Dio esiste e vive a Bruxelles
(Le Tout Nouveau Testament)
di Jaco Van Dormael
Lussemburgo, Francia, Belgio – 2015
Con: Pili Groyne (Ea), Benoît Poelvoorde (Dio), Yolande Moreau (la donna di Dio), Laura Verlinden (Aurélie), Serge Larivière (Marc), Catherine Deneuve (Martine), François Damiens (François), Marco Lorenzini (Victor)
Trailer del film
Che il Dio biblico (e poi coranico) sia un soggetto approssimativo, possessivo e violento è evidente. Si tratta di qualcuno che antiche tradizioni definiscono con il termine di arconte, vale a dire un signore potente ma incapace e affetto da megalomania. Sono tali arconti ad aver dato vita a questo mondo, i cui limiti sono anch’essi del tutto evidenti. E allora perché non immaginare -come fa Jaco Van Dormael- che questo arconte, assai annoiato, abbia prima creato Bruxelles, poi l’abbia popolata di animali che non lo soddisfacevano e infine abbia pensato a qualcuno che fosse a propria immagine, l’uomo appunto? Solo che tale creazione è stata per questo signore -che vive a Bruxelles in un appartamento senza porte e dotato di un archivio sconfinato- l’occasione per dare sfogo al proprio ilare sadismo, inventando leggi e situazioni che hanno il risultato di far soffrire vanamente le sue creature.
Ma Dio ha anche una moglie e due figli. Il primo ha del tutto frainteso le intenzioni del Padre e «si è fatto appendere a una gruccia come una civetta» (parola di Dio), l’altra è una bambina di 10 anni che, stufa delle prepotenze del padre, gli sabota il computer e rivela a tutti gli umani il giorno e l’ora esatti della loro morte. A tale notizia si scatenano ovviamente le reazioni più diverse. Ea, così si chiama la bambina, va nel mondo per raccogliere degli apostoli con i quali cercare di porre rimedio agli effetti dell’incauta rivelazione. Anche Dio padre esce finalmente dal suo appartamento, alla ricerca della figlia. I sei apostoli sono tra i più improbabili ma anche tra i più significativi. Alla fine sarà l’elemento femminile a vincere.
Tutto questo è surreale, certo. E spesso grottesco e sempre divertente. E tuttavia l’idea di far scrivere un Testamento tutto nuovo (questo il titolo originale) agli umani vessati da un Dio sadico invece che a questo stesso Dio, è molto seria e tocca alcuni profondi archetipi della mente individuale e collettiva. Lo stile scanzonato e insieme rigoroso di Van Dormael contribuisce a restituire la familiare stranezza del dio arcontico.
Riprendo qui sotto un testo che avevo pubblicato nell’aprile del 2011. Lo faccio per varie ragioni: di ciò che vi scrissi sono sempre più consapevole; il Giubileo voluto dall’attuale pontefice ha per tema la ‘misericordia’ e anche di questo si parla nelle poche righe di questa riflessione; ho pensato a queste parole in occasione di un funerale al quale ho partecipato pochi giorni fa.
Il celebrante ha ricordato, infatti, che il Cristo sarebbe «il nostro fratello maggiore che si è sacrificato per noi davanti al Padre». Al cospetto di tali affermazioni -incomprensibili da ogni punto di vista: etico, ontologico, logico, teologico, esistenziale- penso, ancora una volta, che una divinità onnipotente e buona (qualunque cosa significhi questa parola) non elimina la finitudine ma certamente cancella il dolore. Non si immerge in esso dicendo: “Vedete? Ho fatto soffrire tremendamente mio Figlio. E quindi anche voi dovete accettare il dolore che vi tormenta”. Che salvezza è questa? Piuttosto, un Dio afferma: “Ecco, tolgo ogni dolore dal mondo, perché sono un Padre e voglio la gioia di tutti i miei figli, prediletti e no”.
In una lettera a Heinrich von Stein dei primi di dicembre del 1882 Nietzsche affermò di volere «liberare l’esistenza umana da ciò che essa ha di straziante e di crudele» (Epistolario, Vol. IV 1880-1884, Adelphi, 2004, p. 270). E in un coevo frammento postumo scrisse: «Vorrei togliere al mondo il suo carattere straziante» (Frammenti postumi 1882-1884 – Parte Prima, in “Opere”, vol. VII/1, parte II, Adelphi 1982, fr. 4[34], p. 110).
Se questo è il sentimento di un umano -con tutte le sue miserie e limiti- come fa a non essere il sentimento di una divinità che può tutto e che, se lo volesse, potrebbe rendere perfetto l’Essere eliminando da esso ogni sofferenza?
