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Sulla Gnosi

Gnosticismo antico e Gnosi contemporanea
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 6 – 2023
Pagine 53-82

Indice
-Definizioni della Gnosi
-Vangeli gnostici
-Nag Hammadi
-Gnosi occidentale e orientale
-Leopardi, Camus, Céline, Cioran
-Heidegger gnostico
-Kubrick gnostico

Abstract
The paper analyzes the complexity and plurivocity of ancient Gnosticism by showing the persistence of deep Gnostic roots in some of significant expressions of contemporary philosophy and art: from Leopardi to Cioran, from Heidegger to Kubrick. Gnosis emerges there as one of the most fruitful perspectives for understanding human life, history and time.

Il saggio analizza la complessità e la plurivocità dello gnosticismo antico mostrando il permanere di profonde radici gnostiche in alcune significative espressioni della filosofia e dell’arte contemporanea: da Leopardi a Cioran, da Heidegger a Kubrick. La Gnosi vi emerge come una delle prospettive più feconde per comprendere la vita umana, la storia, il tempo.

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Sono contento di aver pubblicato un saggio un po’ più sistematico su un tema che studio da tempo e le cui tracce si possono scorgere in numerosi miei testi.
Ho tentato prima di tutto di definire nel modo più chiaro possibile le strutture concettuali della Gnosi perenne distinguendola dallo Gnosticismo come sua specie particolare, emersa nel II-III secolo e.v.
La Gnosi è una delle manifestazioni più complesse e plurali del tentativo umano di spiegare a se stesso la propria natura e di rispondere all’interrogativo insieme teologico ed esistenziale: unde malum? Ho cercato di evidenziare continuità e differenze tra la Gnosi mediterranea e quella orientale e di far emergere la forte impronta politica che pervade questo approccio al mondo poiché conoscenza, redenzione e libertà diventano anomismo, l’affrancamento da norme eteronome. Soprattutto ho cercato di far parlare direttamente gli gnostici antichi e quelli contemporanei,
La conclusiva bibliografia vorrebbe costituire un invito a proseguire da sé lo studio di questa metafisica del tempo redento, di questo barlume di intelligenza che spezza l’oscurità e fa vedere.
Il testo non è breve, 30 pagine, ma spero che chi lo leggerà ne trarrà ragione di gioia, poiché questo è la Gnosi. Una tonalità di vita che è stata ben riassunta da uno gnostico contemporaneo come Albert Camus: «Au milieu de l’hiver, j’apprenais enfin qu’il y avait en moi un été invincible; Nella profondità dell’inverno ho alla fine compreso che dentro di me abita un’estate invincibile», Retour à Tipasa, in «L’été» (1952).

 

Heidegger e la Gnosi

Recensione a:
Heidegger e la Gnosi
di Lucrezia Fava
Mimesis 2022, pp. 353
in Giornale di Metafisica
Numero 2/2022 [ma uscito nel 2023]
Pagine 610-613

La costellazione teoretica di Martin Heidegger e la luce esistenziale della Gnosi convergono e si raccolgono in un libro che descrive movimenti e tematiche religiose ma non è teologia, che attraversa le tensioni e i drammi dei primi secoli del Cristianesimo ma non è storia, che analizza le testimonianze letterarie di alcuni tra i miti fondanti la nostra civiltà – caduta, colpa, ritorno, redenzione – ma non è letteratura o filologia, che affronta concetti come l’essere, la verità, il tempo ma non è metafisica.
Heidegger e la Gnosi è infatti teologia, storia, letteratura, metafisica, racchiuse in un percorso nel quale queste esperienze dell’esistere e del pensare si illuminano l’una con l’altra. Nelle sue pagine il rigore dell’ermeneutica è pari alla passione dello stare al mondo e la filosofia mostra ancora una volta che il suo radicarsi in storie, forme, itinerari complessi ha come senso e obiettivo la comprensione della nostra condizione di enti che abitano il tempo, che cercano la luce.

