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Brexit

Premessa

Quanto accaduto in Gran Bretagna il 23 giugno 2016 è fondamentale. I risultati del referendum britannico sulla permanenza o meno nell’Unione Europea vanno infatti al di là del merito politico-economico della questione e mostrano più di ogni altro evento la struttura totalitaria del Capitalismo finanziario. Totalitaria in senso tecnico, nel significato individuato da Guy Debord e da molta parte della storiografia del Novecento, per la quale totalitario è un regime fondato sull’adesione delle masse alle decisioni dei capi ottenuta mediante il dispiegamento massiccio e propagandistico delle tecnologie dell’informazione.
Si è visto dunque e si sta vedendo che cosa intendono per democrazia e per libertà i portavoce politici e mediatici della finanza. Intendono la servitù volontaria alle parole d’ordine del potere. Questo è la democrazia del Parlamento Europeo, questa è la libertà dei suoi giornalisti e intellettuali organici, del mainstream mediatico che si è scagliato con toni isterici conto il risultato della consultazione britannica.
Tanto più significative e importanti sono le voci discordanti, le voci che per democrazia e libertà intendono il diritto di ogni cittadino a non condividere ciò che il potere presenta come ovvio. Raccolgo qui un’antologia di tali voci, invitando caldamente a leggere con calma queste riflessioni nella loro interezza (cliccando sui loro titoli).

Alcune parole sensate sull’evento Europa

Brexit: è la rabbia dei popoli contro un’ Europa che non è democratica, di Carlo Formenti
«Il senso più profondo della vittoria della Brexit riguarda il fatto che il terrorismo politico mediatico non riesce più a condizionare la rabbia popolare contro quell’istituzione profondamente antidemocratica che è la UE: una struttura burocratica non eletta, strumento di dominio del capitale globale e delle élite ordoliberiste»

Gli Spitfire sono spuntati dalle urne, di Giorgio Cremaschi, Contropiano
«Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti. Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la UE delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo».

Ci siamo sbagliati, fateci rivotare”. La petizione truffa contro la Brexit, di Marco Santopadre, Contropiano
A proposito della petizione-imbroglio ‘per ripetere il referendum’: «In realtà una truffa bella e buona utile a sminuire la legittimità del voto dei popoli della Gran Bretagna. Complimenti ai tanti ‘giornalisti’ che hanno abboccato alla becera iniziativa di propaganda del fronte sconfitto del ‘Remain’ senza verificare la natura dell’iniziativa» .

Brexit? Tutta colpa dei vecchi e dei poveri…, di Giorgio Cremaschi – Paola Pellegrini, Contropiano
«Avremo tempo per analisi più approfondite del voto britannico e delle sue conseguenze. Permettetemi qui di esprimere il mio disgusto per la campagna razzista contro i poveri, gli operai e perché no gli anziani, colpevoli di aver votato la Brexit».

Brexit: ecco le dichiarazioni più incredibili, di Marco Mori, Sollevazione
«L’UE oggi è un ordinamento di carattere spiccatamente imperialista che punta a sottomettere chiunque non si pieghi al proprio volere, che poi non è altro che quello della grande finanza. In sostanza, come ho riferito al Parlamento Europeo davanti al gruppo EFDD, l’UE è il primo totalitarismo finanziario della storia».

Giovani contro vecchi? Il vecchio gioco delle “voci del padrone”, della redazione di Contropiano
«Petizioni fasulle, dove possono ‘firmare’ anche i non britannici (quindi esclusi dall’improbabile ‘ri-voto’), anche più volte (basta avere più account mail, o farseli alla bisogna)…
Centinaia –a volersi tenere bassi– di articoli incentrati sul tema ‘questi bastardi dei vecchi che non pensano al futuro dei loro figli e nipoti che stanno nel programma Erasmus’…
Notissimi tromboni della ‘sinistra riflessiva e ironica’ che improvvisamente calano la maschera della tolleranza e inveiscono come novelli Marchesi del Grillo, offesi nel profondo da fatto che in democrazia – la loro democrazia – il voto di un ignorante, plebeo, operaio disoccupato o pensionato preoccupato, valga davvero quanto il loro… Proprio una testa un voto, dove andremo a finire, signora mia…
Come questo, per esempio [di Michele Serra, e in generale della Repubblica, un quotidiano ormai chiaramente reazionario]»

Il popolo-colesterolo, quello buono vota bene, quello cattivo è zozzone, di Alessandro Robecchi, il Fatto Quotidiano
«Ma resta il problema: ammesso e non concesso che il 52 per cento dei britannici sia incolto, burino, razzista, ignorante, stupido ed egoista, quale democrazia matura mantiene più della metà del suo popolo in condizione di incultura, burinaggine, razzismo, ignoranza stupidità ed egoismo? E’ una specie di equazione della democrazia: se i poveri sono ignoranti bisognerà lavorare per avere meno poveri e meno ignoranti. Questo significa welfare e riduzione delle diseguaglianze, mentre invece da decenni – in tutta Europa e pure qui da noi – si è ridotto il welfare e si è aumentata la diseguaglianza. La sinistra dovrebbe portare il popolo alla Tate Gallery, non sputargli in un occhio dicendo che è diventato razzista. Eppure».

