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«Perché ci siamo?»

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Dipartita finale
di Franco Branciaroli
Con: Gianrico Tedeschi (Pol), Ugo Pagliai (Pot), Franco Branciaroli (Toto, la morte), Maurizio Donadoni (il Supino)
Regia di Franco Branciaroli 
Sino al 14 giugno 2015

Dipartita_finalePol e Pot sono forse gli ultimi due mortali rimasti sulla Terra ormai incandescente. Sono vecchissimi, sono oltre ogni età. Uno rimane sempre a letto e per lo più dorme, l’altro lo sostiene. Con loro sta il Supino, un immortale che però ha deciso di non seguire tutti gli altri Ricchi nella colonizzazione di nuovi pianeti. Tra dialoghi chiaramente beckettiani e situazioni da commedia surreale, arriva la Morte. La quale però non vuole più prendersi nessuno ma soltanto starsene tranquilla. Anzi, si sente pure male e alla fine è lei a morire. Il Supino si alza -era rimasto per l’appunto disteso lungo tutto il tempo- e fa un lungo discorso nel quale pone molte domande tra le quali quella fondamentale: «Perché ci siamo?».
Il cosiddetto Teatro dell’Assurdo è in realtà un Teatro Gnostico e questa inversione del titolo beckettiano ne costituisce una prova ulteriore. Dipartita finale è una ironica, divertente, radicale riflessione sul morire e sull’essere stati, sull’eternità e sul tempo. «Perché ci siamo?» è la domanda alla quale il testo/spettacolo risponde in modo pirotecnico e pieno di energia, disperazione e umorismo. Una risposta precisa e netta alla domanda sull’essere stati non c’è. Il significato ultimo è suggerito da una trama di linguaggio allusivo, amaro, ultraironico, in ogni caso dolente verso tutto ciò che è umano. La forma è spettacolare perché è intessuta di umorismo, di gaio turpiloquio anche, di una modalità vicina all’invito nietzscheano a ridere. A farlo in ogni caso, anche nel caso della più totale insensatezza. Dipartita finale è quindi anche un compendio di un corso di filosofia, o almeno di un seminario sull’esistenzialismo, tenuto da un teatrante -come Branciaroli- esperto e gigione, carnale e metafisico.

«Otello c’era già dintra la riti»

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Otello
di Luigi Lo Cascio
Liberamente ispirato a Otello di William Shakespeare
Con: Vincenzo Pirrotta (Otello), Luigi Lo Cascio (Iago), Valentina Cenni (Desdemona), Giovanni Calcagno (Soldato)
Scenografie, costumi e animazioni di Nicola Console e Alice Mangano
Musiche di Andrea Rocca
Regia di Luigi Lo Cascio
Produzione Teatro Stabile di Catania, E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione
Sino al 1 febbraio 2015