Gnosi / Nietzsche / Metaverso / Poesia

Da martedì 18 a giovedì 20 aprile 2023 il filosofo e poeta Eugenio Mazzarella parteciperà ad alcuni eventi che si svolgono a Catania, a due dei quali collaborerò anch’io.
Li riassumo sinteticamente qui:

-martedì 18 aprile, ore 16.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sala Rotonda del Coro di Notte, presentazione del volume di Lucrezia Fava Heidegger e la Gnosi (Mimesis 2022);
-mercoledì 19 aprile, ore 10.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 252 (e non aula A4 come indicato nella locandina) lezione per gli studenti di Filosofia teoretica (e per chiunque fosse interessato) su Nietzsche / Metaverso;
-mercoledì 19 aprile, ore 18.00, libreria Feltrinelli, dialogo con Giuseppe Frazzetto e Lucrezia Fava su Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022);
-giovedì 20 aprile, ore 10.30, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 31, dialogo sulla più recente raccolta poetica di Mazzarella, Cerimoniale (Crocetti editore 2023)

I primi due eventi sono organizzati dall’ASFU (Associazione Studenti di Filosofia Unict) e dal progetto di ricerca di Ateneo EuRoad (Europa Tràdita).

 

 

 

«Risorsa infinita, perpetua festa»

Emil M. Cioran
La tentazione di esistere
(La tentation d’exister, Gallimard 1956)
Trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti
Adelphi, 2022
Pagine 215

Segno di contraddizione, gioco di contraddizione, è la riflessione di Emil Cioran. A partire dal rimprovero mosso a chi abbandona la propria lingua d’origine – «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni» (p. 57) – e l’averla appunto abbandonata. Proseguendo con un’articolata e ampia condanna dello scrivere scritta da chi ha fatto della scrittura la propria esistenza quotidiana. Per arrivare infine alla esatta denuncia rivolta alla filosofia moderna di aver instaurato «la superstizione dell’Io» (21) e imperniare poi l’intera propria meditazione su una soggettività angosciata, depressa, malinconica, triste; ammettendo, in riferimento agli individui e alle civiltà, di essere diventato «il fanatico di una carogna» (24).
E tuttavia la lucidità di Cioran va di slancio oltre le proprie debolezze e contraddizioni e coglie con sintetica efficacia alcuni dei momenti chiave del contemporaneo e della storia. 

Il tradimento di molti intellettuali, ad esempio, che preferiscono le catene dell’illusione alle «peregrinazioni della Conoscenza» (37), che scelgono il conforto di una sinecura al compito della libertà. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno corifei di una filosofia della storia nata dal convergere della Provvidenza cristiana e del Progresso borghese con le vittorie coloniali dei conquistadores. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno in ogni loro riga e parola difensori del messianismo statunitense, di un’America che «si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza […] un mostro di superficialità» (33). Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, abbandonano lo spirito critico e scettico che ha  caratterizzato la filosofia europea da Socrate in avanti per farsi portatori anch’essi, al modo dei preti, «di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba» (38), come quella che ha trasformato la scienza in una prospettiva «minacciosa, fonte di spavento» (190) e – con la vicenda dell’epidemia Covid – in una pratica di violenza collettiva poiché «chi trema sogna di far tremare gli altri, chi vive nello spavento finisce nella ferocia» (173).

A fondamento di queste e altre tristezze sta anche per Cioran la fine del mondo pagano, così efficacemente richiamato: «Dove sono la nostra sensibilità innica, l’ebbrezza delle origini, l’alba dei nostri stupori? Gettiamoci ai piedi della Pizia, ritorniamo alle nostre antiche aspirazioni: filosofia dei momenti unici, sola filosofia» (154). La fine del paganesimo è stata causata e affrettata (è la stessa motivazione che ne dà Nietzsche) da una crisi interna di quel mondo che aveva perduto fiducia, ironia e sorriso – il sorriso dei κοῦροι – ma che fu comunque il cristianesimo a uccidere. Alla gioia e alla tragedia del mito greco il cristianesimo sostituì «una mitologia di schiavi» che, ad esempio nell’Apocalisse, si mostra come «vendetta, bile e avvenire malsano» (89) e nel latino cristiano trasforma la bella «lingua di Tacito» in una parlata «deformata, banalizzata, costretta a subire le farneticazioni sulla Trinità!» (118).
Radice del cristianesimo è naturalmente l’Antico Testamento, è Yahweh, un dio «attaccabrighe, rozzo, lunatico, verboso», che «poteva al massimo soddisfare le necessità di una tribù», un dio interpretato da Cioran in una chiave anche gnostica che ne fa «un usurpatore che subodorando il pericolo teme per il suo regno e terrorizza i suoi sudditi» (72). A diffondere il culto di questo demiurgo usurpatore fu Paolo di Tarso, la cui teologia è «un’orgia di antropomorfismo» (160).
Su Paolo, e sul suo prosecutore Lutero, Cioran riprende le analisi e anche il linguaggio di Nietzsche, descrivendo la patristica che da Paolo nacque come un mondo di nemici delle Muse, di «forsennati che ancora oggi ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per sottomettere un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle vette del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto» (163). Per quanto riguarda Martin Lutero, «questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato» (167).
A proposito del plesso ebraismo-cristianesimo, Cioran può contribuire a intendere più correttamente le pagine dei Taccuini neri di Heidegger dedicati al rapporto tra cultura ebraica e desertificazione. Si tratta infatti di un dato antropologico che ogni analisi priva di pregiudizi non può che confermare. Scrive infatti Cioran che non bisogna dimenticare che gli ebrei «furono cittadini del deserto, che lo custodiscono ancora in se stessi come loro spazio intimo, e lo perpetuano attraverso la storia» (73); e aggiunge una interessante osservazione etnologica sui ghetti disseminati in Europa, visitando i quali non si può «fare a meno di notare che la vegetazione ne era assente, che nulla vi fioriva, che tutto era secco e desolato: isolotto bizzarro, piccolo universo senza radici» (73). L’equiparazione tra ebraismo e desertificazione indica questo semplice dato storico, che soltanto malafede e pregiudizio possono trasformare in altro.