Perché è necessario un populismo di sinistra, di Gianpasquale Santomassimo, il manifesto
«È accaduto per altre grandi Utopie novecentesche, sta accadendo ora per l’ideale europeistico, che è stato il più grande investimento delle classi dirigenti del continente in un arco ormai lunghissimo di anni. Era stato fin dall’inizio un matrimonio di interessi, ma si volle che sbocciasse anche l’amore tra i sudditi, e si organizzò la più massiccia opera di indottrinamento mai perseguita dalle élites, dalla culla alla bara, come si conviene a ogni idea totalitaria: dai mielosi temi per gli alunni delle elementari al martellamento quotidiano di politici, giornalisti, mezzi di comunicazione di massa.
[…] Ma da Maastricht in poi il potere delle élites europee ha proceduto con spietata determinazione a smantellare le fondamenta dello Stato Sociale europeo, vale a dire la creazione più alta che i popoli europei avevano conseguito nella seconda metà del Novecento, distruggendo quindi quello che era ormai l’elemento caratterizzante della stessa civiltà europea
[…] Sono populismi, si dirà con quella punta di disprezzo delle ‘folle’ che ormai caratterizza il linguaggio delle sinistre come delle élites. Ma in realtà avremmo bisogno di un serio populismo di sinistra, capace di parlare alle masse e di opporsi alle politiche dell’establishment.
[…] E ormai la mitica Generazione Erasmus è sommersa dalla Generazione Voucher, che sperimenta sulla sua pelle l’incubo della precarietà in cui si è convertito il ‘sogno’ europeo.
Nell’immane campionario di frasi fatte che costituisce il nerbo dell’ideologia europeistica, accanto all’affermazione ipocrita sull’Europa che avrebbe impedito 70 anni di guerre (la guerra alla Serbia è stata fatta probabilmente dagli esquimesi), spicca anche l’asserito superamento degli Stati-nazione. Si tratta con ogni evidenza di una illusione ottica, perché gli stati nazionali esistenti (e quelli che si aggiungeranno, a partire dalla Scozia per finire probabilmente con la Catalogna) sono l’unica realtà in campo, e ciò che chiamiamo Europa è il risultato della mediazione di interessi ed esigenze tra essi».

L’inglese se n’è gghiuto, di Franco Berardi Bifo, Alfabeta2
«L’Unione europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario
[…] L’Unione europea è una trappola finanzista da Maastricht in poi.
[…] Ma nei prossimi anni credo che dovremo ragionare solo su questo. Non su come salvare l’Unione europea, che il diavolo se la porti. Non su come salvare la democrazia che non è mai esistita. Ma su come trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Pacifica e senz’armi, se possibile. Guerra dei saperi autonomi contro il comando e la privatizzazione».

Dopo le rabbiose reazioni alla Brexit, la soluzione: senza I-Phone e Facebook niente più voto, di Francesco Erspamer (Harvard University), L’antidiplomatico
«Aspettatevi presto proposte di legge (probabilmente da sinistra) per togliere il voto agli anziani, ai malati e a chi è troppo povero o ignorante. In fondo hanno poco da vivere e comunque vivono male, e siccome non hanno soldi contribuiscono poco alla crescita economica; molti, pensate, manco usano lo smartphone e non vanno su facebook, cosa campano a fare? Di certo non dovrebbero avere una voce, un peso politico: sono solo parassiti, che con le loro assurde pretese di welfare, assistenza medica, pensioni, ostacolano l’ascesa dei rampanti.
Le rabbiose reazioni a Brexit hanno rivelato gli effetti profondi della deregulation morale e culturale praticata dal liberismo (e dai lib-lab): tanti giovani europei pensano che il mondo sia loro e solo loro; che tutto sia loro dovuto per ragioni anagrafiche; che anche la democrazia sia un diritto generazionale.
Siamo regrediti di un secolo, a livello della guerra igiene del mondo esaltata dai futuristi, anch’essi dei rottamatori del passato e dei grandi promotori di sé stessi.
Volevano bruciare i musei, ricorderete; e naturalmente sono tutti finiti nei musei.
Naturalmente dietro ci sono la finanza globale e i suoi media. Che alimentano e cavalcano l’insoddisfazione dei giovani come alimentano e cavalcano le paure e la disperazione degli anziani. Negli Stati Uniti la grande maggioranza dei teenager e ventenni americani ha votato per Bernie Sanders ma nessun giornale ha considerato un “tradimento generazionale” la nomina di Hillary Clinton. Come mai? Perché alle multinazionali Clnton va benissimo. Invece Brexit gli va male ed eccoli allora scatenare i media con motivazioni agghiaccianti ma che troppo gente accetta.
Divide et impera: è l’unica frase latina conosciuta da questa plutocrazia avida e ottusa; e purtroppo in tanti ci cascano: abbandonata ogni aspirazione alla solidarietà, si incarogniscono l’uno contro l’altro, nicchia contro nicchia, per avere diritto agli ossi e agli iPhone concessi dal potere».

