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Eraclito / Heidegger

Recensione a:
Martin Heidegger
Eraclito
L’inizio del pensiero occidentale – Logica. La dottrina eraclitea del Logos
(Heraklit. Corso di lezioni friburghese – Semestre estivo 1943 e 1944 – Vittorio Klostermann, Gesamtausgabe, Band 55)
Mursia, 2017
Pagine 272
in Vita pensata, numero 21, gennaio 2020
pagine 82-83

Molto al di là dell’elemento biografico e aneddotico, del tutto inessenziale; al di là della psicologia, della quale i Greci nulla sapevano; al di là dei dualismi –primi tra tutti quelli di mente e mondo, soggetto e oggetto–; al di là della sterile distinzione di teoria e prassi, la φύσις di Eraclito è pura ontologia ed è pura luce, poiché «l’essere ‘è’ il più prossimo di tutto ciò che ci è prossimo» (p. 71) ed è nello stesso tempo il più enigmatico da cogliere, comprendere, dire.
Φύσις è infatti il «nome iniziale greco di quel che noi chiamiamo essere» (237), è l’originario sorgere degli enti –terra, cielo, animali, umani, dèi– i quali possono essere pensati, compresi e detti soltanto perché si svelano, si mostrano e appaiono; perché emergono nella luce. Viventi o meno che siano, gli enti costituiscono lo schiudersi della materia nello spazio e nel tempo, il suo manifestarsi e splendere, la sua in termini heideggeriani Lichtung e in termini eraclitei luce -Φῶς / φάος.
La φύσις è quindi il venire a manifestazione della ζωή, dell’energia che si raggruma in consapevolezza, vita, divenire. Non la banale ed equivocante parola natura ma il convergere dell’inorganico, dell’animalità, dell’umano e degli dèi nel tempo che -in modo diverso- tutti sono. 

Estasi

Recensione a:
Estasi: istruzioni per l’uso ovvero l’arte di perdere il controllo
di Jules Evans
(Carbonio Editore, 2018; pagine 320)
in Diorama Letterario – numero 351 – settembre/ottobre 2019
pagine 33-34

C’è stata, per millenni, una forma capace di coniugare la più lucida razionalità con il più gorgogliante dei pericoli. Questa forma è stata la Grecia pagana, dentro la quale «il sesso era una delle vie principali attraverso le quali il mondo degli spiriti si intersecava con le vicende umane», la corporeità era «una forza demoniaca, potente, giocosa, distruttiva, associata alla dea Afrodite e a suo figlio Eros, che ci priva della ragione», i Misteri erano l’ordine dell’imprevisto ripetuto all’infinito ma ogni volta rinnovato.
Il cristianesimo è stato una forza desacralizzante –«Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv., 14, 9)– che ha impoverito il cosmo della sua complessità, della sua potenza, del suo enigma. Anche da qui nasce il bisogno di un recupero della dimensione estatica della vita. Un bisogno che questo libro documenta e mostra nella varietà, curiosità, banalità e complessità delle sue espressioni contemporanee.

Adriano

Marguerite Yourcenar
Memorie di Adriano
seguite dai Taccuini di appunti
(Mémoires d’Hadrien, suivi de Carnets de notes de Mémoires d’Hadrien, 1951)
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Einaudi, 1988
Pagine 330