Tornando alle questioni metafisiche, l’elemento più debole del pensiero e dell’esperienza di Cioran è la sua avversione contro il tempo. Avversione però anch’essa contraddittoria poiché se da un lato lo scrittore auspica una cura di eternità che disintossichi dal divenire, ammette «tuttavia che noi siamo tempo, che produciamo tempo» (25).
Tempo che è l’altro nome del morire e del nulla e dunque della sostanza di cui siamo fatti. La morte è insieme una «situazione limite» e un «dato immediato» (205). Il Nulla, che Cioran scrive appunto in maiuscolo, è la confortevole situazione del «non essere niente – risorsa infinita, perpetua festa» (197) che libera dalla tentazione di esistere.

Enrico Palma su Nomadismo e benedizione

Enrico Palma
Comprendere la sofferenza tramite Nietzsche 
Recensione a Nomadismo e benedizione. Ciò che bisogna sapere prima di leggere Nietzsche

in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 marzo 2023
pagine 1-6

«Grecità e modernità convergono dunque per Biuso nella proposta nietzscheana di “reintegrare i due mondi facendo della vita uno strumento per la conoscenza” (p. 68), una gnosi totale, un cammino costante, certamente pericoloso ma per ciò stesso aperto al rischio e fondato sulla libertà, un peana che avoca a un’’etica dell’immanenza” (ibidem), a una vita lieve, pura, giocosa, che non distrugge bensì trasforma e fa rilucere, tracimante ironia, soprattutto quando riferita agli umani, la convivenza con i quali “può essere frutto solo del disincanto” (p. 76) per via della loro ovvia infedeltà, sicura ferocia e incolmabile distanza. Bisogna dunque nutrire un sentimento greco, avere il coraggio di guardare questo male che ci schianta, conoscerlo e non indietreggiare, consapevoli del fatto che ciò che illumina è la possibilità che abbiamo nella nostra vita di fare conoscenza».

L’epidemia occidentale

Epidemia e caduta
Aldous, 3 dicembre 2022

Il disastro dell’esistenza e la gloria di dominarla stanno al cuore de La Chute (La caduta) di Albert Camus: «Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire».
Probabilmente oggi – negli anni Venti del XXI secolo, gli anni dell’epidemia occidentale – è arrivato il momento che Camus nel 1956 chiamava il futuro della sottomissione felice: «L’esclavage n’est pas pour demain. Ce sera un des bienfaits de l’avenir». La schiavitù è in effetti diventata per molti un beneficio, una benedizione, un’agognata espressione di sicurezza e salute.
E tuttavia la gloria, la luce, la salvezza sono lo spazio della filosofia mediterranea, lo slargo del nostro essere, del nostro pensare. Specialmente ora che le forme del fanatismo e della tirannide sanitaria cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini.

Angeli

Anatole France
La rivolta degli angeli
(La révolte des anges, 1914)
Trad. di Alessandra Baldasseroni
Lindau, Torino 2017
Pagine 301