Contro la “sinistra” elitaria, di Aldo Giannuli
«Sta venendo fuori tutta l’anima ferocemente classista, elitaria, antipopolare di questa sinistra dei salotti.
[…] Lo confesso, questa sinistra al chachemire, la sinistra delle terrazze romane, ebbene si, mi fa schifo non solo politicamente, ma più ancora moralmente ed umanamente, perché la “sinistra” neoliberista ed elitaria non esiste: è solo una ignobile truffa. Il Pd? E’ più spregevole della Lega e dell’Ukip, credetemi».

Brexit, effetto domino sulla UE, di Dario Guarascio, Federico Bassi, Francesco Bogliacino, Valeria Cirillo, Sbilanciamoci
«A questo punto, con un possibile effetto domino alle porte e ulteriori tensioni sulla strada dell’integrazione rimangono due sole strade possibili. Una maggiore integrazione, ancora una volta fondata su presupposti neoliberali e con la capital union a fare da perno; o un arretramento del medesimo processo di integrazione, con gli Stati membri a recuperare parte della loro sovranità politica ed economica. Nel primo caso, le garanzie che una maggiore integrazione non soffra degli stessi problemi di disegno istituzionali denunciati finora sono oggettivamente nulle. Politicamente, questo rischierebbe anche di favorire in modo sostanziale la crescita dell’estrema destra come le ultime elezioni hanno dimostrato.
Nel secondo caso, potrebbe aver luogo un accordo di cooperazione politico-economica, teso ad arretrare rispetto al processo di integrazione stesso, rimettendo in discussione, ad esempio, la libera circolazione dei capitali».

Brexit, uno spettro si aggira per l’Europa: la democrazia, di Carlo Formenti, Micromega
«Non ha funzionato la campagna del terrore orchestrata da partiti di centrosinistra e centrodestra, media, cattedratici, economisti, “uomini di cultura”, esperti di ogni risma, nani e ballerine per convincere gli elettori a chinare la testa ed accettare come legge di natura livelli sempre più osceni di disuguaglianza, tagli a salari, sanità e pensioni, ritorno a tassi di mortalità ottocenteschi per le classi subordinate e via elencando.
In entrambi i casi la sconfitta è stata accolta con rabbia e ha indotto l’establishment a riesumare le tesi degli elitisti di fine Ottocento-primo Novecento: su certi temi “complessi”, che solo gli addetti ai lavori capiscono, non bisogna consentire alle masse di esprimere il proprio parere, se si vuole evitare che la democrazia “divori se stessa”. Ovvero: così ci costringete a imporre con la forza il nostro punto di vista».

La Brexit di porta Pija, pesa e ripensa a casa, di Pasquale D’Ascola
D’Ascola ha colto anzitutto la natura terroristica dei commenti conformisti che dilagano ovunque, come se fosse l’Apocalisse stessa, dall’Erasmus a Ryanair, dai passaporti al calcio.
A indurre politici, funzionari e giornalisti a parlare è la paura di perdere la greppia alla quale tanti attingono da tanto, da troppo. Hanno avuto però il cattivo gusto, la maleducazione e l’imprudenza di escludere da tale desco i popoli (uso apposta tale impegnativa parola), confidando nella loro atavica dabbenaggine e obbedienza. Calcolo non privo di basi -altroché- ma nel caso specifico portato all’estremo dei bambini greci che muoiono di fame e dell’impressione di masse che arrivano. A quel punto anche il popolo si mette all’erta. E appena può dice che non è vero, no che Tout va très bien, madame la Marquise!.
Il secondo elemento della sua analisi -del tutto corrispondente alla realtà- è che la miserabile Europa della quale parliamo non è affatto l’Europa ma una montecarlo nella quale giocano le «cravatte globaliste di Dragomiro Draxit con tutti i suoi Junker». Mi permetto di dire che il dominio di costoro non è neppure «Οἰκονομία, economia, amministrazione della casa, da οἶκος, dimora e νόμος», ma è ciò che Aristotele chiamava crematistica, vale a dire semplice interesse personale se non proprio truffa.
Ma il dominio della crematistica non può reggere a lungo, come D’Ascola giustamente afferma.
In Europa comandano per l’appunto Draghi (che ha tradito gli insegnamenti del suo maestro Federico Caffè) e altri banchieri, i quali da nessuno sono stati eletti ma che decidono per tutti. L’UE non è una struttura democratica. Anche questo la uccide.
«Nessuno ci ruberà la nostra Europa» tuona il ministro degli esteri tedesco Steinmeier. L’hanno infatti già rubata queste indegne classi dirigenti, le quali tenteranno ancora la filastrocca: «Mais à part ça, madame la Marquise / Tout va très bien,tout va très bien ! » La risposta però questa volta potrebbe essere diversa: Fuck you James!