Piacerebbe molto a Roland Barthes questo Otello, il cui senso è che l’Altro non esiste se non come dispositivo di sogno e di tortura. «L’oggetto di lu nostru sentimentu, / ‘un ci su Santi, havi pi forza assumigghiari / a ‘nsonnu ca nuantri nni ‘nsunnamu, / ‘nsonnu, spettru, fantasima, visioni» (41)1; afferma lucido il Soldato che intrama i dialoghi tra Otello e Iago, tra Desdemona e Otello, narrando la tragedia non del moro di Venezia ma di un uomo troppo preso da passioni e incapace di porre una distanza, una qualsiasi distanza, tra sé e l’enigma della donna. È il Soldato, infatti, che osserva giustamente come ai nomi di Bruto, di Coriolano, del principe di Danimarca, di re Lear, si pensa ai loro sentimenti e alle passioni -che siano crudeltà, potere, incertezza, dubbio, sdegno, delusione o altro- «‘nveci quannu si dici Otello / di subito si penza ch’era niuru» (31). E questo impedisce di comprendere che la Differenza tra lui e Desdemona non sta nel fatto che «una è janca / chi labbruzza di rosa e l’autru scuru / c’a funciazza di niuru primitivu / e sarbaggiu. A cosa ‘mpurtanti / ca ‘i fa diversi e pi sempri luntani […] è ch’unu è masculu mentri l’autra è fimmina» (ibidem). La passione funesta di Otello è consistita dunque nell’incapacità di accettare la differenza e l’enigma che la donna è, l’incapacità di fare propria «l’arti / di rispittari chista luntananza» (ibidem), arte nella quale consiste l’amore.
Piacerebbe molto a Sade questo Otello, nel quale Iago rivolgendosi agli spettatori dichiara di non essere qui tra noi per dare spettacolo, non è per noi questo teatro, non per la nostra soddisfazione, ma per se stesso,  per lui che si avvia consapevole e gratificato al supplizio riservato ai traditori perché questo ha voluto, questo ha tramato, questo ha realizzato. Ha voluto, tramato, realizzato la rovina di un uomo e di una donna che si erano creduti felici, la rovina di «sti du’ critini» i quali «si jieru a nnammurari…» (51).
Piacerebbe molto agli gnostici questo Otello, nel quale Iago definisce senza infingimenti l’umanità perduta nella sua disgrazia, la cui «dannazioni è comuni distinu […] picchì stu cancru ‘unn’è cosa luntana, / è a cosa cchiù vicina chi ci aviti, / siti vuatri stissi u cancru / semu nuatri, razza umana, / razza chi nasci già diginirata… / È cancru pi natura l’omu, / cancru e fangu» (21-22).
Piacerebbe molto a Iago questo Otello, che finalmente lo affranca dalla colpa, perché se costui, certo, prepara, alimenta e attizza il fuoco, la sostanza che brucia però è Otello stesso, «è la menti d’Otello ca ‘un sa fira / a suppurtari di la donna u gran misteru» (66). Iago è sincero perché convinto veramente che Desdemona «né cchiù né menu d’autri fimmini / era sicuramenti na buttana» (ibidem). La colpa di Otello sta anche nell’assoluta e inaccettabile ingenuità con la quale lascia che l’alfiere lo inganni sino alla pazzia; sta nel mancato iato tra la parola e l’azione, distanza che in sostanza fa l’umano; sta nel fatto che «Otello c’era già dintra la riti» (ibidem), stava già nella rete che il ragno delle passioni e del carattere fila senza posa, stava già nella maledizione del fazzoletto che sua madre in Egitto ricevette da una maga potente che tutto conosceva tra le stelle, fazzoletto che è il primo personaggio a comparire sulla scena, enorme lenzuolo sul quale si proiettano i sogni, gli incubi e i pensieri degli umani, sino a che -implacabile e pietosa- la Parca finalmente recida il filo della ragnatela che ci siamo costruiti.
Le soluzioni sceniche e registiche di questa magnifica rappresentazione sono dunque all’altezza della radicalità dello sguardo sull’umano, non troppo annacquata da qualche freudismo di maniera, come il racconto che Iago fa di quando lui quattordicenne scoprì il tradimento di sua madre. La lingua è -come si è visto- un siciliano duro e trasparente, parlato dai tre maschi sulla scena mentre Desdemona canta l’italiano. Lingua che ben rappresenta la natura arcaica ed esotica di questa tragedia, pur così vicina alla tragedia di noi tutti, dei nostri perduti sentimenti di gettati. Lingua che restituisce l’intento da cantastorie con il quale il testo è stato probabilmente concepito, intento che trova nella fisicità potente e arrotolata di Vincenzo Pirrotta l’Otello ideale a questo scopo.
Nel finale ariostesco Otello e il Soldato vanno verso la Luna a recuperare le lacrime e i sospiri di Desdemona  e soprattutto il fazzoletto. Ma un colpo all’ala ricevuto dall’ippogrifo durante il volo li costringe a lasciare lì ciò che hanno trovato. Una chiusa che sembra stridere con la tragicità profonda che precede ma che forse intende suggerire come la tragedia umana è per gli dèi poco più di una farsa, sempre uguale e quindi assai noiosa.

