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Gentilezza

Kinds of Kindness
di Yorgos Lanthimos
Gran Bretagna, 2024
Con: Jesse Plemons (Robert, Daniel e Andrew), Emma Stone (Rita, Liz ed Emily), William Defoe (Raymond, George e Omi), Margaret Qualley (Vivian, Martha e le gemelle Ruth e Rebecca), Hong Chau (Sarah, Sharon e Aka), Yorgos Stefanakos (R.M.F.)
Sceneggiatura di Efthymis Filippou
Trailer del film

Simboli su simboli si sovrappongono e stratificano dentro un film che può apparire (ed è) una commedia nera in tre episodi, un divertimento camaleontico per attori che interpretano personaggi assai diversi, una narrazione pulp nella quale scorre una discreta quantità di sangue sino a pratiche cannibaliche in cucina.
Ma dietro e dentro l’ironico titolo di un film dove la gentilezza proprio manca si intravvedono miti e credenze antiche, si direbbe quasi consustanziali a due greci come il regista e lo sceneggiatore Efthymis Filippou.
Il primo episodio si intitola La morte di R.M.F. e descrive un dirigente/demiurgo capriccioso e determinato che impone a un suo collaboratore/servo le azioni più bizzarre ed estreme, sino a ordinare in dettaglio le azioni quotidiane (sue e della moglie) e a chiedergli di assassinare un uomo. In seguito al rifiuto Robert viene licenziato ma non accetta questo esito e fa di tutto per ingraziarsi il capo/dio e tornare al suo servizio, compreso il cercare di compiere l’assassinio che gli era stato ordinato.
Nel secondo episodio, R.M.F. vola, un poliziotto è gravemente depresso perché la moglie è dispersa in un atollo a seguito di un naufragio. Quando Liz viene ritrovata sana e salva Daniel però non è affatto contento e convinto, perché sospetta che in realtà si tratti di una sosia, di una usurpatrice. Neppure i gesti più estremi di fedeltà e d’amore di Liz lo convincono e la donna arriva alla morte, tranne poi riapparire e finalmente essere accolta dal marito. La scena finale è una chiara illustrazione del mito della morte e resurrezione.
Il terzo episodio, R.M.F. mangia un sandwich, è il più chiaro nell’indicare la matrice teologica del film. Racconta infatti di una setta guidata da una coppia, maschio e femmina (Omi e Aka), le cui lacrime mescolate con l’acqua costituiscono l’unica bevanda ammessa e i cui membri non possono avere rapporti sessuali se non con Omi e Aka e con chi da loro è autorizzato. I disobbedienti vengono purificati  tramite una sauna quasi mortale. L’obiettivo del gruppo è trovare una donna capace di resuscitare i morti. Andrew ed Emily, membri della setta, si mettono alla ricerca di questo Messia. Andrew è gelido ed efficiente, Emily è appassionata e tenace. Sarà lei a trovare l’eletta ma anche a segnarne il destino.
Molti altri sono gli elementi simbolici di questo film, tra i quali un sogno di capovolgimento del rapporto tra l’animalità umana e gli altri animali (in particolare i cani). In ogni caso, si tratta di una favola teologica sul destino dei viventi (per una lettura marcatamente gnostica rinvio a questo interessante commento di Francesco Patrizi: Un film sul rapporto uomo/dio). Il personaggio che si chiama R.M.F. muore, vola, risorge ed è lo sfondo, l’occasione, l’oggetto di tutti e tre i racconti, senza in pratica mai dire una parola. Le iniziali del suo nome rimangono enigmatiche ma il contenuto al quale rimandano è abbastanza chiaro ed è inscritto in una antropologia e cosmologie gnostiche per le quali questo mondo è intessuto di insensatezza, passioni e ferocia, è del tutto privo di gentilezza, è abitato da divinità usurpatrici e capricciose, può essere redento non dalle azioni che sono sempre destinate allo scacco, al fallimento e al male, ma dall’affrancamento da ogni eccesso emotivo; una liberazione conseguita tramite la conoscenza che quello che abitiamo è appunto un mondo perduto. E a partire da tale consapevolezza praticare la distanza (non certo l’amore) che di ogni gentilezza è la condizione.