Consiglio infine la consultazione regolare del sito di Marino Badiale e Maurizio Tringali che da molti anni documentano e analizzano la politica economica dell’Unione Europea.


Riflessioni conclusive

Se Merkel e i burocrati di Bruxelles stanno facendo la faccia feroce contro la Gran Bretagna è soprattutto allo scopo di minacciare e avvertire altri che volessero uscire. Un atteggiamento chiaramente fascista. La cosa più triste è comunque vedere il tramonto della sinistra, diventata in molti suoi esponenti una serva del Capitale che sostituisce alla lotta di classe la lotta tra ‘vecchi e giovani’. Una lotta che sta solo nella propaganda di tali servi, anche perché -nota giustamente Gabriel Galice- «les discours sur ‘les jeunes britanniques  pro-européens’ omettent que 64% des 18-24 ans et 42% des 25-34 ans se sont abstenus, ce qui ramène les partisans effectifs du IN, pour chaque groupe d’âges, à 26% et 36%» (Les peuples, l’impératrice et les roitelets ).
Molti di questi giovani sono nati nell’epoca della finanziarizzazione trionfante, sono a essa abituati, rassegnati, sottomessi. Sembra che neppure si rendano conto che si tratta di una forma di gestione dei beni radicalmente insensata, politicamente rovinosa, esistenzialmente iniqua. Come ha scritto Santomassimo, la ‘Generazione Erasmus’ è ormai la ‘Generazione Voucher’ -vale a dire una generazione senza diritti sul lavoro e senza garanzie- che accetta come naturale lo sfruttamento e la precarietà. È esattamente questo uno degli elementi di vittoria del Capitale finanziario.
La Brexit ha svegliato molti da tale sonno dogmatico. Senza il risultato del referendum britannico tutto questo non sarebbe stato detto, non sarebbe emerso. Avendolo compreso, sono stato subito favorevole all’esito del referendum.
Ha quindi ragione Jacques Cotta a scrivere che «l’union européenne n’est pas réformable, c’est du moins l’histoire qui nous l’enseigne. Dans ce contexte, seule une position claire et sans ambiguïté, pour la sortie de l’union européenne peut être compréhensible et soulever une perspective d’avenir. […] A l’union européenne, construction politique faite pour servir le capital financier, étrangère à l’Europe des peuples, la Grande Bretagne pourrait ouvrir la voie à une Europe des nations libres, décidant librement entre elles des coopérations, des échanges, des projets communs» (Le Brexit ouvre la voie).
Amo l’Europa come la mia stessa madre. Mi sento in ordine: europeo, siciliano e italiano. Sono nemico dell’Europa della Banca Centrale, del Fondo Monetario Internazionale, dei mandarini dell’Unione perché sono amico dell’Europa di Canetti, Shakespeare, Goethe, Nietzsche.
In ultimo: come anarchico non posso difendere gli interessi del Capitale finanziario, non posso sostenere le politiche dei nazisti di Bruxelles.

Vita / Opera

Teatro Elfo Puccini – Milano
Il vizio dell’arte
(The Habit of Art, 2009)
di Alan Bennet
Con: Ferdinando Bruni (Auden), Elio De Capitani (Britten), Umberto Petranca (Carpenter), Ida Marinelli (Kay), Alessandro Bruni Ocana (Tim), Vincenzo Zampa (George), Michele Radice (Neil), Matteo De Moiana (Tom)
Regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Sino al 31 gennaio 2016