Nota

1. L. Lo Cascio, Otello, Mesogea, Messina 2015. Il numero di pagina è indicato tra parentesi nel testo.

Handicap / Urlo

Teatro Franco Parenti – Milano
Skianto
di e con Filippo Timi
voce e chitarra Andrea Di Donna
costumi di Fabio Zambernardi
Produzione Teatro Franco Parenti – Teatro Stabile dell’Umbria
Sino al 7 dicembre 2014

Timi_skianto_Neige_De_BenedettiDentro il corpomente di un disabile cognitivo. Che chiama se stesso handicappato, rivendicando la diretta semplicità delle parole. Un handicappato con «la scatola cranica sigillata», capace di esprimersi con gli altri soltanto attraverso mugugni e mediante gesti, ora teneri e più spesso aggressivi, ma che a se stesso racconta storie, canta emozioni, ironizza sulla propria situazione e sul mondo, elenca domande, progetta di fare il ballerino, sogna una fata turchina alla quale chiedere di diventare un bambino normale o almeno un burattino. Ma che sa di essere lui stesso la fata alla quale parla.
Un handicappato che urla contro ogni dio l’assurdità della condizione umana e non umana, il dolore radicale che ogni vivente prova stando al mondo; un handicappato che urla al crocifisso che quel sangue non è suo -un dio sanguina per gioco e per finta- ma è il proprio, è quello di ogni ente germinato dall’incontro (descritto all’inizio con irresistibile divertimento) tra un microscopico girino e una minuscola sfera. Da quel «batti e ribatti dell’asta dentro un buco, sono nato io», Filippo, l’handicappato.
Un testo coraggioso, sfrontato e potente. Messo in scena con la fisicità assoluta che caratterizza la poetica di Timi, con i colori sgargiantissimi dei suoi costumi. Un monologo fragoroso, accompagnato da una chitarra e da una voce, inframmezzato da due video assai divertenti che mostrano dei gattini in spericolate pose e la pubblicità straniante e violenta di un formaggio. Il sarcasmo è dunque la cifra stilistica di questo urlo gnostico che inizia con un handicappato che volteggia lieve nell’aria e si conclude con le parole «un giorno mi sveglierò morto. Finalmente felice».

Gadda, i luoghi, la Gnosi

Verso la Certosa
di Carlo Emilio Gadda
(1961)
A cura di Liliana Orlando
Adelphi, 2013
Pagine 249

Libro nato da travagliato parto, come spesso in Gadda, ma che di tale fatica non risente. Nella varietà dei suoi temi parla infatti una scrittura classica, direi radicalmente classica nelle sue variazioni espressionistiche, violente, e però sempre intrise di un’armonia inimitabile. Milano e la Lombardia rappresentano l’orizzonte geografico e antropologico privilegiato: la Fiera campionaria; i luoghi visitati e vissuti da Petrarca; la bizzarria della Borsa; il mercatino di Senigallia; il risotto alla milanese descritto in uno stupefacente capitolo/ricetta dal quale si sprigiona il sapore stesso della pietanza. E poi il titolo. Verso la Certosa per i milanesi vuol dire infatti anche verso il cimitero, verso il luogo dove cesseranno insieme lo «scarso cervello del mondo» (p. 11) e «la disperazione» che «mi chiamava, chiamava, dal fondo dei suoi deserti senza carità» (36). A Milano c’è questo e c’è tutto il resto, per chi sappia vederlo e viverlo, poiché «tutto esiste a Milano, Milano è la scansia d’ogni possibilità […] dentro la cerchia dell’onniprassi milanese» (48).
