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Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

Prigione

Ariaferma
di Leonardo Di Costanzo
Italia, 2021 (Festival del Cinema di Venezia 2021)
Con: Toni Servillo (Gaetano Gargiulo), Silvio Orlando (Carmine Lagioia), Fabrizio Ferracane (Franco Coletti), Pietro Giuliano (Fantaccini), Roberto De Francesco (Buonocuore), Salvatore Striano (Cacace), Nicola Sechi (Arzano)
Trailer del film

Tra i monti della Sardegna. Un antico carcere sta per essere chiuso e i detenuti trasferiti. Un problema impedisce che dodici di loro vengano condotti alla sede di destinazione. Il direttore lascia un gruppo di guardie carcerarie coordinate da un ispettore determinato ma anche capace di ascolto. Di lui non si sa nulla. Come nulla si sa di quasi tutti i personaggi. Non si sa, tranne che per due di loro, perché siano in carcere. Non c’è passato. Non c’è futuro. Solo l’aria ferma di un presente assoluto nel quale le relazioni, i sentimenti, le gerarchie vengono saggiate al fuoco dei silenzi, della solitudine, del vuoto degli spazi e delle memorie. Ognuno deve rimanere al proprio posto. Ma in un carcere il posto è lo stesso per tutti, è l’essere rinchiusi, carcerieri e carcerati. Ciascuno deve rispettare le regole ma la solitudine, il vuoto, gli spazi funzionano quando le regole vengono almeno in parte infrante. Ognuno deve mangiare e il cibo diventa il più chiaro vettore delle relazioni e dei sentimenti. L’ακμή viene infatti raggiunto quando un’interruzione della corrente elettrica induce gli abitatori di questo microcosmo a oltrepassare le regole, i ruoli, i timori per generare un istante di condivisione della comune miseria, del comune buio che tutti trapassa.
Un film sobrio, secco, silente. Nel quale le montagne che circondano il carcere assistono con millenaria indifferenza al movimento circolare delle formiche che lo abitano. The Inner Prison, la prigione interiore, è il titolo internazionale del film. Una metafora della condizione di noi tutti, della prigione che è l’esistere. Ma a volte c’è una porta che si apre e attraverso la quale riverbera una sostanza limpida e pulita, lucida, morbida e metallica. Pervasiva e profonda. Luce.

Programmi 2021-2022

Nell’anno accademico 2021-2022 insegnerò Filosofia teoretica, Epistemologia e Filosofia delle menti artificiali. Pubblico i programmi che svolgerò, inserendo i link al sito del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania per tutte le altre (importanti) informazioni relative ai miei corsi.
I link che compaiono qui sotto nei titoli dei libri in programma portano a presentazioni e recensioni dei testi o, nel caso dei saggi in rivista, ai pdf dei testi stessi.

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Filosofia teoretica
TEOLOGIE GNOSTICHE

Testo del Simbolo niceno-costantinopolitano (edizione a scelta, anche digitale)

Testi gnostici in lingua greca e latina (a cura di Manlio Simonetti, Valla-Mondadori 2009)

-Emil Cioran, Il funesto demiurgo (Adelphi 1986)

-David Benatar, Meglio non essere mai nati (Carbonio Editore 2018)

-Alberto G. Biuso, Platone a Colmar. Una lettura gnostica de L’essenza della verità di Heidegger in «InCircolo Rivista di filosofia e culture», Numero 4 – Dicembre 2017, Pagine 111-129

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Epistemologia
REALISMO ONTOLOGICO E MECCANICA QUANTISTICA

-John Losee, Filosofia della scienza. Un’introduzione (Il Saggiatore 2016)

-Lee Smolin, La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti (Einaudi 2020)

-Alberto G. BiusoTempo e materia. Una metafisica (Olschki 2020)

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Filosofia delle menti artificiali
IL DIGITALE, LE EPIDEMIE E I CORPI COLLETTIVI 

-Naief Yehya, Homo cyborg (Elèuthera, nuova edizione 2017)

-Kazuo Ishiguro, Klara e il Sole (Einaudi 2021)

-Aa. Vv., Krisis. Corpi, Confino e Conflitto (Catartica Edizioni 2020)