vizio_arteIl poeta Wystan Hugh Auden e il compositore Edward Benjamin Britten si incontrano a Oxford nel 1972, dopo molti anni di distante amicizia. Le loro passioni, il disincanto, l’omosessualità, le forme, la socialità, convergono nel vizio dell’arte che è la loro esistenza.
Questo incontro è messo in scena nel 2009 da una compagnia che lo interpreta, lo prova, lo commenta, ci litiga sopra, lo modifica insieme all’autore del testo.
Noi vediamo questa compagnia all’opera, nel doppio tempo dell’azione narrata e della sua messa in scena. Teatro nel teatro a livelli altissimi di sincronia, di ambizione drammaturgica, di penetrazione nel tessuto creativo di due dei massimi artisti inglesi del Novecento. L’ironia british di Alan Bennet diventa sorriso, riso, battute folgoranti, continuo divertimento. Uno spettacolo che restituisce per intero il piacere e la fatica del teatro, del farlo e del vederlo. Auden ribadisce lungo tutta la commedia che per un artista -come per un filosofo o per uno scienziato- ciò che conta è l’opera e non la biografia. Assunto del tutto condivisibile e che in questo spettacolo trova un’espressione felicemente paradossale. È delle vite che infatti si parla -della loro forza e delle loro miserie- ma lo si fa attraverso l’opera, in un’opera, per l’opera. Per ciò che davvero rimane degli umani che hanno la fortuna di scrivere e creare. È anche questo il senso della poesia che Auden dedicò alla morte del poeta William Butler Yeats, della quale riporto qui i versi conclusivi: «Prendi un ospite onorato, / terra: William Yeats è stato. […]  Il Tempo che è insofferente / con l’ardito e l’innocente, / e insensibile in un giorno / ad un corpo tutto adorno, / il linguaggio onora, e approva / chi gli dona vita nuova; / vanità e viltà perdona, / finalmente le incorona. […] E, poeta, tu, sprofonda / nella tenebra più fonda, / la tua voce sempre voglia / liberarci d’ogni doglia; / messi i versi tuoi a coltura, / rendi vigna la sventura, / la miseria umana in canto / volgi estatico nel pianto; / nei deserti d’ogni cuore / apri il fonte guaritore, / chi, dei giorni schiavo, gode / libertà muovi alla lode» (Trad. di Nicola Gardini).

Enigma

The Imitation Game
di Morten Tyldum
Gran Bretagna – USA, 2014
Con: Benedict Cumberbatch (Alan Turing), Keira Knightley (Joan Clarke), Mark Strong (Stewart Menzies), Matthew Goode (Hugh Alexander), Charles Dance (Denniston), Rory Kinnear (Nock)
Trailer del film

L’esercito tedesco andava conquistando tutte le capitali europee. Londra subiva massicci attacchi aerei e non riceveva più rifornimenti a causa delle incursioni contro le sue navi. Gli inglesi erano riusciti a procurarsi un esemplare della macchina con la quale i comandi tedeschi scambiavano tra di loro informazioni criptate. Macchina chiamata Enigma, che alla mezzanotte di ogni giorno modificava i propri codici rendendo impossibile ogni tentativo di decifrazione. Alan Turing -un matematico di Cambridge non ancora trentenne- venne posto alla direzione del progetto volto alla decodificazione di Enigma. Turing progettò e realizzò un’altra macchina –Bomba– in grado di raggiungere l’obiettivo, dando in questo modo un contributo fondamentale alla vittoria degli Alleati nella II Guerra mondiale. Di questa operazione, assolutamente segreta, vennero cancellate quasi tutte le tracce. E così quando nel 1951 Alan venne inquisito per omosessualità -reato rimasto in vigore in Gran Bretagna sino al 1967- non ci fu nessuno a difenderlo, a dimostrare quanto la nazione inglese gli dovesse. Condannato al carcere o alla castrazione chimica, Turing scelse la seconda soluzione. Alla fine preferì uccidersi, mordendo una mela con dentro del cianuro (Apple?). Nel 2009 il governo inglese formulò le scuse ufficiali per questo suicidio-omicidio e nel 2013 la regina Elisabetta II elargì a Turing la grazia postuma.
The Imitation Game racconta in modo classico e inevitabilmente fantasioso questa vicenda (i documenti furono appunto in gran parte distrutti), intersecando i piani temporali che dal processo degli anni Cinquanta vanno agli anni del conflitto e a quelli del College. In verità, in che cosa sia consistito il genio di Turing non viene mai davvero spiegato. Il titolo del film allude (senza parlarne mai) al celebre Test con il quale Turing volle sostenere la possibilità per le macchine non di pensare -questione secondo lui mal posta- ma di comportarsi come se stessero pensando. Se infatti un software (come il Siri dell’iPhone) risponde alle domande di un interlocutore in un modo indistinguibile dalle risposte che darebbe una persona, secondo Turing ciò dimostra che il software ha capacità logico-sintattiche analoghe a quelle di un cervello umano. Su questa base comportamentista Turing progettò la sua altrettanto famosa Macchina, la quale costituisce la struttura di base anche del computer sul quale sto scrivendo. Si tratta infatti di una macchina digitale che può compiere qualunque calcolo mediante la logica binaria dello 0/1, dell’accesso/spento. Turing era convinto che al più tardi entro gli anni Sessanta del Novecento le macchine/software sarebbero state indistinguibili dagli umani. E tuttavia sono passati quasi ottanta anni dall’articolo che diede inizio a tutto questo –On computable numbers, with an application to the Entscheidungsproblem (1936)- e nessun software è stato sinora in grado di superare il Test di Turing. La ragione l’hanno indicata molti filosofi -tra i quali John Searle con il suo celebre esperimento mentale denominato Chinese Room– e consiste sostanzialmente nel fatto che il pensiero è un’attività certamente anche sintattica ma soprattutto semantica e pragmatica. Pensare non vuol dire processare simboli, in forma binaria o in altro modo, ma conoscere il significato di quei simboli ed essere in grado di utilizzarli nel movimento spaziotemporale in cui l’esserci consiste. E questo nessun software/hardware conosciuto è in grado di farlo.
«Lo stesso Turing –che era stato spinto ai suoi studi anche dalla speranza che la mente del suo amico più caro e morto prematuramente esistesse ancora da qualche parte, seppure separata dai suoi atomi– riconobbe che intelligenza e mente non possono esistere senza una qualche relazione con il mondo» (La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, p. 230). Quell’amico si chiamava Christopher Morcom e Christopher è il nome che nel film Alan dà alla sua macchina. L’enigma più grande rimane il nostro corpomente e la sua coscienza d’esistere, comprese le passioni che lo intessono.