È uno dei libri che restituiscono alla lettura il suo senso più proprio, il suo significato proustiano, il suo essere prima di ogni altra cosa un molteplice dialogo con se stessi e dunque un confronto pieno con l’esistere. La scrittura splendida e semplice di Marguerite Yourcenar mostra quanto vivo sia il mondo dei Greci, il mondo dei pagani.
Tra il 117 e il 138 dell’e.v. un uomo a tutto interessato, viaggiatore instancabile, soldato abilissimo, lettore e scrittore, amante della bellezza in ogni sua forma, politico accorto e lungimirante, prende il potere e fa della pax romana molto più che un’aspirazione o una formula. Con Adriano l’integrazione dei popoli, la molteplicità religiosa, lo sviluppo economico, la pace alle frontiere, l’incremento urbanistico, culturale, artistico, costituiscono delle realtà tangibili.
Yourcenar ha disegnato di quest’uomo un ritratto compiuto e di grande bellezza. Ha lavorato con acume su moltissime fonti ma non ha scritto un saggio storico. E tuttavia sono pochi gli episodi frutto di sola invenzione. L’autrice afferma di aver voluto «rifare dall’interno quello che gli archeologi del XIX secolo hanno rifatto dall’esterno» (p. 285). Ne scaturisce un’opera sintesi, nella quale i temi e i caratteri più propri dell’epoca imperiale al suo apogeo si intrecciano con motivi e pensieri universali, di profonda qualità filosofica.
Adriano vuole comprendere l’esistenza e gli enti; sa di disporre a questo scopo di tre mezzi soltanto: «lo studio di se stessi […], l’osservazione degli uomini […] e i libri» (21-22). Questi ultimi sono stati la sua «prima patria» perché è tramite loro che per la prima volta ha «posato uno sguardo consapevole su se stesso» (32). Da allora ha compreso sempre più lo splendore e l’assurdità del vivere. La carriera politica, le campagne militari, le iniziazioni religiose, le passioni amorose, le opere tratte dalla pietra o incise con lo stilo, costituiscono tutte degli strumenti per il raggiungimento di una gioia possibile, poiché «qualsiasi felicità è un capolavoro» (155).
Adriano molto ha sperimentato, da tante cose si è allontanato, senza però mai aver rinunciato a nulla che promettesse una sia pur piccola pienezza. Per lui il potere è stato soltanto un modo di essere libero: «Ho cercato la libertà più che la potenza, e quest’ultima soltanto perché, in parte, secondava la libertà» (41). Il suo sguardo sugli umani è disincantato senza essere arido, è anzi colmo di una pietà libera da ogni sentimentalismo. Ha vissuto con appassionato trasporto «le gioie dolorose dell’amore» (205), fino a disperarsi per la morte dell’amato ed elevare a lui un vero e proprio culto: la religione di Antinoo. Ha nutrito verso la molteplicità delle fedi e delle idee quella feconda tolleranza di chi sa che «vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo» (253). Ha amato la Grecia e ha fatto di essa la vera padrona del mondo poiché da lei proviene «tutto quello che c’è in noi di armonico, cristallino e umano» (210) e ha saputo riconoscere in Roma soprattutto la perennità dell’ordine politico. Compiute le opere, raccolti i pensieri, accettato il dolore, ha cercato «d’entrare nella morte a occhi aperti…» (276).
Ma Yourcenar non ha voluto proporre un’immagine ideale e dunque artificiosa di Adriano; lei stessa scrive con arguzia di essersi divertita «a fare e rifare questo ritratto d’un uomo quasi saggio» (286). Adriano non nasconde infatti a se stesso nessuna della proprie viltà, debolezze, limiti, e in questo modo mostra di essere -nonostante tutto– un nostro contemporaneo più che un imperatore del II secolo.
Forse il significato del libro consiste proprio nell’aver coniugato le epoche, nell’aver delineato l’umano nella sua espressione migliore e fatto di Adriano un contemporaneo lasciandolo essere un antico. A quale età appartengono parole come queste: «Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo» (127); «Ma non v’è carezza che giunga fino all’anima» (184)? Appartengono a quel tempo lontano, al presente, al sempre.