-Aa. Vv., Divagazioni filosofiche ai tempi del Coronavirus (Corisco Edizioni 2020, edizione digitale gratuita); i saggi di P. Perconti, A.G. Biuso, M. Carapezza, V. Cardella, M. Graziano, R. Manzotti, A. Pennisi-D. Chiricò (§§ 1-3), A. Schiavello, C. Scianna

-Aa. Vv., Koiné 2020. Tempi Covid moderni; i saggi di A. Dignös, F. Mazzoli, A.G. Biuso, S. Bravo, M. Guastavigna, L. Dorato, F. Mazzoli-G. Paciello

-Alessandro Manzoni, Storia della Colonna infame (edizione a scelta)

Grecità e Induismo

Grecità e Induismo
in Chi cerca…cerca. Un profilo a tutto tondo di Augusto Cavadi
A cura di Crispino Di Girolamo e Sylwia Proniewicz
Il Pozzo di Giacobbe 2020, pp. 224
Pagine 99-107

Ho curato molto volentieri i contributi filosofici compresi nel volume che gli amici di Augusto Cavadi hanno voluto dedicargli per i suoi settanta anni. Il libro è una vivace testimonianza del prisma che la vita di Augusto è, della molteplicità e fecondità delle sue relazioni.
Uno degli ambiti di ricerca al quale mi sembra che Cavadi dedichi sempre più cura e interesse è quello che si racchiude nel termine spiritualità. Nel mio contributo ho dunque tentato un sintetico confronto tra due modi di intendere e vivere la complessità dell’esistenza – “spiritualità” vuol dire anche questo –, modi tra di loro più vicini di quanto si immagini: la sapienza greca e la sapienza induista.
Il saggio si articola in una breve introduzione e in tre paragrafi:
1 La filosofia come iniziazione
2 Filosofia e induismo
3 Gnosi greca e gnosi induista

Il testo presenta una grave lacuna: ho infatti indicato l’autore dell’inno con il quale ho chiuso il saggio come «uno degli ultimi sapienti pagani» ma ho trascurato di aggiungere il nome in nota (cosa davvero incomprensibile…). Cerco di rimediare qui: i versi sono del filosofo neoplatonico Proclo (412-485). È il suo quarto inno, dal titolo A tutti gli dèi (traduzione di Davide Susanetti):

«Ascoltatemi, dèi che governate la santa sapienza,
voi che avete acceso il fuoco dell’ascesa,
voi che elevate agli immortali le anime umane
purificate dai misteri ineffabili dei vostri inni,
lontano dai tenebrosi recessi della caduta.
Ascoltatemi, dèi della grande salvezza,
concedetemi, dai sacri libri, una pura scintilla
di luce, una scintilla che dissolva la nebbia:
un chiaro segno che un dio immortale
dall’uomo distingua. Che mai un demone
nefasto mi sommerga nei flutti dell’oblio,
spegnendo il ricordo dei beati. Che mai
un gelido castigo m’incateni quaggiù:
fredde sono le onde della nascita,
la mia anima non vuole più a lungo vagare.
Sovrani della fiammante sapienza, rivelate
i misteri, rivelate i riti delle sacre parole
a chi si affretta sul sublime cammino».

Tra i testi della filosofia induista che ho citato ne riporto qui uno -magnifico- dedicato al Tempo. È tratto dagli Atharveda (अथर्ववेद), una delle quattro parti che compongono i Veda. Il brano è il XIX, 53 (traduzione di Valentino Papesso):

«1 Il Tempo tira (il carro), cavallo dalle sette redini, milleoculo, esente da vecchiaia, ricco di molteplice seme. Questo (carro) montano i savi ispirati; le ruote di esso sono tutti gli esseri.
[…]
6 Il Tempo produce la terra, nel Tempo arde il sole; nel Tempo sono tutti gli esseri, nel Tempo l’occhio guarda da ogni parte.
7 Nel Tempo la mente, nel Tempo il respiro, nel Tempo è contenuto il nome: quando il Tempo è venuto, si rallegrano tutte queste creature».

L’immagine di apertura fu scattata da Henri Cartier-Bresson nel 1948 nel Kashmir. Non rappresenta né greci né indù ma è colma della pienezza del sacro.