Gadda intrattiene uno stretto rapporto con Manzoni, il cui nome e le cui parole tornano spesso, condite di costretta ammirazione e d’ironia liberatrice, come nel «magno seggiolone» scoperto tra i mobilieri brianzoli e sul cui barocco d’imitazione «par di vedere assiso, col suo collare di pizzo, il Conte Zio» (94), o nei pensieri di fronte al Resegone: «Il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, castigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli: emerso dal vaporare delle filande, di tutte le bacinelle di Brianza: o dell’Adda o del Brembo» (34).
Parla spesso in queste pagine l’ingegnere, anche con dettagli tecnici come quelli descritti per il Duomo di Como o la critica esatta e pungente all’utilizzo esclusivo del cemento armato nelle case, nei falansteri vittime della scarsa inerzia del calcestruzzo, del rimbombare di ogni pur minimo suono, vittime dello «svantaggio termico: le stanze si raffreddano e si riscaldano al variare della temperatura esterna con le ore del giorno: il sorgere del sole è percepito attraverso la scemenza dei forati dall’inquilino a levante, la bestiale autorità del sole estivo delle sedici diciotto è patita attraverso la inefficienza dei forati dalla indifesa agonia e dal sudore turco dell’inquilino a ponente» (122).
Al di là della Lombardia, Gadda vede ovunque moltiplicarsi ciò che Ortega Y Gasset definiva il pieno, lo spremersi e infoltire degli umani nello spazio, come nella Versilia che fu dei poeti e che adesso è invasa da scalmananti e turistiche folle: «Infiniti giornali, infinita gente, infinite tasse di soggiorno, infiniti pullman: infinite biciclette, ora: e l’oblioso ozio, nel giorno, d’una gente che sguazza, si cura i piedi, cuoce, cuoce sotto il sole» (115). Masse che ben servono da carburante e da combustibile a quei singoli che proclamano di parlare e agire a lor vantaggio e che invece è naturalmente al proprio e personale bene che sanno puntare lestamente. Nell’arco storico che da Mussolini va a Renzi, e passando per i troppi intermediari che li uniscono, sembra davvero che in Italia comandi sempre l’incessante e «truculento guappismo dei novatori coûte que coûte», lo «sconsiderato padreternismo dei tira linee quattordicenni: sì, età mentale quattordici» (121). Coûte que coûte è il «costi quel che costi» proclamato a ogni piè sospinto da Renzi, dal suo -per l’appunto- «truculento guappismo» di «novatore».
Osservando il mondo, vivendolo, andando verso la Certosa, lo scrittore Carlo Emilio Gadda conclude con una giustificata bestemmia nei confronti del funesto demiurgo che ha dato essere alle cose che son vive. Meglio non l’avesse fatto, «che il diritto è una bella balla: e che Giove Pluvio è un cialtrone, un istrione, e un porcone» (127).