San Martino è sempre

Konrad Lorenz dimostra che l’aggressività nel mondo animale svolge una funzione biologica molto importante perché è indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva), all’evoluzione (aggressività adattativa), alla maturazione del singolo (aggressività esplorativa). L’aggressività diventata guerra rappresenta però «nell’attuale situazione storico-culturale e tecnologica dell’umanità il più grave di tutti i pericoli» (L’aggressività, Mondadori 1990, p. 66). Il paradosso è che proprio la componente biologica costituisce un possibile freno alla distruttività mentre molte norme culturali impongono -con le motivazioni più varie: religiose, nazionalistiche, economiche- di uccidere. Tutti i grandi predatori hanno dovuto infatti sviluppare nel corso della filogenesi una radicale inibizione a usare le loro armi naturali contro membri della stessa specie, pena l’inevitabile estinzione. Un lupo, ad esempio, non uccide un altro lupo che gli offre la gola in segno di sottomissione, quando basterebbe un semplice morso per finirlo. Qui l’inibizione è assai forte e agisce sistematicamente. Nell’uomo invece essa è assente in quanto egli è privo di armi naturali con le quali possa, in un sol colpo, uccidere una grossa preda: «Nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell’umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici finché, tutto d’un tratto, l’invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali» (Ivi, 314-315). Da qui il proliferare di una violenza senza freni, esercitata mediante armi che colpiscono da lontano e in modo anonimo, rafforzata dall’evidente contrasto fra la “nobiltà” dei valori etici -come la democrazia e i diritti umani- e il permanere di istinti fondamentali e atavici di aggressione, sottomissione, moltiplicazione delle proprie risorse. James Hillman osserva a ragione che la guerra è oggi «una devastante operazione high-tech eseguita da tecnici specializzati con un tocco delle dita», tanto che «sempre più distanti dalle distruzioni che innescano, i sicari possono starsene seduti, comodi e puliti, insonorizzati e deodorati, attenti solo ai pixel» (Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2005, pp. 114 e 191; su tutto questo cfr. la voce «Guerra» da me curata per il Dizionario di bioetica, Villaggio Maori 2012, pp. 182-184).
Una delle tragedie della guerra è che da essa sembra non si impari mai. Non soltanto dai conflitti più remoti ma anche da quelli recenti o addirittura ancora in corso. E quindi gli Stati Uniti d’America, con Gran Bretagna e Francia come loro più fedeli servitori, si preparano a un nuovo conflitto illegittimo sul piano dei diritto internazionale, pericolosissimo per gli sviluppi che potrà avere, totalmente distruttivo per i civili siriani. Perché? Lascio la parola a due esperti, diversi tra di loro ma convergenti nell’analisi.