La letteratura che conduce al fondo del reale, che saggia passo passo l’enigma delle vite e degli eventi, è sempre intessuta di filosofia, più esattamente è filosofia espressa con altro linguaggio, privo del rigore della forma ma intriso dell’evidenza degli eventi. Nel caso di Anatole France, a dare forza teoretica al suo narrare è la teologia. Così nel gioiello che ha per titolo Le procurateur de Judée (1902) e così nel suo ultimo magnifico romanzo, La révolte des anges.
Una teologia unita sempre, in France, alla passione politica. Lo sfondo della Terza Repubblica francese è infatti pervasivo sino a essere incombente ma l’autore ha sempre la capacità di trasformare ben precise vicende e contesti storici in una filosofia della storia, come quella che segna i capitoli 18-21 (dei 35 che compongono il libro) e che è esplicitamente volta a demolire la filosofia cristiana della storia elaborata da Bossuet. In questi capitoli, infatti, la storia del cristianesimo appare per quello che in gran parte è stata: storia di un successo criminale, nato nei deserti della Palestina con le tribù ebraiche, diventato ecumene per opera di ‘apostoli della tristezza’ come i monaci e i padri della chiesa, i quali «bruciavano i libri, rovesciavano i templi, incendiavano le città, estendevano i loro danni fin nei deserti» (p. 170), come confermano, tra gli altri, i recenti libri di Catherine Nixey e Giancarlo Rinaldi.
Il cristianesimo stava per tramontare nel fasto artistico e politico della Chiesa rinascimentale quando arrivarono due tristi figure a restituirgli per un poco forza e fanatismo: Lutero e Calvino, i quali vengono da France descritti con accenti nietzscheani: 

Ma, o disgrazia, o cattiva sorte, funesto avvenimento comunque, ecco che un monaco tedesco, gonfio di birra e di teologia, si drizza contro questo paganesimo rinascente, lo minaccia, lo fulmina, prevale da solo contro i princìpi della Chiesa, e, sollevando i popoli, li invita a una riforma religiosa che salva ciò che stava per essere distrutto […] .
Dopo questo grosso incappucciato, bevitore e attaccabrighe, venne il lungo e magro dottore di Ginevra. Imbevuto dello spirito dell’antico Yahweh, che si sforzava di riportare il mondo ai tempi abominevoli di Giosuè e dei Giudici d’Israele, maniaco freddamente furioso, eretico bruciatore di eretici, il più feroce nemico delle Grazie (181).

Nel suo discorso sulla storia universale France perviene ai primi anni del Novecento, a quel periodo di quiete apparente che preparò il macello della Prima Guerra mondiale e il suicidio dell’Europa. Descrivendo la Terza Repubblica, lo scrittore formula l’esatta diagnosi «che sotto il nome di repubblica, questo paese era costituito in plutocrazia, e che, sotto le apparenze di un governo democratico, l’alta finanza vi esercitava un potere sovrano, senza sorveglianza né controllo» (144).
A pronunciare queste parole è Sophar, uno degli angeli ribelli che popolano – non riconosciuti – la Terra. Da poco si è unito a loro Arcade, angelo custode dell’indolente e conformista rampollo di una ricca famiglia parigina, Maurice d’Esparvieu. Frequentando la magnifica biblioteca di famiglia – dove sono conservate bibbie, talmud, l’intera produzione dei padri della chiesa – l’angelo si è reso conto che il suo Signore è ben diverso da come ama presentarsi. Arcade, il cui nome celeste è Abdel, afferma infatti con chiarezza che il Dio degli ebrei e dei cristiani non ha

creato il mondo, tutt’al più ne ha organizzato una piccola parte e tutto quello che egli ha toccato porta l’impronta del suo spirito imprevidente e brutale. Non credo che egli sia né eterno, né infinito, perché è assurdo concepire un essere che non è finito nello spazio e nel tempo. Lo credo limitato, e anche molto limitato. Non credo più che egli sia il Dio unico; per moltissimo tempo, non l’ha creduto nemmeno lui: dapprima fu politeista. Più tardi il suo orgoglio  e le adulazioni dei suoi adoratori lo resero monoteista. Ha poco séguito nelle sue idee; è meno potente di quel che si crede. E per dirla tutta, piuttosto che un dio è un demiurgo ignorante e vano. Quelli che, come me, conoscono la sua vera natura lo chiamano Yaldabaoth (86).