Androidi

Philip K. Dick
Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
(Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)
Traduzione di Riccardo Duranti
Introduzione e cura di Carlo Pagetti
Postfazione di Gabriele Frasca
Fanucci, 2003
Pagine 286

Nel suo ancora barocco e già postmoderno e visionario romanzo, Dick ha attinto alla propria lucida capacità di comprendere le tensioni della contemporaneità radicandole nel presente antichissimo dei simboli e dei miti gnostici. In Do Androids Dream of Electric Sheep? l’abominio della desolazione di cui parlava il profeta antico assume tutta la fisicità della “palta” (kipple, nell’originale), l’inarrestabile avanzare della polvere, dei rifiuti, del disordine.
La vittoria da sempre stabilita dell’entropia che si estende su tutte le cose, che diventa tutte le cose perché implicita nella «dispotica forza del tempo» (pag. 88) trasforma gli esseri viventi, gli oggetti, le città, la terra «nell’abietto abisso del mondo della tomba» (96) dal quale spira «il fetore della morte» (32) e un silenzio che si riverbera come un bagliore, che percuote il mondo «con una tremenda energia assoluta, come venisse generato da un’immensa turbina» (44). Una desolazione che «era sulla scia di tutte le cose» (238) perché fondamento di ogni cosa creata, generata dalla stessa sostanza dell’ombra difettosa, assurda, atroce da cui un funesto demiurgo ha tratto ogni entità apparentemente reale.
Tale è il fondamento metafisico -coerente sino al dolore- di questo libro. Ma, appunto, Do Androids oltrepassa la grande tradizione gnostica rendendola ancora una volta uno sguardo della mente teso a comprendere il presente e –rispetto all’epoca in cui il romanzo venne scritto, il 1968- a capire ciò che presente sarebbe diventato, ciò che ora è divenuto reale: l’ibridazione, la trasformazione degli umani in parti e strutture dei computer e della Rete. Umani, noi, che lavorano, insegnano, apprendono, dialogano, fingono di incontrarsi rimanendo per intere giornate fermi davanti a un monitor (si chiama digital labor; espressioni come ‘lavoro agile’ e ‘smart working’ sono degli eufemismi ideologici), abitatori di un mondo privo di spessore, carne, calore, fatto di algoritmi e non di corpi; un mondo alienato alla radice, i cui effetti sulla salute e sulla relazionalità vanno diventando pericolosamente chiari.
Nel romanzo di Dick l’ibridazione assume la tonalità anche ironica dell’assenza di un criterio che consenta davvero di distinguere chi fra i vari personaggi è un umano e chi un androide. Buster Friendly e i suoi inesauribili amici televisivi sono chiaramente delle macchine mediatiche; l’ispettore Garland si rivela ben presto anch’egli un droide; il divino Wilber Mercer è un invecchiato fotogramma che si ripete all’infinito; gli animali abitano sempre al confine tra naturalità ed elettronica –soprattutto il gatto del capitolo 7 che Isidore non riesce a salvare-; Rachel è una macchina colma d’amore e d’inganni, di quell’inganno che l’amore è sempre, e gli stessi cacciatori di taglie, Rick Deckard compreso, non sono sicuri della propria identità. «E così la distinzione tra esseri umani autentici vivi e strutture umanoidi andava a farsi benedire» (164), come ammette il protagonista in un momento cruciale della sua giornata da Ulisse joyciano, quel 3 gennaio 1992 in cui accadono tutte le vicende del racconto. E nel penultimo atto che precede il ritorno dalla sua Penelope, nel mare della desolata tranquillità in cui il pianeta è stato trasformato, Deckard afferma «sono diventato io stesso un essere innaturale» (257).
E i veri androidi? Che cosa sentono, provano, vivono queste macchine quasi perfette, i robot così avanzati della serie Nexus-6? Essi sembrano rivelare la propria natura d’artificio nella facilità con cui si fanno rintracciare e uccidere, nella rassegnazione con la quale cedono ancor prima di combattere, nella consapevole tristezza con la quale sanno che il loro ciclo vitale non va oltre i quattro anni, nella freddezza inquietante e rigida del loro essere, nonostante la forza del loro intelletto: «era come se una particolare e malevola astrattezza pervadesse tutti i loro processi mentali» (179), privandoli della «consapevolezza emotiva», di quella «percezione sensibile del vero significato […] Solo la vuota definizione formale e intellettuale dei singoli termini» (213). Intelligenze puramente sintattiche, prive della profondità semantica e incapaci, pertanto, di stare davvero al mondo. E tuttavia la splendida replicante che è Rachel afferma che «noi androidi non riusciamo a controllare le nostre passioni fisiche e sensuali» (219) e per definire i pensieri di queste entità ho utilizzato più sopra parole come coscienza, tristezza, rassegnazione che sono termini, appunto, umani. Il fatto è che questi androidi sono creature hegeliane, sono «il servo […] divenuto più abile e sagace del padrone» (54), sono l’altro dell’umanità in cui l’umanità si è trasformata, in una ibridazione estrema proprio perché indistinguibile, in una contaminazione che per il solo fatto di essere in Dick tutta negativa non per questo risulta meno significativa del destino di complementarietà verso cui siamo –come specie e come singoli- avviati.
La prova che l’ibridazione costituisca uno dei nuclei generatori del romanzo la si trova nell’apparente digressione che l’Autore dedica a un dipinto: «il quadro mostrava una creatura calva e angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che la circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per esser contenuta nel proprio urlo». Questa descrizione dell’Urlo di Munch esprime certamente e sino in fondo l’angoscia di cui gli umani sono capaci, la disperazione che li attanaglia, la tenebra ancora una volta gnostica che, letteralmente, li invade. E tuttavia il commento di Phil Resch al quadro è il seguente: «secondo me è così che deve sentirsi un droide» (152). È così che deve sentirsi quell’entità protesica, inestricabilmente artificiale e naturale, che siamo noi, ora, noi immersi nel tempo perché di tempo intrisi, da sempre finiti e per sempre limitati.

