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Dürrenmatt

Racconti
di Friedrich Dürrenmatt
Traduzione di Umberto Gandini
Feltrinelli, 1996
Pagine 412

Il mondo è un tormento, il torturatore è dio. L’essere è un tunnel che sprofonda nel niente. Agli uomini sembra di stare dentro una favola maligna. Descrivere la desolazione è il compito che rimane allo scrittore. Egli somiglia a uno dei suoi personaggi, il quale parla «come uno che avesse buttato via se stesso, indifferente, ridendo anche a volte, eppure la grandiosità della sua disperazione era sconvolgente» (pag. 38). Dürrenmatt scava fra gli eventi e la cause, fra «questo gigantesco groviglio di fatti fantastici» (251), con lo zelo di un archeologo che s’imbatta «nella magnificenza di delitti sepolti» (398).
Fin qui non ho fatto altro che citare o parafrasare il testo di Dürrenmatt. Per definire la sua opera si potrebbero aggiungere formule come letteratura geometrica, narrativa metafisica, passione cerebrale, tragedia grottesca. Nei Racconti Dürrenmatt dà forse il meglio di sé per la capacità di sintetizzare in poche pagine, a volte addirittura in poche battute, un intero mondo di pensiero, una visione immedicabile del mondo, uno sguardo acuto e perfido come è perfido il reale. Storie le sue apparentemente assurde, il cui significato neppure alla fine sembra svelarsi e che tuttavia sono costruite secondo una gelida geometria. Essa ruota su dei postulati, su parole e concetti chiave come giustizia, potere, boia, malvagità dell’uomo, nientità dell’essere.
La giustizia è quella luterana per la quale homo simul justus ac peccator est e non merita pietà alcuna. Il potere non è né buono né cattivo, è semplicemente il mondo in ogni sua manifestazione, è “l’amministrazione” che ha sede ovunque ci sia un essere umano. Dal «monotono squallore della quotidiana banalità elvetica» (126) al quasi divino meccanismo del Politbüro staliniano, la politica è per sua natura totalitaria poiché si fonda sul meglio degli uomini, sul loro sentimento di lealtà, sul pactum unionis che è pactum subiectionis. Ogni persona è quindi insieme carnefice e vittima, boia e condannato. Nell’essere consapevole di sé e quindi del male c’è odio, c’è il diritto e l’ebbrezza «d’odiare coloro che ci hanno messi al mondo, i genitori, d’odiare gli avi che avevano messo al mondo i genitori, e oltre a loro gli dei che hanno messo al mondo genitori e avi» (239). Un odio inutile e necessario come inutile e necessaria è ogni cosa: «Tutto era ineluttabile come è ineluttabile il contenuto dei libri di matematica» (16) fino al punto che lo stesso principio di causalità è ancora troppo superficiale in quanto «nessun evento ha una causa, bensì un’infinità di cause; infatti un evento non rimanda a un altro evento come alla sua causa, è piuttosto “causalmente” collegato con tutte le cause, con tutto il passato del mondo» (265). E se le cose andassero diversamente, per ciò stesso -immediatamente- piomberebbero nel nulla.
L’uomo non è altro che il luogo dove tutto ciò si fa consapevolezza e insieme coacervo di domande. Gli umani sono quindi «soltanto un’approssimazione» (245), sono un’angoscia perennemente in lotta con se stessa secondo l’antico detto (da Hobbes indietro a Lucrezio e da questi a Plauto) dell’homo homini lupus. È sensato pensare che «la natura, per quanto ottusa, non rifarà probabilmente la sciocchezza di creare dei primati, il caso culminato nella creazione della nostra razza non si ripeterà, probabilmente» (270).
Dopo due secoli uno svizzero inchioda un altro svizzero -Rousseau- alle sue illusioni filantropiche, le stesse che geometricamente hanno prodotto l’orrore del disordine totalitario. Dürrenmatt contro l’antropologia dell’Emilio in tutti i suoi racconti ma in maniera esplicita in un testo del 1943 –Il figlio– dove in un unico denso periodo si mostra l’essenza selvaggia dell’uomo roussoviano. A esso Dürrenmatt contrappone il mito platonico della caverna e le domande di Zarathustra sul senso della bestia uomo.
Dagli antichi miti di Edipo e del Minotauro alla terza guerra mondiale combattuta dentro le montagne svizzere, dall’angoscia di Pilato agli strani destini di rappresentanti svizzeri di commercio, da rabbini e imam senza tempo ai gangster americani, qualunque sia il tema, chiunque siano i personaggi, i Racconti di Dürrenmatt descrivono una sola cosa: il mondo è un tormento, il torturatore è dio, l’essere è un tunnel che sprofonda nel niente, agli uomini sembra di stare dentro una favola maligna. Scrivere è l’unico modo per dare un senso all’assurdo.