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Sono il padre. So che gli esseri umani soffrono ogni giorno per le ragioni più diverse. So che crudeltà, malattia e abbandono scandiscono la vita di tutti coloro che nascono. Sono anche onnipotente. Potrei trovare non una ma innumerevoli soluzioni che pongano immediatamente fine al fiume di dolore che avvolge le creature viventi. Ma invece di provvedere con un gesto autenticamente divino a cancellare il dolore dal cosmo, mando il mio figlio prediletto a patire, a essere seviziato, a morire asfissiato e sanguinante in una delle più atroci torture. Dopo lo faccio risorgere, ma l’universale sofferenza continua come se niente fosse accaduto.
È incredibile come questa orribile storia che ha per protagonista una delle più cupe divinità mai concepite -l’ebraico Jahweh- venga associata a parole quali “amore” e “misericordia”. Un padre che agisce in questa maniera se è davvero onnipotente è anche sadico; se non riesce a porre rimedio in altro modo, allora è uno di coloro che l’antica gnosi chiama “arconti”, divinità inferiori, demiurghi incapaci. Un amore onnipotente genera la gioia, non moltiplica sofferenze e crocifissi.
Sangue del mio sangue
di Marco Bellocchio
Italia, Francia, Svizzera – 2015
Con: Pier Giorgio Bellocchio (Federico), Lidiya Liberman (Benedetta), Fausto Russo Alesi (Cacciapuoti), Roberto Herlitzka (Il conte), Filippo Timi (il pazzo), Alberto Cracco (l’inquisitore francescano), Alba Rohrwacher (Maria Perletti), Federica Fracassi (Marta Perletti), Toni Bertorelli (Il dottor Cavanna)
XVII secolo, Monastero di Bobbio. Benedetta è accusata di essere una strega e aver indotto il suo confessore al suicidio. La violenza, l’ipocrisia, la follia dell’Inquisizione non riescono a farla confessare. Viene murata viva. Dopo decenni, torna a trovarla il fratello del prete suicida, che voleva ucciderla, che forse se ne era innamorato e che ora è un rigido cardinale.
XXI secolo, Bobbio. L’antico carcere sembra abbandonato. Vi abita un uomo che esce soltanto di notte ed è a capo di una fondazione che benefica -in maniera non del tutto legale- gli abitanti del luogo. Il Conte -così lo chiamano- sembra una sorta di saggio vampiro. Una giovane e fiorente donna lo attrae con tutta la forza della vita. La desidera, la segue mentre lei amoreggia con il suo ragazzo.
Due vicende apparentemente lontane nel tempo e nel contenuto ma che invece mostrano l’unità di una metafora gnostica tra le più chiare. L’Inquisizione cattolica e il Conte rappresentano infatti l’espressione tragica e quella benevola di una struttura antropologica intrisa di buio e incapace di riscattarsi nonostante il tentativo di imprigionare la Luce. Anzi, proprio per averla imprigionata. La Grande Chiesa -la Chiesa papista- ha soltanto la forza di tenere separata e segregata la Luce ma non ha la potenza di distruggerla. Come germe sonnecchiante essa tace e subisce, cova la propria purezza che è anche la sua forza, per poi risvegliarsi, ormai libera. Benedetta/Sophia si immerge negli elementi del mondo -l’acqua, il fango, il sangue, il fuoco- li assorbe in sé, oltrepassa la logica dualistica e insensata degli inquisitori, ne rimane incontaminata e alla fine esce dalla sua prigione risplendendo della potenza di una giovinezza che soltanto la conoscenza può offrire.
Non importa, naturalmente, che Bellocchio sappia che cosa è tutto questo. Artista è infatti colui che coglie gli archetipi e ne esprime la forza, anche se ne ignora i contenuti e le forme. E qui si tratta di un archetipo tra i più antichi, che dall’orfismo arriva al presente.
Questo film è dunque un’offerta di riflessioni sulla vita, di stabili intuizioni nello scorrere caotico del mondo e della sua narrazione, da cogliere dentro e oltre il tempo nella trama degli eventi e grazie al loro mutare.
Quarto potere
(Citizen Kane)
di Orson Welles
USA, 1941
Con: Orson Welles (Charles Foster Kane), Joseph Cotten (Leland)
Trailer del film
Il cittadino Charles Foster Kane ribadisce più volte di essere un americano. Non un ricco, non un imprenditore, non un politico, non un giornalista, ma un americano. E del Geist statunitense quest’uomo ha assorbito l’essenza, quella individuata in modo assai chiaro da Max Weber: il successo mondano come segno della predestinazione alla salvezza.