Gli astri / gli dèi

La verità, gli astri e lo statuto dell’umano
il manifesto
12 dicembre 2019
pagina 11

[Dall’articolo]
«Filosofia e fede cristiana appaiono inconciliabili per tre ragioni fondamentali.
La prima concerne lo statuto della verità, che per la filosofia è una ricerca sempre aperta, svolta a partire dalla convergenza tra ciò che si osserva del mondo e la riflessione razionale che viene condotta su di esso. Per i cristiani, invece, la v erità è un dato della rivelazione al quale si accede con la fede e che rimane sempre identico, incontestabile, fuori da ogni discussione e argomentazione.
La seconda ragione riguarda lo statuto del divino, che per la filosofia greca è plurale e molteplice, mentre per il cristianesimo e le altre religioni del libro è un’identità monoteistica che respinge da sé ogni differenza.
La terza ragione si riferisce allo statuto dell’umano, il quale per i filosofi antichi ha nel mondo una specificità che non diventa mai una differenza assoluta e di valore. Il cristianesimo dà invece all’essere umano un privilegio e una superiorità assoluti, come immagine di dio».

[La fotografia (della NASA) raffigura la formazione stellare NGC 604 nella galassia Messier 33]

Ifigenia

A purificare Oreste dal matricidio non è bastata la furia delle Erinni, non la potenza di Atena che le trasformò in Eumenidi, non la sentenza a suo favore che ad Atene diede inizio alla giustizia umana. Non è bastato tutto questo. Apollo ordina ancora a Oreste di trafugare dalla Tauride la statua della sorella Artemide, condurla in Attica, renderle culto. E allora sarà puro.
Va Oreste con il fidato Pilade, attraversa il mare e le Simplegadi ma viene catturato dai locali, la cui usanza è di sacrificare ad Artemide gli stranieri che giungono alle rive. A officiare il rito di sangue in onore di Artemide è Ifigenia, figlia di Agamennone, sorella di Oreste e molto altro, come lei stessa canta all’inizio della storia: «Si recò a Pisa Pelope di Tantalo su cavalli veloci; ivi sposò la figliola d’Enomao, da cui nacque Atreo: figlioli d’Atreo, Menelao e Agamennone, questi fu mio padre. Io sono Ifigenia; mia madre fu la figliola di Tindaro. Sui gorghi dove l’Euripo smuove ai fitti venti cupi marosi, mio padre, per causa d’Elena, mi scannò (lo crede, almeno) ad Artemide, là nella vallata tanto famosa d’Aulide»1.
Lo credette, Agamennone, insieme a tutti i Greci. E invece Artemide salvò la ragazza, sostituendola con una cerva2. Allo stesso modo Menelao e tutti i Greci credettero Elena in fuga con Alessandro Paride verso Troia, quando invece -per volontà di Era–  fu un εἴδωλον ad abitare le case d’Ilio.
Inganno è la vita umana, inganno è questo costruzionismo che ci spinge a credere ciò che più temiamo o più desideriamo (wishful thinking) e ci porta ogni volta alla deriva contro i muri del reale.
Catturati in Tauride, Oreste e Pilade stanno per essere sacrificati quando Ifigenia si rende conto che questi stranieri le potranno essere utili se porteranno ad Argo notizia che lei è ancora viva. Propone quindi loro di recapitare una lettera e in cambio lei li salverà. L’intreccio si dipana sino all’inevitabile riconoscimento di fratello e sorella, alla macchinazione per fuggire e condurre ad Atene la statua della dea dei boschi, all’inganno ben riuscito verso il re Toante, all’ira di costui, alla calma che gli impone infine Atena.
Un trastullo in mano al bimbo cosmico è davvero l’esistenza umana –«αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη» (Eraclito, detto 52)–  nel racconto dei poeti e nel divenire della storia.
Secondo Euripide in questo gioco i Greci sono spesso infidi o feroci: a Toante che le dice «tanta acutezza la devi alla Grecia!», Ifigenia risponde con un (auto)ironico «non fidarti mai dei Greci» (515-516); le donne tramano inganni; i sentimenti suonano e di continuo mutano nelle diverse note della tastiera interiore che noi siamo: «E mutare, il peggio, per chi / era felice: per gli uomini / questo è il peso più grave» (512). Versi che il cristiano Alighieri, innamorato della sapienza antica, tradusse in questo modo: ««Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria» (Inferno, V, 121-123).
Ma quando dalla miseria, dal gorgo della fine, dalla disperazione, si apre la luce di eventi impensati e redentori, ‘nessun maggior gaudio che ricordarsi del tempo sofferto nella vittoria’. Ifigenia è anche questa gioia.

