sa fare dell’Eros qualcosa di diverso rispetto all’accoppiamento che genera altri umani, altro dolore. I Greci sanno infatti che «iridescenti sono i guai» e «sempre cangiante tu vedrai l’ala del dolore» (vv. 328-329, trad. di Franco Ferrari).
Di tutto questo, e di molto altro, nulla resta nelle Supplici di Moni Ovadia e del compositore Mario Incudine. L’idea della contaminazione etnica, del testo tradotto in siciliano e in greco moderno, trasformato in canto (ritmate e cantate erano infatti in Grecia le tragedie) sarebbe stata molto interessante ma la musica è assolutamente inadatta, sviante, banale. Ovadia e Incudine avrebbero potuto optare per dei ritmi arcaici, o per delle cadenze orientali, o per strutture sperimentali. Per qualcosa che in ogni caso potesse restituire la distanza dei Greci. E invece la musica è quasi quella folcloristica tipo «Sciuri sciuri». Mi ha ricordato coloro che nel mio paese d’origine vengono chiamati i foristeri, venditori ambulanti di frutta e verdura che arrivano dai paesi limitrofi e si fanno notare per le strade diffondendo ad alto volume canzoni siculo-napoletane. In quel contesto va benissimo ma non altrettanto per i foristeri di cui parla Eschilo, la cui tragedia viene utilizzata come strumento di una visione del mondo «umanistica», vale a dire quanto di più lontano ci sia dall’Ellade.
Le-Supplici.-Donatella-Finocchiaro-ph-Maria-Pia-BallarinoSe gli Elleni «di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi» (v. 242), è perché la loro non è una libertà soltanto politica, non è la «democrazia» come la si spaccia lungo tutto questo spettacolo ma è una radicale libertà dalla consolazione, dalla speranza, dall’illusione dell’istante che si tramuta in disperazione del sempre. I Greci riconoscono la potenza, la liceità, la naturalità del desiderio che produce «la freccia di seducente sguardo» (v. 1005) ma sanno anche che solo un’entità non umana può evitare il dolore che ogni desiderio, anche realizzato, porta con sé. Sanno che soltanto «ogni atto dei numi è senza pena» (παν απονον δαιμόνιον, v. 110) e mai gli atti degli umani. Tutto questo rimane qui radicalmente estraneo, foristeri.

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