Proust, la teoresi, la gioia

Quello gnostico di Proust
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
27 maggio 2024
pagine 1-4

La Recherche du temps perdu è un cosmo che nessuna navicella ermeneutica riuscirà mai a percorrere per intero. Un modo per toccarne quanti più luoghi, spazi, direzioni, anfratti, enigmi, dimensioni, è attraversarla con uno sguardo teoretico che riconosca in Marcel Proust il filosofo che è stato.
De Scriptura di Enrico Palma squaderna il pensare proustiano nella sua potenza, dinamica e coerenza, offrendo in questo modo un fecondo contributo all’infinito lavoro di comprensione dell’Opera, che ne disvela i nuclei filosofici, li pone in relazione con il pensiero teologico ed estetico del Novecento, ne coglie continuità e distanze con la poesia e la narrativa del nostro tempo. E soprattutto questo libro mostra le ragioni dell’inspiegabile gioia che da un secolo coglie i lettori di Proust nell’istante di grazia nel quale incontrano le sue parole e intravvedono in esse la verità profonda della vita.

Albert Camus

Il disincanto gnostico di Camus
in Dialoghi Mediterranei
n. 67, maggio-giugno 2024
pagine 60-65

Indice
-Stranieri al mondo, gettati nel mondo
-Stranieri al potere
-Caduti nel mondo 
-L’epidemia della storia

Albert Camus è uno degli gnostici più sottili ma anche più evidenti del XX secolo. A partire dal titolo del suo libro fondamentale, lo Straniero, ogni idea, pagina, affermazione programmatica, diventa una metafora del sentimento di profonda estraneità e distanza che lo gnostico nutre verso un mondo il quale «tel qu’il est fait, n’est pas supportable; così come è fatto, non è sopportabile» (Caligula). I romanzi e i drammi di Camus costituiscono una magnifica traduzione del sentimento antico e potente del tragico: la colpa e la nostalgia di una luce che una caduta, la chute, ha reso irraggiungibile.

Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Giardini

Il maestro giardiniere
(Master Gardener)
di Paul Schrader
USA, 2022
Con: Joel Edgerton (Navel Roth), Quintessa Swindell (Maya), Sigourney Weaver (Norma Haverhill)
Trailer del film

Narvel Roth è il maestro giardiniere in una grande e ricca villa, di proprietà di una dama autoritaria e sola.  Norma, questo è il suo nome, chiede a Narvel di accogliere una sua pronipote, Maya, tra gli apprendisti giardinieri che lavorano nella tenuta. Maya è figlia della figlia di sua sorella, è rimasta sola dopo la morte dei genitori, entrambi tossici, e ha problemi anche lei. Narvel insegna alla ragazza i fiori, la gentilezza e soprattutto la distanza dal proprio più doloroso passato. Il maestro giardiniere fa infatti parte di un programma di protezione dei ‘collaboratori di giustizia’ dopo aver essere stato membro di un violento gruppo neonazista. I segni di questo passato sono impressi sulla sua pelle nella forma di tatuaggi assai espliciti che a poco a poco si rivelano alla ragazza e determinano la rottura tra di loro sino a una ricomposizione che sembra venire non dalle scelte delle persone e dalle circostanze, che anzi spingono in direzione contraria, ma da una sorta di ‘grazia’ alla quale allude anche il nome del giardino e della tenuta: Gracewood.
Come nel precedente Il collezionista di carte (The Card Counter, 2021), la miseria umana è qui raccontata senza nascondimenti ma anche senza compiacimenti. La punizione per i malvagi può avvenire in qualsiasi momento così come la misericordia. Il mondo frenetico e teso del gioco e dei casinò, nel quale era ambientato il film precedente, diventa un quieto giardino dal passato tuttavia oscuro. La capacità degli animali umani di distruggersi in qualche modo e in tutti i modi è però la stessa. Un film immerso nella cultura calvinista e nelle strade desolate degli Stati Uniti d’America ma che per ritmi e profondità sembra opera di un autore europeo.
Il coinvolgimento non spettacolare e profondo che quest’opera suscita tocca infatti i luoghi e le corde del dramma generato dalla cacciata da un giardino che non c’è mai stato ma che alcuni umani credono ci sia ed esiste nella nostalgia che ne proviamo.