Note
1. Euripide, Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἐν Ταύροις), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 445.
2 Una inquietante ripresa del mito è quella che dà il titolo al film di Yorgos Lanthimos Il sacrificio del cervo sacro (2017).

Polvere

Teatro Stabile – Catania
Antigone
di Sofocle
Traduzione e adattamento: Laura Sicignano e Alessandra Vannucci
Con: Barbara Moselli (Antigone), Sebastiano Lo Monaco (Creonte), Lucia Cammalleri (Ismene), Egle Doria (Euridice), Luca Iacono (Emone), Silvio Laviano (messaggero), Franco Mirabella (Tiresia)
Scene e costumi: Guido Fiorato
Musiche originali eseguite dal vivo: Edmondo Romano
Regia di Laura Sicignano
Produzione Teatro Stabile di Catania

È la polvere il centro di questa interpretazione del testo sofocleo che ne taglia alcune parti, altre ne accorpa, trasforma il coro di vecchi in voce di singoli soldati, traduce il flusso del greco nel frammento della contemporaneità. Ma in tutto questo esprime un profondo rispetto per la differenza e l’enigma che i Greci sempre sono.
La polvere del tempo che tutto costituisce e tutto dissolve, dando respiro a qualunque dolore e tragedia. La polvere con la quale Antigone dà sepoltura a Polinice, compiendo il rito e trasgredendo l’ordine illegittimo di Creonte. La polvere che i soldati gettano su di lei per punirla e umiliarla. La polvere che Creonte diventa, che vorrebbe diventare, quando si compie la profezia di Tiresia e gli dèi puniscono l’umano che aveva osato annullare i loro riti. La polvere dei muri delle case che precipitano, dei luoghi che si spezzano, della storia che conferma la propria natura tanto effimera quanto dolorosa. Sostanzialmente insensata.
La tentazione di ‘attualizzare’ il testo emerge in pochi momenti, per fortuna (mentre era pervasiva e aveva reso povera una messa in scena di qualche mese fa all’Elfo di Milano). La distanza degli elleni è rimarcata dalle musiche che riecheggiano quelle dell’antica Grecia: tribali, arcaiche, stranianti. Perché tribali, arcaiche e stranianti sono le tragedie, dentro le quali spira «un’atmosfera oppressiva, popolata di spettri»1. di angosce, di indicibili colpe, di polvere.

Nota:
1. Eric R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, La Nuova Italia 1978, p. 55

Classico

Attualità dell’antico
recensione a:
Lucio Russo

Perché la cultura classica.
La risposta di un non classicista
Mondadori, 2018
Pagine 224
in Vita pensata 20 – settembre 2019
Pagine 58-60

Tra gli elementi che compongono il patrimonio vitale del nostro Continente ci sono il metodo dimostrativo perfezionato durante l’ellenismo, la democrazia greca, il diritto romano. Tre elementi che una vera e propria barbarie sta progressivamente ma tenacemente eliminando sia dalle scuole europee sia dagli studi superiori, con una serie di motivazioni molto diverse ma tendenti tutte -che ne siano consapevoli o meno- alla dissoluzione di ciò che a partire dal VI secolo a.e.v. è stata l’Europa.
Non si tratta di difendere i Greci o di proporre la salvaguardia di una qualche forma di classicismo, si tratta di garantire le condizioni minime della nostra autocomprensione e della conseguente capacità di agire in modo equilibrato, consapevole e fecondo, invece che come marionette in mano ai modi di produzione dominanti. 

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