È quest’ultimo, Yaldabaoth, il vero protagonista del romanzo, il funesto demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele» (99), che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» (216) ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (129).
Proprio perché il demiurgo è tanto ignorante quanto presuntuoso, opporsi a questo orrore significa praticare la conoscenza: «Non si regna sulla natura, non si acquista l’impero dell’Universo, non si diventa Dio che attraverso la conoscenza. […] Non sarà il coraggio cieco (nessuno in questo giorno ha avuto più coraggio di voi) che ci darà il potere dei cieli: è lo studio e la riflessione» (155-156). Parole, queste, pronunciate da Lucifero, il quale viene da France identificato – e mi sembra una notevole intuizione – con Dioniso, « il più grande degli Dèi» (268), che il suo Sileno attende quando tornerà «seguito dai suoi Fauni e dalle sue Baccanti a insegnare di nuovo alla terra la gioia e la bellezza, e a riportare l’età dell’oro. Camminerò raggiante di gioia dietro al suo carro» (189).
Alla cupezza, alla violenza, all’ignoranza di Yahweh, il quale «non era conosciuto nel mondo, che egli pretende di aver creato, che da alcune tribù miserabili della Siria, da lungo tempo feroci come lui, e perpetuamente condotte da una schiavitù all’altra» (167), questo romanzo oppone naturalmente la luce del Sacro incarnata dagli Dèi della Grecia.
Se, come afferma Arcade, «i Greci non s’ingannavano mai. I moderni sbagliano sempre» (91), è perché tra quelle genti la saggezza e la bellezza pervennero «a un punto che nessun popolo aveva raggiunto prima di loro, e al quale nessun popolo si è, da allora, avvicinato. Da dove viene, Arcade, questo prodigio unico sulla terra? Perché il sacro suolo della Ionia e dell’Attica ha nutrito questo fiore incomparabile? Perché là non vi furono mai né sacerdozio, né dogma, né rivelazione, e i Greci non conobbero mai il Dio geloso» (164).

Da questa compiuta consapevolezza gnostica derivano numerose conseguenze, che traspaiono con chiarezza anche in un’opera narrativa e non teoretica come questa. Tra tali fecondi risultati ricordo solo il superamento dell’etica, il riscatto della materia, l’aristocrazia della mente.
«La natura non ha principi. Essa non ci fornisce nessuna ragione di credere che la vita umana sia rispettabile. La natura, indifferente, non fa alcuna distinzione fra il bene e il male» (228-229). Natura composta di una materia che è soprattutto luce ed energia intercambiabili, come sostiene anche la fisica contemporanea, e dalla quale deriva la gioia del flauto di Sileno (diventato l’angelo Nectaire), il quale «cantava la natura, dava all’insetto e al filo d’erba la sua parte di potenza e di amore, e consigliava la gioia e la libertà» (295). Chi comprende tutto questo, i suoi presupposti e le sue implicanze, è veramente aristocratico poiché «l’indipendenza del pensiero è la più fiera delle aristocrazie» (187). Un’affermazione anch’essa interamente gnostica.
Tratto del tutto originale di questo libro è che tale densità e profondità di temi storici, filosofici e teologici è affrontata in modalità lievissime. Non soltanto perché di un romanzo si tratta ma anche e soprattutto perché è un romanzo intriso di ironia, di scetticismo, di disincanto. Ironia che si mostra anche nella chiusa di ciascun capitolo, apparentemente incongrua e banale rispetto a ciò che nei capitoli si racconta e anche per questo generatrice di straniamento, interrogativi, sorrisi.
Il culmine di tutti questi elementi, diversi e arricchenti, è raggiunto nell’ultimo capitolo «dove si svolge il sogno sublime di Satana» nella notte che precede l’inizio della nuova rivolta alla quale gli angeli gnostici invitano il loro antico capo. Lucifero fa un sogno che è un incubo. Il sogno della sua presa del potere, del precipitare il vecchio demiurgo nell’inferno ma poi diventare come lui. Da tale incubo «Satana si svegliò bagnato di sudore glaciale» (296) ma ormai lucido nella sua decisione. Il testo si chiude infatti con parole di grande saggezza e di intima bellezza, parole che spingono a combattere la tenebra prima di tutto non negli enti, negli eventi, nei processi dolorosi della storia ma dentro la mente che è pervenuta a intuire le loro ragioni.

Ora, grazie a noi, il vecchio Dio è spodestato del suo impero terrestre e tutto ciò che pensa in questo globo lo sdegna e lo ignora. Ma cosa importa che gli uomini non siano più sottomessi a Yaldabaoth se lo spirito di Yaldabaoth è ancora in essi, se essi sono, a sua somiglianza, gelosi, violenti, litigiosi, bramosi, nemici delle arti e della bellezza, che importa che essi abbiano respinto il Demiurgo feroce, se non ascoltano affatto i demoni amici che insegnano ogni verità, Dioniso, Apollo e le Muse? In quanto a noi, spiriti celesti, demoni sublimi, abbiamo sconfitto Yaldabaoth, il nostro tiranno, se avremo distrutto in noi l’ignoranza e la paura. […] È in noi, in noi soltanto, che dobbiamo attaccare e distruggere Yaldabaoth (297).

Un invito che è condizione per una vita serena.

 

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