[Al più perfetto di questi racconti, La morte della Pizia, -comunque assai meglio tradotto nell’edizione Adelphi- spero di dedicare uno dei prossimi ‘Libri del mese’]

Al termine della notte

Viaggio al termine della notte
di Louis-Ferdinand Céline
(1932)
(Voyage au bout de la nuit, Gallimard, 1952)
Traduzione e note di Ernesto Ferrero
Corbaccio, 1995
Pagine 575

voyageIl silenzio. Questo solo rimane dopo l’immersione in questo libro senza pari. Come Proust desiderava per la sua Recherche, dobbiamo dire anche a Céline: ‘Sì, la vita è veramente così. Le cose accadono come tu le hai descritte’.
Non la notte che ci avvolge, non il buio che percorriamo ma la notte che siamo. Questo, nulla di meno, Céline ha tentato di descrivere. Il nostro corpo, magnifico e disgustoso, desiderato e repellente. La menzogna di chi parla dell’avvenire e in suo nome intende redimere -sacrificandolo- il presente. La guerra con la sua «imbecillità infernale» (pag. 20). L’inganno delle maggioranze. La pericolosa ma inavvertita potenza delle parole che devastano i sentimenti e creano mondi; la terribilità ancora più grande di quello che non è stato ancora detto. Il commercio, «questo cancro del mondo, sfolgorante nelle réclames ammiccanti e pustolose» (230). La truffa della vivisezione, la gratuita crudeltà verso le bestie. Il tempo che non basta se non per pensare a se stessi. Il tentativo reciproco, continuo e infaticabile di fregarci a ogni istante, l’istinto assassino della gente, la sua «impotenza speculativa» che la obbliga «a odiare senza alcuna chiarezza» (421), tanto che «fidarsi degli uomini è già farsi uccidere un po’» (200). La potenza, di contro, della solitudine, di una forte vita interiore capace di bastare a se stessa. L’invincibile muraglia del destino, ai cui piedi si ricade «ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido» (225). Il destino che ci rende «tutti aggrappati come palle di bigliardo vacillanti sull’orlo della buca» (385). La finzione della morale, quest’immensa fatica«per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (459). Il bisogno, l’istinto, di godere ed essere felici e l’impossibilità quindi di un vero, integrale, dolore. L’impulso a vomitare la terra intera, questo «spaventoso universo proprio orribile…» (549). La pena, quindi, che non ci lascia mai, che non si può mollare in qualche angolo di strada e che «forse è ancora meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita» (383). Una vita che somiglia a «una classe in cui la noia è il professore» (391). L’amore che ci manca, quello per la vita degli altri. Lo studio, l’istruzione che fa l’orgoglio di un uomo e attraverso la quale «bisogna proprio passare per entrare nel cuore della vita. Prima, ci si gira soltanto intorno» (269), tanto che non basta essere ostinati e carogne se non si aggiunge la cognizione, la quale soltanto consente di andare più lontano degli altri. Lontano fino a scorgere «sùbito in qualsiasi individuo la sua realtà di grosso verme ingordo» (372), fino a comprendere la radicale malvagità degli uomini, la loro «sporca anima eroica e fannullona» (21), capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne» (33), gli uomini, queste bestie verticali (159).
«A ciascuno il suo terrore» (62). Qualunque cosa accada, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento: «La verità è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte» [cfr. Canetti: Massa e potere] (225). Una volta che si è nati, la cosa migliore è uscire da questa «notte smisuratamente ostile e silenziosa» (361), dopo essere stati «una scheggia di luce» (376).
Tutto questo e molto altro è il Voyage. Una narrazione che va da Parigi al Congo, dal fronte franco-germanico a Detroit, «dalla vita alla morte». Spinta da una inesausta «voglia di saperne sempre di più» (263), intessuta e materiata di un linguaggio senza modelli, insieme gergale ed elegante, immediato e artificioso, sensuale e plebeo senza mai essere volgare. Nello specchio deformante e quindi fedele di questo libro mi sono guardato e mi sono  riconosciuto. «Non avevo una grande idea dell’uomo io» (545).