Sul politeismo

Mai avvennero e sempre sono. Sul politeismo 
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 3 – 2020
Pagine 69-90

Indice
-Unità e molteplicità
-La religiosità greco romana
-Cristianesimo e filosofia
-Persecuzioni
-Giuliano: restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo
-Gnosi e iniziazione
-Il mito
-Il sacro

Abstract
The aim of this paper is to analyze the transition from mediterranean polytheisms to christian monotheism from an historical and, above all, theoretical prospective. The life and work of Emperor Julian (360–363) constitute a fundamental junction to understand the richness of what has been lost and the consequences of the prevalence of an exclusive and anthropocentric conception of the sacred, which has always been enemy of philosophy. The analysis pays particular attention to the issue of persecutions that paganism suffered by the winner christians. The title refers to a passage by Salustio, Julian’s counselor and friend.

Come forse si evince dall’indice, questo è il saggio sinora più importante da me dedicato in modo sistematico a uno degli ambiti di ricerca che sento più vicini a ciò che sono e a ciò che desidero capire e sapere: «la vitalità delle filosofie e delle religioni pagane». Per queste filosofie il fine e la sostanza di ogni mortale consistono nel rinascere continuamente dalle tante morti che ci avvolgono nel nostro dolore, rinascere da noi stessi e non soltanto dalla madre mortale che ci ha dato alla luce. E, come Dioniso, essere Lúsios, liberati.
Nei politeismi non ha senso contrapporre naturale e soprannaturale poiché la molteplicità degli dèi si coniuga alla unità monistica del cosmo, nella quale convergono identità e differenza, singolarità e pluralità, maschio e femmina, vita e morte, senso e significato, somatico e psichico.
La Gnosi cercata e vissuta nell’intero arco del vivere e del pensare dei Greci, da Anassimandro a Proclo, è un percorso che conduce al sapere tramite il vedere ciò che a un primo sguardo rimane precluso. Filosofia è anche l’oltrepassamento dell’oscurità in un percorso iniziatico della mente dentro l’essere, la verità, il tempo. La grandezza del paganesimo sta nel sapere e non nello sperare. Anche per questo una rappresentazione adeguata del divino pagano sono i κοῦροι, il loro enigmatico sorriso.
Salustio, amico e consigliere dell’imperatore Giuliano, così riassunse il significato e la potenza del politeismo: «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ ἀεί», «queste cose mai avvennero e sempre sono» (Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, Sugli dèi e il mondo, 4, 8, 26).