 

Geometria / Rivolta

FLATLANDIA
Racconto fantastico a più dimensioni
di Edwin A. Abbott 
(Flatland. A Romance of Many Dimensions, 1882)
Traduzione e prefazione di Masolino D’Amico
In appendice un saggio di Giorgio Manganelli
Adelphi, Milano 1999 (1966)
Pagine XX – 166

 

FlatlandiaUn Quadrato parla. E racconta la propria vita nel Paese della Superficie, dove le dimensioni della materia sono soltanto due –lunghezza e larghezza- e non si ha idea alcuna dell’altezza. Narra usi e costumi di questa terra piatta, di questa società assolutamente gerarchica nella quale i criteri del valore sono il numero dei lati e degli angoli. Dalle donne che sono Linee -e dunque poste al livello più basso dell’essere e del capire, tenute nell’ignoranza, inaffidabili e vessate ma sempre pericolosissime con la loro micidiale punta acuminata- ai Triangoli isosceli stupidi e violenti con i loro angoli acuti; dagli Equilateri operai ai Quadrati professionisti; dai Pentagoni ed Esagoni -sempre più raffinati e colti- fino alle somme Circonferenze, che sono –in realtà e naturalmente- dei Poligoni con un numero altissimo di lati estremamente piccoli.
Questa società dura, armoniosa e implacabile come può esserlo solo la Geometria, vive della morte continua di ogni Figura che con i suoi angoli mal gestiti possa costituire un pericolo per gli altri; viene scossa da periodiche rivolte capeggiate da Forme irregolari; è governata da una casta sacerdotale potentissima e pervasiva: «Da noi i Preti sono gli Amministratori di ogni Affare, Arte e Scienza […] senza far nulla direttamente, essi sono la Causa di ogni cosa che valga la pena di fare e che viene fatta da altri» (pag. 81). La dottrina che pervade questo spazio è una Razionalità geometrica consapevole della Necessità di ogni ente ed evento poiché non l’educazione o l’esperienza ma è «la Configurazione che fa l’uomo» e dunque «a un giudizio sereno, buona e cattiva condotta non sono ragioni sufficienti né di lode, né di biasimo» (84).
Al Narratore accade di ricevere la sconvolgente rivelazione -da parte di una Sfera- dell’esistenza della Terza dimensione e dunque dello Spazio. Poco prima il Quadrato aveva sognato un Paese della Linea ai cui abitanti lui stesso tentava inutilmente di dimostrare la parzialità della loro struttura. Ora riceve dalla Sfera un’analoga lezione. Rifiuta però questa saggezza e allora viene letteralmente “rapito” nel Paese dei solidi e lì finalmente vede ciò che fino ad allora aveva soltanto dedotto. Si scioglie così alla sua mente l’enigma che non comprendeva quando la Sfera gli parlava. Incapace dello sforzo di volontà che gli garantirebbe, a detta della Sfera, di lasciare il suo piatto mondo, una violenza pedagogica lo trasporta «verso l’Alto, ma non verso il Nord» (139), secondo la formula con la quale cercherà –tornato nella Pianura- di ricordare la ricchezza senza fine della prospettiva spaziale.
Infatti questo Quadrato regolare, pedante e insieme avventuroso -questo «povero Prometeo della Flatlandia» (150) come da sé si definisce- comincia a chiedere al suo maestro e salvatore di insegnargli anche la Quarta, la Quinta e le altre dimensioni. Ma questo dio circolare mostra anch’egli la povertà delle proprie vedute quando respinge tali aspirazioni come follie e sogni, non avendo dunque appreso la verità essenziale: che ogni ente vive nel proprio ambiente commettendo l’errore di pensarlo come l’unico, quando invece lo Spazio è davvero senza fine. Anche la Sfera somiglia insomma a quella creatura infima e adimensionale che vive in Pointlandia e che di se stessa si compiace come dell’unico e totale universo, chiamandosi It, Esso: «Infinita beatitudine dell’esistenza! Esso è: non c’è altro al di fuori di Esso» (141). Altrettanto convinta che oltre le tre del proprio mondo altre dimensioni non si diano, la Sfera scaglia il Quadrato là da dove lo trasse. Nella insensata speranza di convertire i suoi simili alla sapienza dello Spazio, il Narratore viene imprigionato ed è da un carcere quindi che egli racconta.
Così si chiude «questo universo di visioni tragiche e gnostiche» permeato di «una gelida grazia astratta» come con esattezza lo definisce Giorgio Manganelli (165 e 155). Un libro intriso di ironia e di rigore, di invenzioni fantastiche e di dimostrazioni matematiche, di intenti satirici (verso la società vittoriana e non solo) e di serietà mitologica. Un’autentica visione della mente. Un invito a cogliere la plausibilità dell’ipotesi che -oltre alla materia e al movimento- la struttura delle cose sia fatta di un’ulteriore dimensione che è il Tempo.
Il libro di Abbott ha una Wirkungsgeschichte ampia, imprevedibile e carsica. La sua eco riaffiora, ad esempio, anche nelle scenografie di Dogville (2003), il film per il quale Lars von Trier sceglie una scenografia bidimensionale fatta di semplici linee che consente di vedere dall’alto la città, esattamente come il Quadrato vedeva la sua Terra una volta uscito da essa.
Un libro sovversivo, alla fine, con la sua tenace ambizione di suscitare «con qualsiasi mezzo nell’intimo dell’umanità sia Piana che Solida uno spirito di rivolta contro la presunzione che vorrebbe limitare le nostre Dimensioni a Due, a Tre o a qualsiasi numero che non sia Infinito» (132).

 