«Notte fredda» / «Fiamma meravigliosa»

Il Profumo
di Patrick Süskind
(Das Parfum, Diogenes Verlag AG, 1985)
Trad. di Giovanna Agabio
Longanesi, 2006
Pagine 261

Profumo_1Dentro la storia ma come una densa allegoria antropologica e religiosa.
La vicenda di Jean-Baptiste Grenouille, venuto al mondo nel 1738 nello spazio più maleodorante di Parigi e morto in quello stesso luogo nel 1767, è quella di una creatura, di una entità, nella quale Luce e Tenebra si mescolano a produrre il più mostruoso e il più adorato degli umani, a scatenare un odio furibondo e uno sconfinato amore. «La sua anima non aveva bisogno di nulla» (pag. 26), anima nera nella quale «regnava una notte fredda» (247), in cui trionfo del sé e disprezzo del mondo si coniugano al tocco di una Grazia enigmatica. La Grazia che è la Bellezza.
Jean-Baptiste Grenouille vive solo per la Bellezza, per distillarla dai corpi, per racchiudere e salvare dal tempo i loro odori più fragranti, dolci, esaltanti, in qualche goccia di un profumo trascendente. Quest’uomo è solo olfatto. Non gli interessa vedere, toccare, sentire con le orecchie, gustare con il tatto. Dotato della capacità prodigiosa di distinguere milioni di effluvi e di sentirli a distanze lontanissime, il suo solo interesse sta nell’annusare, nel percepire le esalazioni di ogni cosa, nel cogliere l’essenza olfattiva di tutto. Non solo l’odore delle creature morte fra le quali era nato –nel putrido mercato del Cimetière des Innocents-, non solo quello dei malvagi bambini dell’orfanotrofio o delle pelli dei conciatori sul fiume o l’odore delle essenze del profumiere Baldini presso il quale aveva lavorato come garzone, non il profumo soltanto o il fetore delle cose vive che brulicano nel mondo ma anche quello degli oggetti, «l’odore della seta stirata, ad esempio, […] l’odore di un pezzo di broccato ricamato d’argento, […] l’odore di un pettine di tartaruga» (39).
Tutti gli odori del mondo, in ogni loro declinazione, intensità, direzione, fragranza e puzzo. Ma lui, Grenouille, lui non ha odore. È questo il segreto atroce che lo rende invisibile agli altri e orribile a se stesso. È questa la causa dell’odio che prova verso gli umani. Nel momento del suo trionfo supremo, quando riesce a far sì che la collera, la vendetta, il fiele di coloro ai quali ha ucciso le figlie per trarne il profumo, diventino stupore e venerazione, si trasformino nel puro amore generato da una goccia soltanto del profumo che aveva distillato dalle sue vittime, «in quel momento tutto il disgusto per l’umanità si ridestò in lui e avvelenò il suo trionfo» (244). Quel profumo è capace di tutto e potrebbe dare al suo creatore un potere sugli umani universale e completo, ma neppure quell’aroma trascendente può far sentire a Grenouille il suo proprio odore.