Ha ricevuto tutto Kane: intelligenza, determinazione, passione, ferocia, danaro. Ma gli è stata tolta la madre, gli è stata tolta l’infanzia. Ciò che cerca è dunque quanto non potrà mai possedere. La passione per gli occhi e la voce di alcune donne è il consueto ed efficace surrogato di questo desiderio, della gioia. Ma la gioia non dipende per gli umani dagli oggetti e dal potere. Gli oggetti che Kane colleziona si moltiplicano nella dismisura di un pieno che è soltanto una somma. Il piacere che gli dà il potere di «far pensare la gente come vuole» si schianta ogni volta nei meandri della guerra collettiva.
Il cittadino Kane conclude il suo percorso nella vita abbracciando un frammento di ciò che avrebbe voluto e gli fu tolto per sostituirlo con casseforti piene, con un fantasma di gaiezza, con il vuoto.
L’arte di Orson Welles racconta questa parabola gnostica attraverso le ombre, i chiaroscuri, i primissimi piani sorretti e contrastati da campi lunghi, le distorsioni ottiche, le riprese a raso e quelle dall’alto. Amplia così gli spazi sino alla follia delle nostre fantasie, del bisogno umano di una carezza che sostituisca ogni altra gloria.
Piccolo Teatro Grassi – Milano
Dipartita finale
di Franco Branciaroli
Con: Gianrico Tedeschi (Pol), Ugo Pagliai (Pot), Franco Branciaroli (Toto, la morte), Maurizio Donadoni (il Supino)
Regia di Franco Branciaroli
Sino al 14 giugno 2015
Pol e Pot sono forse gli ultimi due mortali rimasti sulla Terra ormai incandescente. Sono vecchissimi, sono oltre ogni età. Uno rimane sempre a letto e per lo più dorme, l’altro lo sostiene. Con loro sta il Supino, un immortale che però ha deciso di non seguire tutti gli altri Ricchi nella colonizzazione di nuovi pianeti. Tra dialoghi chiaramente beckettiani e situazioni da commedia surreale, arriva la Morte. La quale però non vuole più prendersi nessuno ma soltanto starsene tranquilla. Anzi, si sente pure male e alla fine è lei a morire. Il Supino si alza -era rimasto per l’appunto disteso lungo tutto il tempo- e fa un lungo discorso nel quale pone molte domande tra le quali quella fondamentale: «Perché ci siamo?».
Il cosiddetto Teatro dell’Assurdo è in realtà un Teatro Gnostico e questa inversione del titolo beckettiano ne costituisce una prova ulteriore. Dipartita finale è una ironica, divertente, radicale riflessione sul morire e sull’essere stati, sull’eternità e sul tempo. «Perché ci siamo?» è la domanda alla quale il testo/spettacolo risponde in modo pirotecnico e pieno di energia, disperazione e umorismo. Una risposta precisa e netta alla domanda sull’essere stati non c’è. Il significato ultimo è suggerito da una trama di linguaggio allusivo, amaro, ultraironico, in ogni caso dolente verso tutto ciò che è umano. La forma è spettacolare perché è intessuta di umorismo, di gaio turpiloquio anche, di una modalità vicina all’invito nietzscheano a ridere. A farlo in ogni caso, anche nel caso della più totale insensatezza. Dipartita finale è quindi anche un compendio di un corso di filosofia, o almeno di un seminario sull’esistenzialismo, tenuto da un teatrante -come Branciaroli- esperto e gigione, carnale e metafisico.
Categories Teatro
«Otello c’era già dintra la riti»
Piccolo Teatro Strehler – Milano
Otello
di Luigi Lo Cascio
Liberamente ispirato a Otello di William Shakespeare
Con: Vincenzo Pirrotta (Otello), Luigi Lo Cascio (Iago), Valentina Cenni (Desdemona), Giovanni Calcagno (Soldato)
Scenografie, costumi e animazioni di Nicola Console e Alice Mangano
Musiche di Andrea Rocca
Regia di Luigi Lo Cascio
Produzione Teatro Stabile di Catania, E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione
Sino al 1 febbraio 2015
Piacerebbe molto a Roland Barthes questo Otello, il cui senso è che l’Altro non esiste se non come dispositivo di sogno e di tortura. «L’oggetto di lu nostru sentimentu, / ‘un ci su Santi, havi pi forza assumigghiari / a ‘nsonnu ca nuantri nni ‘nsunnamu, / ‘nsonnu, spettru, fantasima, visioni» (41)1; afferma lucido il Soldato che intrama i dialoghi tra Otello e Iago, tra Desdemona e Otello, narrando la tragedia non del moro di Venezia ma di un uomo troppo preso da passioni e incapace di porre una distanza, una qualsiasi distanza, tra sé e l’enigma della donna. È il Soldato, infatti, che osserva giustamente come ai nomi di Bruto, di Coriolano, del principe di Danimarca, di re Lear, si pensa ai loro sentimenti e alle passioni -che siano crudeltà, potere, incertezza, dubbio, sdegno, delusione o altro- «‘nveci quannu si dici Otello / di subito si penza ch’era niuru» (31). E questo impedisce di comprendere che la Differenza tra lui e Desdemona non sta nel fatto che «una è janca / chi labbruzza di rosa e l’autru scuru / c’a funciazza di niuru primitivu / e sarbaggiu. A cosa ‘mpurtanti / ca ‘i fa diversi e pi sempri luntani […] è ch’unu è masculu mentri l’autra è fimmina» (ibidem). La passione funesta di Otello è consistita dunque nell’incapacità di accettare la differenza e l’enigma che la donna è, l’incapacità di fare propria «l’arti / di rispittari chista luntananza» (ibidem), arte nella quale consiste l’amore.