Don Renato Sacco, di Pax Christi, sostiene che

«basta vedere a quello che è successo in Afghanistan, in Iraq, in Libia: il rovesciamento del capo del regime non ha portato affatto la pace. È una storia che si ripete sempre, con amarezza: noi abbiamo sempre cullato i dittatori, li abbiamo ritenuti nostri amici, li abbiamo armati e poi abbiamo detto che bisognava fargli la guerra. È successo con Saddam e poi con Gheddafi. La comunità internazionale ha fatto di tutto con la sua indifferenza per far precipitare la situazione, l’Italia stessa ha venduto le armi alla Libia e poi si è detto che bisognava bombardare. […] Chi oggi si scandalizza di fronte alle vittime siriane, se lo fa per arrivare alla guerra lo fa per interessi. Poi le vittime vengono dimenticate e non se ne parla più. In Iraq nel mese di luglio ci sono stati mille morti, siamo arrivati ai livelli di violenza del 2006 e nessuno parla più. Quando si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per amore delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi. […] Una chiave di questo precipitare degli eventi potrebbe essere quella delle pressioni esercitate da parte delle lobby delle armi. Qualcuno parla già di accordi economici e militari tra Usa e Arabia Saudita. […] L’intervento armato a sostegno dell’uno o dell’altro schieramento porterebbe alla catastrofe totale, renderebbe esplosiva tutta l’area mediorientale già instabile con conseguenze devastanti per tutti, a cominciare dall’Europa» (Fonte: «Le vittime di Assad sono un pretesto»).

Massimo Fini afferma che

«tra l’altro non si sa affatto se Assad ha usato armi chimiche, ci sono gli ispettori ONU per questo, o l’ONU non conta nulla? Evidentemente non conta nulla perché quando serve c’è il cappello ONU, se non c’è il cappello ONU si aggredisce lo stesso. Questo è avvenuto in Serbia nel ’99, in Iraq nel 2003 e in Libia recentemente. Tutte azioni e aggressioni senza nessuna copertura ONU. Si dovrebbe per lo meno aspettare la relazione degli ispettori. C’è un precedente che dovrebbe consigliare prudenza, non dico agli Stati Uniti che non ne hanno, ma ai suoi alleati, ed è quello dell’Iraq, dove sostenevano che Saddam Hussein avesse le armi chimiche, di distruzione di massa, e poi non le aveva. Certo, lo sostenevano perché gliele avevano date loro a suo tempo, gli Stati Uniti, in funzione anti sciita e anti curda, però non le aveva più perché le aveva usate ad Halabja, gasando cinquemila curdi. […] Obama aveva tracciato una linea rossa, ma chi lo autorizza a tracciare linee rosse in altri paesi? Gli americani hanno sfondato un principio di diritto internazionale che era valso fino a qualche decennio fa, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. I diritti umani sono il grimaldello con cui in realtà intervengono dove vogliono e quando vogliono, anche perché non hanno più contraltare, la Russia non è più una superpotenza. […] Tutti questi interventi si sono sempre risolti in altri massacri, prendiamo l’Iraq, l’intervento americano ha causato direttamente o indirettamente tra i 650 mila e 750 mila morti! Quindi ogni intervento cosiddetto umanitario si risolve in una strage umanitaria» (Fonte: La Siria e la terza guerra mondiale).

Giuseppe Ungaretti era stato un fervente interventista e si era arruolato -partendo da Alessandria d’Egitto- nell’esercito italiano che combatteva contro l’Austria-Ungheria. Ma si rese subito conto, al di là della propaganda bellica, di quale sia la vera natura della guerra. Scrisse allora queste parole: «Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro // Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto // Ma nel cuore / Nessuna croce manca // È il mio cuore / Il paese più straziato» («San Martino del Carso», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 51).
E anni dopo così si espresse sulla «bestialità e l’imperialismo» che delle guerre sono sempre la vera radice:

 

 

 

Whisky

La parte degli angeli
(The Angels’ Share)
di Ken Loach
Con: Paul Brannigan (Robbie), John Henshaw (Harry), Gary Maitland (Albert), Jasmin Riggins (Mo), William Ruane (Rhino), Siobhan Reilly (Leonie), Renana Raz (Esther)
Gran Bretagna, Francia, Belgio, Italia, 2012
Trailer del film

Tribunale di Glasgow. Vari improbabili ladruncoli, teppisti e truffatori ricevono le loro condanne. A Robbie il giudice impone 300 ore di servizi sociali. È la sua ultima occasione per evitare lunghe pene detentive. Dopo aver visitato un’antica distilleria alcuni di questi ragazzi senza lavoro e senza futuro sognano l’occasione della loro vita. A breve, infatti, si terrà un’asta per la vendita di una botte dove si conserva un whisky rarissimo. Rubarne il contenuto e venderlo ai collezionisti significherebbe darsi un’altra possibilità. Nonostante la loro imbranataggine, i quattro riescono (o quasi) nell’impresa.
Periferie, disoccupazione, cinismo dei poteri costituiti, violenza e solidarietà tra gli esclusi. I temi del cinema politico di Ken Loach ritornano in questa commedia che coniuga il riso (l’impresa del gruppo), i sentimenti (Robbie è diventato padre e vuole a tutti i costi un futuro diverso per suo figlio), il dramma (non mancano i pestaggi e un diffuso clima di violenza). Non è un grande film ma neppure un film banale, come molti di quelli che passano sugli schermi. La parte degli angeli alla quale il titolo fa riferimento è, nel linguaggio degli specialisti di liquori, quella che evapora senza lasciare tracce. Ma è anche un titolo metaforico dell‘intero cinema di Loach, dedicato agli ultimi che saranno i primi.