Vicinissimo all’essenza olfattiva delle creature e tuttavia lontanissimo dal comprendere e giustificare la loro esistenza, «era la lontananza dagli uomini a dargli la sensazione della massima libertà», fino a indurlo a trascorrere sette anni (un numero chiaramente simbolico) in una caverna sulla cima di un vulcano spento, il Plomb du Cantal: «Il suo naso lo portò in regioni del paese sempre più isolate, lo allontanò sempre più dagli esseri umani e sempre più lo spinse verso il polo magnetico della solitudine estrema» (124).
Una solitudine che è soprattutto distanza dai corpi, perché al naso di Grenouille la massa degli organismi umani produce solo un fetore più o meno acre e insopportabile e poche sono –invece- le creature pervase di profumo e quindi di innocenza. Ed è quella innocenza che Grenouille vuole possedere o, meglio, riconquistare. Per ottenerla uccide -senza risentimento né odio- ventiquattro ragazze splendenti di bellezza e di fragranza e, alla fine, la più bella fra di loro: Laure Richis. È la goccia del perfetto odore di lei a trasformare la folla che intrisa d’odio aspetta il supplizio di Grenouille in una massa di corpi adoranti e orgasmici, nel miracolo ironico e potente della più grande orgia che si fosse vista da secoli, nelle migliaia di persone che investite dall’aura della sua presenza «copularono in posizioni e accoppiamenti impossibili […] L’aria era greve del sudore dolciastro del piacere e colma delle grida, dei grugniti e dei gemiti delle diecimila belve umane. Era infernale» (243).
Profumo_2Destinato alla Crocifissione, Grenouille si trasforma da mostruoso assassino nell’«innocenza in persona», da abominio dell’umano in Angelo del Signore, «nell’essere più bello, più attraente e perfetto che si potesse immaginare» (240), nel Salvatore stesso per i cristiani, nel Signore delle tenebre per i satanisti, nell’Essere Sublime per i deisti.
Quest’uomo insignificante e potente, questa nullità capace di creare mondi fatti di piacere e di assoluta gioia, si offre alla fine in pasto a un gruppo di malnati e malvissuti, a un’antologia della canaglia umana. Ciascuno di costoro «voleva toccarlo, ognuno voleva una parte di lui, una piccola piuma, un’ala, una scintilla della sua fiamma meravigliosa» (258). L’Angelo sterminatore diventa così una figura eucaristica, che infonde nelle anime di coloro che si sono comunicati alla sua carne -anime fino ad allora intrise di tenebra- «un’ombra di gaiezza», un «barlume di felicità», un sorriso, una fierezza, e soprattutto la sensazione di avere per la prima volta nelle loro vite depravate «compiuto un atto d’amore» (259).
Il Profumo è quello del Paradiso perduto. Il romanzo è una metafora cristologica e gnostica che esprime il meglio di sé nei primi e negli ultimi capitoli, là dove la dimensione simbolica -l’essere letteralmente gettati nel puzzo della materia riscattandosi attraverso il profumo della Luce- diventa struttura narrativa. Nel mezzo c’è l’itinerario dell’anima, delineato con una certa lungaggine e qualche ripetitività. In ogni caso, pur essendo Jean-Baptiste Grenouille una creatura evidentemente ripugnante, rimane nel lettore un’attrazione profonda verso di lui. Ancora un miracolo del suo profumo.