Dürrenmatt / Gnosi

Friedrich Dürrenmatt
L’incarico
ovvero
Sull’osservare di chi osserva gli osservatori
Novella in ventiquattro frasi
[Der Auftrag oder Vom Beobachten des Beobachters der Beobachter. Novelle in vierundzwanzig Sätzen, 1986]
Traduzione di Giovanna Agabio e Roberto Cazzola
Adelphi, 2012
Pagine 108

La storia, certo. La storia contemporanea. Con le sue guerre senza fine, pur se definite ‘a bassa intensità’. Con i suoi conflitti politici tra l’Occidente e il mondo arabo. Il mondo arabo come luogo nel quale l’Occidente prova le proprie armi, le usa, le distrugge e quindi può tornare a produrne, «un ciclo geniale per mantenere a pieno ritmo l’industria bellica e con ciò l’economia mondiale» (p. 85).
La storia, certo. Quella privata di uno psichiatra svizzero, di sua moglie che viene dichiarata morta tra le rovine di un deserto mediorientale, stuprata, strangolata, dilaniata dagli sciacalli.
La storia, certo. Quella di tecnologie a supporto della guerra e della violenza; tecnologie televisive e digitali mediante le quali tutti osservano tutti e nessuno può sfuggire, tanto da sembrare «talora che la natura osservi a sua volta l’uomo che la osserva e diventi aggressiva […] mentre i nuovi virus, i terremoti, le siccità, le inondazioni, gli uragani, le esplosioni vulcaniche, eccetera, sono ben mirate misure difensive della natura osservata nei confronti di chi la osserva» (19-20).
La storia, certo. Quella di una giornalista che viene incaricata dallo psichiatra di scoprire che cosa sia accaduto in quel deserto a sua moglie. Lei che accetta e che precipita in una serie di vicende grottesche, violente, estreme, sino a un finale tecnico-politico che si conclude con il sarcasmo di una nascita. 

Ma non è la storia, non sono le storie la trama di questo romanzo, come di ogni scritto di Dürrenmatt. Il tema, il suo tema, è «la terribile stupidità del mondo» (104), osservata con lo stesso gelo che lo scrittore attribuisce qui a un fotografo zoppo dal nome Polifemo, il quale «veniva osservato mentre osservava […] lui, Polifemo, era un dio caduto» (90-91) e il suo amico ed ex commilitone Achille è un «dio idiota» (104).
Termini, vicende, trame e sentimenti che confermano la natura profondamente gnostica dell’opera di Friedrich Dürrenmatt, nella quale l’accadere è generato da «un dio contaminato dalla sua creazione, un dio che stermina le sue creature» (99), osservare il quale significa guardare «dentro un gelido orrore» (92).
Tutto trema, si scioglie, si dissolve in un tempo che non redime, nel quale si è gettati. Tutto accade, acceca, annebbia in un mondo che è stato generato dalla potenza orba e ubriaca di Yahweh/Yaldabaoth, il quale nella sua presunzione ha generato «questa vita a rovescio ed enigmatica, intollerabile», come scrive Kierkegaard (alcuni personaggi del romanzo sono danesi) nella frase che fa da epigrafe al libro e che viene ripresa a p. 60. Tutto appare e sparisce in un «processo che si risolve nel puro nulla, dato che persino i protoni finiscono per disintegrarsi, e in questo ciclo terra, piante, animali ed esseri umani nascono e muoiono» (88-89).
F., questo il nome della giornalista che si avventura dentro il male, «si sentiva come una figura degli scacchi spinta di qua e di là» (69). Gli scacchi. Una geometria nella quale la pura razionalità del calcolo è metafora della guerra. Guerra che è ovunque in questa «novella in ventiquattro frasi» che infatti dilata per 24 volte il virtuosismo di uno dei primi racconti di Dürrenmatt, Il figlio (1943), dove in un unico denso periodo si mostra l’essenza selvaggia dell’uomo roussoviano, ritenuto per natura innocente.
I 24 capitoli de L’incarico sono tutti composti da un unico e lungo periodo, il libro consiste in 24 frasi che narrano una vicenda assai strana ma dall’inquietante sapore familiare, «in un grumo di odio e di ribrezzo» (14). Il grumo della storia.

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