[Nella foto qui sotto gli attori del film e il regista che indossa una maglietta molto interessante]

Paul Schrader con Joel Edgerton, Quintessa Swindell e Sigourney Weaver

Beethoven / Goethe

Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 7
II movimento – Allegretto
Berliner Philharmoniker – Direttore: Herbert von Karajan

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Ho già proposto l’ascolto di parte di questo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven nella peculiare interpretazione del jazzista David Helbock. Invito adesso ad ascoltare l’intero movimento (durata 7.45) in una delle sue letture più famose e più potenti, quella dei Berliner Philarmoniker diretti da Herbert von Karajan.
È come se il dolore e la tenacia dell’esistere gorgogliassero da queste note, investendo la nostra anima e dicendoci che il grumo di materia e di tempo che siamo può tuttavia attingere un istante come quello che Faust voleva fermare.

La vicenda del Faust di Goethe comincia con un desiderio di suicidio che nasce dal sentimento tutto moderno dell’angoscia; si sviluppa in una serie tragica e grottesca di viaggi, voli, seduzioni, guerre, fantasie; si conclude con una splendida morte e si prolunga in un Paradiso romantico dove al centro sta «das Ewigweibliche; l’eterno Elemento Femminile» (verso 12110) (Goethe, Faust, introduzione, traduzione con testo a fronte e note a cura di Franco Fortini, Meridiani Mondadori, 1990). Nel poema domina una dismisura tutta moderna, assai lontana dai Greci, tranne – non a caso – nell’atto terzo della seconda parte, negli episodi ambientati a Sparta, davanti alla bellezza indicibile di Elena.
Tutto in Goethe vorrebbe essere greco e l’intelletto del poeta certamente lo è. Egli, infatti, ripete con Sileno che «drum besser wärs, daβ nichts entstünde; meglio sarebbe che nulla nascesse» (Mefistofele v. 1341) e «O wär ich nie geboren!; Non fossi mai nato» (Faust al v. 4596). Alla percezione del male che è l’esistere anche Goethe pone come controcanto la bellezza della luce, il culto del Sole, un’ontologia panteistica che fa di ogni ente la parte provvisoria e finita del Tutto. Non solo: uno degli strumenti con i quali Mefistofele cerca di ingannare Faust consiste nell’indurlo a disprezzare «Vernunft und Wissenschaft / Des Menschen allerhöchste Kraft; ragione e scienza, / poteri supremi dell’uomo» (1851-52) a favore di poteri demoniaci, magici, irrazionali.