Silenzio / Luce

L’acrobata
di Giuseppe O. Longo
Einaudi, 1994
Pagine 173

L'acrobataConosco ormai da tempo la scrittura di Giuseppe O. Longo e quindi stavolta andrò subito oltre le sue atmosfere sospese e perfette, oltre i sorrisi dolci e crudeli che essa disegna, al di là delle terre di nessuno nelle quali si perdono le sue città sfuggenti e rotonde, oltre le danze macabre, oltre la Madre e la famiglia -questo «solito piccolo inferno in cui tutti affoghiamo» (p. 54)-, andrò al di là delle immagini, le quali «fanno parte di ciò che si deve abbandonare» (96), oltre le intelligenze artificiali e l’Enigma -la macchina che sembra stare al centro di questo romanzo-, al di là del linguaggio, con i suoi «frammenti di una parola universale cifrata, in cui si nascondeva una verità enorme, quasi incredibile» (145), andrò al di là persino della donna, questo «idolo» che sembra poter dare insieme a molto dolore «un’ignoranza transluminosa» (163 e 165), andrò quindi anche oltre il sangue, lo sperma e il corpo «mistero immanente e ricorsivo» nel quale e per il quale «tutto avviene» (117).
Arriviamo subito al nucleo potente costante metafisico e carnale della narrativa di questo sommo tra i contemporanei. Arriviamo alla Gnosi. Partendo, come sempre va fatto, dal quotidiano. Da questo nostro desiderio di essere padri e madri, vale a dire di «mettere al mondo un’altra solitudine per curare la propria [che] è un delitto forse ancora più infame» (67). Sì è vero, «è terribile la facilità con cui si può mettere al mondo un essere umano: è un atto che chiunque può compiere con leggerezza, ma i cui effetti sono duraturi e devastanti», la facilità con la quale ci allontaniamo dalla «gioia, cioè proprio l’antitesi di quel piacere acre e convulso» senza il quale, «forse, la specie si estinguerebbe, e con essa il dolore associato alla carne» (141-142).
Una trappola la definisce il Narratore. Ordita da qualche incapace divinità che, prova e riprova, ha saputo costruire soltanto palazzi di dolore e fondamenta di pianto, instillando in ogni ente e relazione «il germe del proprio disfacimento» (149), accrescendo una «moltitudine sterminata che nei millenni ha invaso la terra e continua a moltiplicarsi senza ritegno», generando una «massa di carne […] irrimediabilmente soggetta al dolore» (69) e capace di infliggere agli altri animali nei macelli «atrocità impassibili, decapitazioni, torture, ferocia allegra e gratuita, gli uomini come le bestie, le bestie come gli uomini» (102).
In questo racconto il personaggio forse più dolente ma anche più dignitoso e più calmo -Tommaso- dà voce alla dottrina secondo cui «il mondo nel quale noi viviamo, quello che ti vedi intorno anche in questo momento, non è il mondo vero, non è il mondo definitivo» (79) poiché il vero mondo -che possiamo solo sperare esista- è «un mondo di luce, anzi nemmeno di luce: un mondo di silenzio» (80), quel silenzio e quella leggerezza sui quali il romanzo si conclude, non prima di aver detto -con parole soppesate e precise come soltanto quelle di un matematico possono essere- che «il mondo era un fallimento totale, ed era giusto […] che dovesse essere quanto prima sostituito da qualcosa di meno imperfetto, in cui se non altro ci fosse meno sofferenza per tutti, anche per me»  (154).
Da matematico e scienziato consapevole che «quando tutte le questioni di cui si occupa la scienza fossero state risolte, i problemi veri della vita non sarebbero stati neppure sfiorati» (la citazione da Wittgenstein –Tractatus logico-philosophicus, 6.52- si ripete due volte, alle pp. 102 e 139), Longo sa che non si può neppure tentare di comprendere l’enigma delle cose senza la filosofia. Perché «c’è sempre una metafisica dietro le cose importanti. Chi dice di non avere una metafisica in realtà ne ha una sbagliata» (75).
E invece ne L’acrobata filosofia, letteratura, matematica convergono nello scintillio di un linguaggio sorvegliato e insieme passionale, esatto e poetico, dolente ma sempre aperto alla materia luminosa. Stephen A. Hoeller, uno dei maggiori studiosi contemporanei della Gnosi, sostiene che «incontrare un vero gnostico significa incontrare uno straniero» (Gnosticism. New Light on the Ancient Tradition of Inner Knowing, 2002; trad. it. di P. Vertuani, Il libro della luce. Miti, storia e attualità dello gnosticismo, Coniglio Editore, Roma 2008, p. 213). Sarà anche per questo che i romanzi e i racconti di Longo hanno la struttura di un viaggio dove l’Heimat -la propria casa, la propria terra- sta sempre altrove.