Piacerebbe molto a Sade questo Otello, nel quale Iago rivolgendosi agli spettatori dichiara di non essere qui tra noi per dare spettacolo, non è per noi questo teatro, non per la nostra soddisfazione, ma per se stesso, per lui che si avvia consapevole e gratificato al supplizio riservato ai traditori perché questo ha voluto, questo ha tramato, questo ha realizzato. Ha voluto, tramato, realizzato la rovina di un uomo e di una donna che si erano creduti felici, la rovina di «sti du’ critini» i quali «si jieru a nnammurari…» (51).
Piacerebbe molto agli gnostici questo Otello, nel quale Iago definisce senza infingimenti l’umanità perduta nella sua disgrazia, la cui «dannazioni è comuni distinu […] picchì stu cancru ‘unn’è cosa luntana, / è a cosa cchiù vicina chi ci aviti, / siti vuatri stissi u cancru / semu nuatri, razza umana, / razza chi nasci già diginirata… / È cancru pi natura l’omu, / cancru e fangu» (21-22).
Piacerebbe molto a Iago questo Otello, che finalmente lo affranca dalla colpa, perché se costui, certo, prepara, alimenta e attizza il fuoco, la sostanza che brucia però è Otello stesso, «è la menti d’Otello ca ‘un sa fira / a suppurtari di la donna u gran misteru» (66). Iago è sincero perché convinto veramente che Desdemona «né cchiù né menu d’autri fimmini / era sicuramenti na buttana» (ibidem). La colpa di Otello sta anche nell’assoluta e inaccettabile ingenuità con la quale lascia che l’alfiere lo inganni sino alla pazzia; sta nel mancato iato tra la parola e l’azione, distanza che in sostanza fa l’umano; sta nel fatto che «Otello c’era già dintra la riti» (ibidem), stava già nella rete che il ragno delle passioni e del carattere fila senza posa, stava già nella maledizione del fazzoletto che sua madre in Egitto ricevette da una maga potente che tutto conosceva tra le stelle, fazzoletto che è il primo personaggio a comparire sulla scena, enorme lenzuolo sul quale si proiettano i sogni, gli incubi e i pensieri degli umani, sino a che -implacabile e pietosa- la Parca finalmente recida il filo della ragnatela che ci siamo costruiti.
Le soluzioni sceniche e registiche di questa magnifica rappresentazione sono dunque all’altezza della radicalità dello sguardo sull’umano, non troppo annacquata da qualche freudismo di maniera, come il racconto che Iago fa di quando lui quattordicenne scoprì il tradimento di sua madre. La lingua è -come si è visto- un siciliano duro e trasparente, parlato dai tre maschi sulla scena mentre Desdemona canta l’italiano. Lingua che ben rappresenta la natura arcaica ed esotica di questa tragedia, pur così vicina alla tragedia di noi tutti, dei nostri perduti sentimenti di gettati. Lingua che restituisce l’intento da cantastorie con il quale il testo è stato probabilmente concepito, intento che trova nella fisicità potente e arrotolata di Vincenzo Pirrotta l’Otello ideale a questo scopo.
Nel finale ariostesco Otello e il Soldato vanno verso la Luna a recuperare le lacrime e i sospiri di Desdemona e soprattutto il fazzoletto. Ma un colpo all’ala ricevuto dall’ippogrifo durante il volo li costringe a lasciare lì ciò che hanno trovato. Una chiusa che sembra stridere con la tragicità profonda che precede ma che forse intende suggerire come la tragedia umana è per gli dèi poco più di una farsa, sempre uguale e quindi assai noiosa.
Nota
1. L. Lo Cascio, Otello, Mesogea, Messina 2015. Il numero di pagina è indicato tra parentesi nel testo.