Il poeta è pienamente consapevole dei limiti che il tempo e la materia pongono a ciò che vive e quindi anche all’umano; egli conosce la finitudine che intesse di sé ogni desiderio, pensiero, gioia, attimo. Nereo può, infatti, dire degli umani che essi sono «Gebilde, strebsam, Götter zu erreichen, / Und doch verdammt, sich immer selbst zu gleichen!; creature tese a eguagliarsi agli dèi, ma / sempre dannate a essere se stesse» (8096-97) e Faust è costretto a un certo punto ad esclamare che «O daβ dem Menschen nichts Vollkommnes wird, / Empfind ich nun!; Ah che nulla di perfetto ha l’uomo in sorte, / ora lo sento» (3240-41).
Dove Aristotele privilegia, a partire dallo stupore, la teoria, la contemplazione saggia del mondo, Faust condivide il principio mefistofelico secondo il quale «grau, teurer Freund, ist alle Theorie, / Und grün des Lebens goldner Baum;  è grigia, caro amico, qualunque teoria. / Verde è l’albero d’oro della vita» (2038-39). La tensione faustiana «zum höchsten Dasein», a una «più alta esistenza» (4686) trova in tal modo il suo significato nel culto tutto moderno per «die Tat», per l’azione.
Alla fine Faust sarà visitato, vinto, accompagnato verso la morte dalla forza che costringe gli umani lungo tutta la loro esistenza: die Sorge, la Cura, «ewig ängstlicher Geselle; eterna compagna angosciosa». La sua «grimmige Gewalt; parvenza mutevole» (11427-11429) produce nella mente un’insoddisfazione perenne, un inquieto abitare le tenebre dell’indecisione, della preoccupazione, del futuro sempre desiderato e – quando arriva – sempre rimosso. L’irrefrenabile agitazione che die Sorge produce è il vero ma inevitabile inferno degli esseri umani, è ciò che li fa oscillare tra la noia e il dolore, è l’inquietudine senza riposo del vivere. Ecco perché Faust muore e non può che morire nel momento in cui la Cura sembra cessare e pare invece compiersi ciò che lo stesso Faust aveva ritenuto impossibile: il dire all’attimo «Verweile doch! du bist so schön!; Fermati dunque, sei così bello!» (la previsione al verso 1700; il compimento al verso 11582). Nell’attimo di gioia in cui Faust morendo appaga la propria ansia infinita, Mefistofele mormora che «In jeder Art seid ihr verloren; Comunque vada, siete perduti…» (11548).
In ogni caso si è perduti poiché fin dall’inizio si è geworfen, gettati nel mare dell’essere da un dio che «in einem ewgen Glanze; se ne sta nell’eterno splendore» mentre «uns hat er in die Finsternis gebracht; noi, ci ha messi nelle tenebre» (1782-1783). Questo accento gnostico è forse ciò che concilia il poeta moderno con la filosofia antica.
Il secondo movimento della Settima Sinfonia credo che parli  anche di tutto questo.

Black / Light

High Life
di Claire Denis
Gran Bretagna, Francia, Germania, 2018
Con: Robert Pattinson (Monte), Juliette Binoche (il dottor Dibs), Mia Goth (Boyse), Scarlett Lindsey (Willow)
Trailer del film

Verso un buco nero viaggia l’astronave «7», abitata da ergastolani che hanno accolto la proposta di «servire la scienza» sperimentando e verificando che cosa succeda a degli organismi in prossimità di un black hole; verificare se in condizioni estreme è possibile che si generi ancora vita; saggiare se ci sia qualche modo per utilizzare a scopi terrestri l’immensa energia di quella struttura materica.
A guidare un gruppo di 4 maschi e 4 femmine è la dottoressa Dibs, una Medea che ha ucciso i propri bambini e che cerca adesso di farne nascere altri, manipolando a proprio piacimento gli astronauti/criminali. Ma a poco a poco le radiazioni, l’accelerazione quasi inconcepibile – l’astronave viaggia al 99% della velocità della luce -, la violenza nei rapporti interni all’equipaggio, producono morte. Non senza però che la dottoressa che definisce se stessa «strega dello sperma» sia riuscita a fecondare Boyse con il seme sottratto a Monte. Ed è a questa bambina, al suo rapporto con il padre, che sono dedicati il sospeso inizio e l’enigmatico finale di un film di Science Fiction che non ha nulla di hollywoodiano: lento, allusivo, desolato.
Questo è uno dei suoi meriti, così come lo è la ricchezza di simboli, di allegorie, di forme geometriche, a partire da un’astronave che è un parallelepipedo invece del consueto proiettile lanciato verso il cosmo.
Simboli, allusioni, allegorie e forme che disegnano un mondo di viventi assai violenti, chiusi ciascuno dentro il proprio vuoto, sottoposti a un potere senza nome e senza senso, del quale il medico Dibs è soltanto l’implacabile ed efficace demiurgo. La più parte, compreso il demiurgo, moriranno. Il padre e la figlia che è nata nello spazio tenteranno la μετάνοια verso la pienezza, verso l’enigma, verso la luce.
Una difficile e trasparente metafora gnostica.

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