Pienezza

Philippe Parreno. Hypothèsis
HangarBicocca – Milano
A cura di Andrea Lissoni
Sino al 14 febbraio 2016

Non è una mostra, non è un’installazione. È piuttosto un racconto che luci e suoni fanno a se stessi, un evento drammaturgico, un set cinematografico nel quale si viene immersi, diventandone attori nello spazio.
Si inizia con la citazione delle stranezze di Duchamp, diventate trasparenze. Si prosegue nel luogo più vasto del grande Hangar, nel quale una lampada si muove ellittica a indicare il cammino del Sole e proiettare sul muro le ombre delle Marquees (le insegne luminose che negli anni Cinquanta reclamizzavano i film nei cinema statunitensi) che ad altezze diverse scandiscono l’intero corridoio, nel quale vengono proiettati dei film di Parreno, vengono eseguite da pianoforti musiche di vari compositori, si illuminano dei led formando strutture e immagini.
Dinamismi, luci, suoni, sinestesie, generano nel corpomente una sensazione di rilassamento, di quiete, di silenzio abitato dalle forme. Si è immersi in un ambiente naturale, artificiale, ambiguo e quotidiano, soprannaturale, cinematografico.
Natura e artificio vi appaiono infatti profondamente coniugati. Il cielo, la pioggia, le nuvole, i tuoni, le albe e i crepuscoli, lampadine, cavi, canzoni. Il parlante silenzio della materia. E poi il rumore dei programmi televisivi, della radio, della pubblicità. Frammenti di insensatezza nella pienezza di un mondo sovrano e indifferente alla stupidità. La deriva dell’acqua, la sua potenza e la sua calma. Oggetti d’arredo nelle case. Lo spazio domestico sembra abituale e tuttavia appare inquietante. La Scrittura vergata sul palinsesto del mondo. Voci, parole, forme luminose. Tra Neuromancer e Blad Runner ma con maggiore raffinatezza.
Così vince il divenire, cosi  trionfa il Tempo.kiefer_dipinti

Dallo spazio di Hypothesis si accede ai Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefel, ai quali da poco sono stati aggiunti dei dipinti dello stesso artista. Enormi tele che descrivono piramidi rovesciate e costellazioni celesti; Dike, la bilancia e la giustizia cosmica; l’arcobaleno dei filosofi tedeschi; la polvere della terra e del tempo. Tutto questo esprime la fragile stasi dell’eterno, dell’archetipo, dell’arcaico. Un cammino iniziatico, un percorso verso la Pienezza.

Il funesto demiurgo

Il funesto demiurgo
di Emil Cioran
(Le mauvais démiurge, Gallimard 1969)
Trad. di Diana Grange Fiori
Adelphi 1991 (1986)
Pagine 161