Dissipatio

Dissipatio H.G.
di Guido Morselli
(1973)
Adelphi, 2012
Pagine 142

Il Narratore senza nome è tutti i nomi. Egli è infatti l’ultimo uomo rimasto sul pianeta dopo che in un solo istante, alle 2 della notte tra il I e il 2 di giugno, l’umanità si è dissolta. Dissipatio Humani Generis è la formula attribuita a Giamblico per indicare lo sparire dell’umano, il suo evaporare. Sorpreso, incredulo, costernato, euforico, rassegnato, ilare, sollevato, l’eletto o l’escluso -dipende dal punto di vista- ricostruisce gli eventi che hanno portato all’Evento, compresa la sua volontà di uccidersi proprio alla stessa ora in cui è avvenuto l’impensabile.
Questa «monade intellettuale senza aperture né impegni» (pag. 28) molte volte aveva desiderato la solitudine, il silenzio e ora gli si offre una Solitudine senza riserve, un Silenzio diverso da ogni altro sperimentato tacere, un «silenzio da assenza umana […], un silenzio che non scorre. Si accumula» (33). L’umano è parentesizzato. Una metafisica e insieme empiricissima epoché mostra la potenza degli oggetti e quella della natura. Gli altri animali conquistano gli spazi che una volta furono abitati da noi. L’istinto avverte gli uccelli «di una novità in cui certo non speravano; il grande Nemico si è ritirato […]. O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante» (53). La ferita, l’inganno, la vis costruttiva e distruttiva si è estinta con la nostra specie. Una calma furia politica attraversa i pensieri del sopravvissuto contro i «samaritismi ipocriti della nostra società, che offre una mano a coloro che lei, proprio lei, butta nel fosso» (25). Ma non si tratta di storia, si tratta di natura. Non soltanto di natura, si tratta del sacro. La sarcastica apocalisse è rappresentata da «tre angeli neri, gli stessi a cui, in vita, quelli si prosternavano idolatri, e ognuno dei tre porta uno scudo, e su uno degli scudi si legge: Sociologismo, sull’altro, Storicismo, sul terzo, Psicologismo. A piè del monte, due serpi loricate strisciano sibilando e buttando fuoco. E ognuna sulle scaglie ha una scritta, e su una si legge: Advertising, e sull’altra: Marketing» (88). Crisopoli, così il Narratore chiama la capitale della sua nazione, la città della Borsa, degli Affari e dell’Oro, è ora diventata Necropoli, la città di coloro che una volta sono stati e ora si sono dissipati.
Ma la morte non è che una differenza quantitativa. La corsa degli umani e degli evi verso la dissoluzione è già dentro la loro stessa nascita, dentro il germinare delle cose che si sentono vive. «Un bisogno imperioso e ignaro» (95) è già all’opera nella «impartecipazione al mondo esterno, insensibilità, indifferenza» che ci rende «morti a tutto ciò che non ci tocca o non c’interessa» (74). La “divina indifferenza” (Montale) fa sì che «morire biologicamente, è il perfezionarsi di uno stato in cui ci troviamo già ora» (Ibidem). Verso il tutto e verso se stesso l’umano era «produttore inesausto» di «danno e fastidio» e tuttavia di tanto in tanto l’Ultimo desidera i suoi simili scomparsi, o almeno li cerca, e comincia «forse a misurare la loro importanza» (43). Ma sùbito ritorna alla sua paradossale razionalità «verticale, rigorosa e irrefutata» (130), la quale gli squaderna davanti agli occhi e nella memoria l’insostenibile volatilità di ogni antropocentrismo. Che cosa facevano in sostanza gli umani? Agivano in vista del proprio utile e ragionavano su ciò che vedevano fuori di sé e su ciò che credevano di scorgere dentro di sé. Poi indicavano ed esprimevano tutto questo con parole, suoni e segni. Chiamavano tale operare Cultura e la propria storia Storia del mondo. E dunque con la loro dissipatio il mondo sarebbe finito? Neppure per sogno: «La natura non si è accorta della notte del 2 giugno. Forse si rallegra di riavere in sé tutta la vita, chiuso l’intermezzo breve che per noi aveva il nome di Storia. Sicuramente, non ha rimpianti né compunzioni» (84). «La fine del mondo? […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro» (54). Una delle ultime testimonianze umane riferite dal racconto è l’invito che campeggia sullo striscione di un movimento politico radicale «Se siete uomini, sterilizzatevi» (141).