Spiando

La talpa
(Tinker Tailor Soldier Spy)
di Tomas Alfredson
GB, Francia, Germania, 2011
Con: Gary Oldman (George Smiley), John Hurt (Controllo), Benedict Cumberbatch (Peter Guillam), Colin Firth (Bill Haydon), David Dencik (Toby Esterhase), Toby Jones (Percy Alleline), Ciarán Hinds (Roy Bland), Tom Hardy (Ricki Tarr), Kathy Burke (Connie Sachs), Mark Strong (Jim Prideaux), Svetlana Khodchenko (Irina)
Trailer del film

Ai vertici dei servizi segreti britannici -cinque uomini più il capo- si annida una spia che informa costantemente il KGB di ogni mossa, decisione, progetto. Di questo è convinto Control, il capo dei servizi, tanto da inviare un proprio uomo a Budapest per ottenere il nome del responsabile. Ma è una trappola e l’agente viene (forse) ucciso. Control è costretto alle dimissioni, seguìto da George Smiley, uno dei cinque, il suo uomo più fidato. Dopo qualche tempo però il ministero incarica Smiley di fare luce su questa presunta talpa. La trama a questo punto diventa assai intricata ma anche lineare, una sorta di labirinto-retta raccontato alternando il presente narrativo a dei flashback, l’azione anche più cruda allo scavo nei sentimenti e nelle passioni di queste spie che mostrano un inconsueto lato romantico, tanto da rischiare tutto per delle donne. E l’amore corre come una filigrana tra le scene, gli istanti, gli sviluppi di un film assai elegante -tratto da un romanzo di John le Carré- nel quale sembra di percorrere gli ambienti, di annusare gli odori di vecchie stanze, di sentire l’aria che ci circonda a Budapest come a Istanbul o a Londra. Gary Oldman è un quasi impassibile funzionario dell’inganno, al quale però viene meno il respiro quando sua moglie…
Il titolo originale, forse meno banale rispetto alla traduzione adottata, fa riferimento ai soprannomi che Control aveva dato ai suoi colleghi del servizio segreto. Anche se soltanto l’ultima parola rappresenta la x dell’equazione, non a caso i termini sono quattro.

The Ghost Writer

di Roman Polanski
(diventato in italiano un banale L’uomo nell’ombra)
USA-Germania-Francia, 2010
Con: Ewan McGregor (The Ghost), Pierce Brosnan
 (Adam Lang), Olivia Williams (
Ruth Lang), Kim Cattral
 (Amelia)
Dal romanzo di Robert Harris
Trailer del film

Uno scrittore senza nome, un autentico Ghost Writer, viene assunto per redigere in un mese l’autobiografia di Adam Lang, ex primo ministro inglese laburista, con una giovinezza sessantottina e poi totalmente prono alle volontà del governo statunitense nella cosiddetta “lotta al terrorismo”. Lang vive negli USA, protetto dal governo di quel Paese che lo difende dall’accusa di aver consegnato dei prigionieri/imputati alle torture americane. Il precedente Ghost Writer è morto in circostanze non chiare ma ha lasciato un dattiloscritto nel quale si nasconde la chiave -alla lettera- che spiega le azioni e i rapporti di Lang. Nel finale gli eventi precipitano e si chiariscono ma quando tutto sembra ormai risolto il destino diventa beffardo.

Tony Blair e Alfred Hitchcock sono i veri protagonisti del film. A Blair è ispirata la figura di un ex primo ministro tanto vanesio quanto servile sino a sacrificare gli interessi del proprio Paese a quelli personali e di un altro Stato. La tecnica lentamente disvelatrice, fuorviante (le figure femminili) e ritornante è quella del maestro Alfred ma Polanski sa intessere le immagini di un’angoscia politica che in Hitchcock non c’è. Film dunque tanto spettacolare quanto profondo nel mestare e rimestare la natura criminale del potere, poiché «certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza / fino a un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. / Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni» (De André, «Nella mia ora di libertà», da Storia di un impiegato [1973]).

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