«Conoscere è discernere la portata dell’Illusione» (p.153). In questa frase, come in tutto il pensiero di Cioran, convergono numerose esperienze: gnosi, catarismo, Schopenhauer, scetticismo, Stirner, buddhismo. Cioran offre a questo sapere la coerenza del suo modo di esistere e lo scintillio di una scrittura fredda e perfetta.
«Che l’esistenza sia viziata alla sorgente» (11) è il punto d’avvio di questo sedicente «parassita del Peccato Originale» (157). Non si tratta, però, di un dogma iniziale, del principio da cui si deduce un sistema. Si tratta, semplicemente, di una constatazione. I testi di Cioran è di questo fatto che danno conto, indagandolo con la spietata lucidità di un eremita della metafisica. Tutto serve a confermare e spiegare la tristezza del mondo: eventi privati, letture sparse e varie, indagini sui grandi sistemi, osservazioni sugli animali, sogni.
Tra le filosofie alcune emergono evidenti. Fu tipico degli gnostici e dei catari l’orrore per la carne e per l’insensatezza del generare, in quanto stolta imitazione dell’operato del funesto demiurgo che insieme alla vita plasma il dolore. «Procreare significa amare il flagello, volerlo conservare e favorire» (20), moltiplicare la presenza di quell’autentico «punto nero della creazione» che è l’essere umano (22), sterminatore di se stesso e degli altri animali. Quando accenna a questi ultimi, la prosa di Cioran è permeata di grande rispetto, di autentica ammirazione. È infatti una costante di tutte le filosofie antiumanistiche una più esatta e oggettiva valutazione di quel mondo non antropico che non esiste soltanto in funzione nostra.
Altra presenza ben visibile è quella di Schopenhauer. Direi che in ogni assunto di Cioran c’è qualcosa della sua saggezza. Qui, ad esempio, emergono le due idee fondamentali del filosofo di Danzica: il male insito nel principium individuationis, la volontà come fonte prima del dolore («nel benefico caos precedente alla ferita dell’individuazione»; «una sola malattia, la più tremenda di tutte: il Desiderio», pp. 104 e 130).
Lo scetticismo allontana Cioran da ogni discepolato, da qualunque infatuazione, anche per la più cupa delle filosofie, e gli fa apprezzare -segnale emblematico- il secolo dei Lumi. Lo scetticismo, infatti, «è un esercizio di de-fascinazione» per quanto anch’esso possa esser visto come «la fede degli intelletti ondeggianti» (pp. 146 e 152). La verità viene dunque dissolta insieme all’essere. I due temi della metafisica e di ogni filosofia spariscono nel nichilismo radicale di questo pensiero.
Cosa rimane, infatti, dell’essere al confronto con la sapienza del Buddha e con l’idea della morte? Non si tratta solo di respingere «questo mondo, il mondo degli antenati, il mondo degli dèi», come recitano antiche formule orientali (90) ma di pensare ossessivamente alla morte fino a desiderarla, fino al coraggio e alla sapienza dell’unico «bel suicidio. Il solo che meriti questo epiteto è quello che nasce da niente, che non ha un motivo apparente, che è ‘senza ragione’: il suicidio puro» (78-79).
Civiltà del suicidio fu quella classica, dei Greci, dei Romani. Al loro politeismo va la nostalgia di Cioran. Molteplicità di dèi significa più possibilità di scegliere significati e venerazioni, significa maggiore disincanto e tolleranza, vuol dire un clima culturale e religioso più respirabile, vuol dire una società più libera: «Nella democrazia liberale vi è un politeismo soggiacente (o, se si vuole, incosciente) e, inversamente, ogni regime autoritario ha in sé un monoteismo camuffato» (40). Il politeismo pagano possiede, inoltre, la misura dei limiti della Terra e dell’uomo che il cristianesimo ha fatto smarrire nella sua pretesa di un dio incarnato qui e fra noi: «L’Incarnazione è la lusinga più pericolosa di cui siamo mai stati oggetto. Ci ha concesso uno status fuori misura, del tutto sproporzionato rispetto a ciò che siamo. Innalzando l’aneddoto umano alla dignità di dramma cosmico, il cristianesimo ci ha ingannati sulla nostra insignificanza, ci ha precipitati nell’illusione» (43).
Il nichilismo di Cioran è dunque un elogio. Elogio dell’astenersi, elogio degli animali, elogio del paganesimo, elogio della nolontà, elogio anche dell’ignoranza come redenzione da ogni presunzione, elogio della morte su cui la riflessione è continua, martellante. Elogio, infine, del nulla; dell’unico stato lieto, dell’unica possibile felicità: «la dolcezza di prima della nascita, la luce della pura anteriorità» (114).  Ecco dunque la migliore definizione che Cioran abbia forse dato di se stesso: «Frivolo e incongruente, dilettante in tutto, avrò conosciuto a fondo soltanto l’inconveniente di essere nato» (160).
Nella disperata lucidità dei suoi pensieri, Cioran mostra un ultimo paradossale e intimo desiderio di felicità: «Se fossi certo d’essere indifferente alla salvezza, sarei di gran lunga l’uomo più felice che sia mai esistito» (156). È la salvezza, una qualche salvezza, il tarlo vitale di Cioran, la risposta al ‘perché non mi sono ancora ucciso?’. Questa suprema incoerenza ha prodotto i libri di Cioran. Ha prodotto testi e pensieri che schernendo ogni verità, dissolvendo tutto l’essere, si sono accostati più di tanti -come la gnosi, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger- alla più intima verità dell’essere. Sein zum Tode (essere per la morte), la filosofia come riflessione senza timori su ciò che conta, su ciò che in ogni caso è una certezza.

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