Una soddisfazione dal sapore di euforia traspare in questo indefinibile libro -romanzo certo, ma la sua natura va al di là di ogni steccato e limite di genere- e consiste nel sentirsi parte di una forma che non conosce tramonto né dolore. La forma che accomuna ogni cosa che è, una forma capace di esprimersi soprattutto attraverso le stelle, l’energia, la lava, le rocce. La forma che è la materia. Essa, «annunciava altamente il grande Roland Barthes […] è ben più preziosa della vita» (114-115). Certamente. Ogni filosofia degna del proprio nome, ogni pensiero amico della sapienza, non può che arrivare a questa chiara conclusione: la materia è più preziosa della irrilevante sua escrescenza confinata -per quello che sappiamo- all’infimo pianeta Terra, il quale gira intorno a una della più modeste stelle situate alla periferia di una delle innumerevoli galassie delle quali tale materia si compone. Materia che è accompagnata dal vuoto e dal silenzio. Meraviglioso.
Il Narratore si dice disinteressato alla filosofia ma si tratta di una bugia. Questo libro è intriso di filosofia poiché è capace di pervenire a un luogo teoretico che della filosofia è territorio privilegiato di indagine: il rapporto tra l’umano, la materia e il tempo. Nel mondo senza umani tutto era «a posto e in ordine ma immobile e fuori dal tempo, perché è l’uomo che fa il tempo delle cose, e non si vedeva un uomo. Non ne rimaneva uno» (35). E tuttavia questa sensazione di immobilità del tempo, e dunque di ogni cosa, è ben presto anch’essa dissolta poiché «su questa terra non c’è l’eterno, non ci sono che attimi, per quanto incalcolabili» (107). La potenza di tali attimi innumerevoli e senza fine è la potenza stessa della materiatempo, quella che dovremmo cercare di comprendere a fondo nei tanti suoi modi (i modi di Spinoza). Il modo umano è consustanziale al tempo, come ogni altro ente ogni vita ogni fenomeno ogni evento, e quindi esso si dissolve «come, e quando, è cessato il tempo» (133). Nel tempo rimangono infatti le tracce della sua esistenza, la materia da lui plasmata, i segni della comprensione che questo grumo di materia ha avuto di se stesso.

La bellissima copertina di questa edizione di Dissipatio H. G. riproduce un’opera di Geoffrey H. Short, una Esplosione senza titolo del 2007. I suoi molteplici colori e la sua forma antica sembrano voler racchiudere e nello stesso tempo far esplodere i molti nomi che costellano la narrazione di Morselli, che non l’appesantiscono affatto, anzi la rendono ironica e sapiente. Eccoli, in ordine di apparizione: Marcuse, Durkheim, Flaubert, de Beauvoir, Penderecky, Hegel, Malinowski, Lévy-Bruhl, Montaigne, Pascal, Cartesio, Berdiaeff, Camus, Nietzsche, Proust, Pasolini, Berg, Bach, Enzensberger, Giamblico, Agostino d’Ippona, Husserl, Baudelaire, Tommaso d’Aquino, Marx, Hölderlin, Freud, Borges, Barthes, Gropius, Weber, Dostoevskij, Gauguin, Thoreau. E tuttavia la musica di questo testo non è di nessuno fra coloro. È tutta e soltanto di Morselli. Un epicedio di ironica saggezza sulla specie umana. «E anch’io, se canto, canto di notte» (53).

Don Giovanni, l’antidoto

Teatro Franco Parenti – Milano
Il Don Giovanni
Vivere è un abuso, mai un diritto

di Filippo Timi
Con Filippo Timi, Umberto Petranca, Alexandre Styker, Roberta Rovelli, Marina Rocco, Elena Lietti, Roberto Laureri, Matteo De Blasio, Fulvio Accogli
Costumi: Fabio Zambernardi in collaborazione con Lawrence Steele
Luci: Gigi Saccomandi
Scene e regia: Filippo Timi
Sino al 24 marzo 2013

«Dio è un virus e la vita è un’infezione». Così parla Don Giovanni.
La fica. Il doppio. Il Crocifisso. Alien. Il padre, l’incesto. Le bambine ginnaste alle Olimpiadi. La musica pop. Youtube. Arancia meccanica. Discoteche. Bare. Una magnifica Zerlina candida e svampita. Donna Elvira è un enorme ragno rosso appassionato. Leporello innamorato del suo padrone. Donna Anna odia il padre e punisce Don Ottavio. Il Commendatore intubato, con la bombola d’ossigeno. Hegel, il servo e il signore. Baci. Fisicità straripante ovunque. Don Giovanni vestito di plastica, di gonne, di fiori e degli scalpi delle sue donne. L’amore suprema illusione e inganno. Colori accesi e cangianti. Un flusso di battute al quale il pubblico risponde con risate clamorose e sincere. Trionfo finale. Blasfemia. Un pastiche linguistico di italiano, inglese, romanesco, tedesco.
La madre. La morte. Satana. La cacca. La crudeltà. Il mistico. La Gnosi.
Geniale. Visionario e geniale.

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