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I morti

Napoli velata
di Ferzan Ozpetek
Italia, 2017
Con: Giovanna Mezzogiorno (Adriana), Alessandro Borghi (Andrea), Anna Bonaiuto (Adele), Peppe Barra (Pasquale), Lina Sastri (Ludovica), Isabella Ferrari (Valeria), Biagio Forestieri (Antonio), Luisa Ranieri (Catena)
Trailer del film

Adriana bambina ha visto morire i genitori in modo tragico e violento. E non è impazzita. Da adulta è medico legale. Indaga e disseziona cadaveri. Durante una festa incontra Andrea, che la guarda spogliandola e le comunica (esattamente: le comunica) che passeranno la notte insieme. È una notte di piacere, di orgasmi, di vita. Andrea le dà appuntamento per il pomeriggio del giorno successivo al Museo Archeologico di Napoli. Ma non arriva. Sarà Adriana a vederlo qualche ora dopo. E da lì parte una vicenda intricata, inquietante, trascendente, criminale, onirica. Che si dipana dentro una città luminosa e oscura, bellissima e mortale.
Tutte le culture, i grandi archetipi, pongono molta attenzione a separare il mondo dei vivi da quello dei morti. Ai quali vanno tributati gli onori, le preghiere, il malinconico affetto del crepuscolo. Ma poi bisogna lasciarli andare. Che siano madri, padri, amanti, coniugi, compagni, figli o fratelli, bisogna permettere loro di incamminarsi negli itinerari del nulla. Sui quali, peraltro, si limitano a precederci di poco.
Non bisogna permettere ai morti di guardarci, non bisogna lasciare che il loro occhio oggettivo e gelido si posi sul nostro divenire, che il loro buio tocchi i nostri colori, che il loro eterno franga il nostro tempo.
È questa l’intuizione -non importa quanto consapevole- del film, quella che lo pone al di là del thriller e della storia d’amore, oltre il compiacimento barocco e la bellezza figurativa, per attingere la metafisica del niente.
Forse soltanto la filosofia e la poesia possono dire i morti senza morire.

«L’ingiustizia consistente proprio nel fatto di ex-sistere, di nascere, di staccarsi dal grande e indefinito Tutto. La propria individuale sussistenza sarebbe il peccato originale che scontiamo morendo»
Augusto Cavadi, Andarsene, Diogene Multimedia 2016, p. 36.

«Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari…Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno»

Vittorio Sereni, «La spiaggia» in Gli strumenti umani (1965), Einaudi 1980, p. 86.

Milano

Milano tra le due guerre
Alla scoperta della città dei Navigli attraverso le fotografie di Arnaldo Chierichetti

Palazzo Morando / Museo di Milano
Sino al 13 febbraio 2014


Chierichetti_Milano_tra_due_guerre
Non come Venezia ma simile alla città pervasa dalle acque. Così Milano è stata ed è apparsa per secoli, sino a quando una delle tante stolte decisioni d’epoca fascista interrò la cerchia dei Navigli. Poi arrivarono anche i bombardamenti anglo-americani a radere al suolo palazzi e quartieri. Ma durante questi attacchi alla città sembra che i milanesi dicessero: «Cossa gh’é de piang? Se ved propi che si mai staa a Pompei». Un’ironia che ha permesso ancora una volta a Milano di rinascere e a molti di ripetere le parole dedicatele da Stendhal: «Questa città divenne per me il più bel luogo della terra». Non pochi milanesi fanno fatica a capire come si possa amare così la loro città. Una risposta l’ha data Vittorio Sereni. Forse bisogna infatti venire dalla provincia lombarda -come questo poeta- o essere nati in un paesino, magari del Sud, per invitare a meditare su «cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi 1980, p. 67). La città aiuta a redimersi da questo diventare nulla; lo fa anche attraversando «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (Ivi, p. 21).
Bellissima immagine che si fa figura nelle fotografie che Arnaldo Chierichetti dedicò alla città. Le acque di Milano, i suoi spazi, il vento, la luce riflessa dagli edifici e le nebbie attraversate dagli ultimi brumisti diventano vedute, tagli, documento. Diventano, quando l’oggetto delle fotografie sono i Navigli, «la quintessenza stessa del rimpianto».
Ma la potenza della struttura urbana inventata dagli umani circa dieci millenni fa -luogo finalmente di una conquistata identità rispetto alle instancabili differenze del nomadismo- permette anche a Milano, come alle altre città del mondo, di mutare incessantemente e tuttavia rimanere sempre quello spazio intimo e aperto, riservato e rutilante, grigio e fastoso, che anche queste immagini testimoniano.

 

Gli strumenti umani

di Vittorio Sereni
Con un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo
Einaudi, 1980 (I ed. 1965)
Pagine 120

Di che cosa parla la poesia se non d’amore? Di questo primo, ultimo, inveterato errore tra gli umani? Del «credere che d’altro non vi fosse d’acquisto che d’amore» (p. 33) in questo mondo spento alla ventura, in questo mare nel quale «presto delusi dalla preda / gli squali che laggiù solcano il golfo / presto tra loro si faranno a brani» (17).
La vita è memoria di ferite che si intrecciano all’oceano di speranze vane eppur indispensabili al respiro che ogni giorno ricomincia, a quell’esistere che si immerge nel con-essere perché è così che la macchina funziona, perché l’essere nel mondo è questo, «i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità» (15). Nel barbaglìo di incontri, spazi, luoghi, così pronti a diventare il già stato mai stato della morte «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (67). E invece gustare e percorrere «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (21).
Il nucleo delle poesie di Sereni pulsa tra la dimensione collettiva e lo scavo fondo nell’umana melanconia. Una volontà di dire il dolore che lascia però spesso irrompere la gioia nei suoi versi e li trasfigura. È vero, certo, che «conta più della speranza l’ira / e più dell’ira la chiarezza, / fila per noi proverbi di pazienza / dell’occhiuta pazienza di addentrarsi / a fondo, sempre più a fondo / sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito / un grido troppo tempo in noi represso / dal fondo di questi asettici inferni» (28). E tuttavia Gli strumenti umani si chiudono sulla permanenza immortale di ciò che ci fa vivere: il ricordo, l’esser stati, il tempo, l’aver amato. «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. / Non / dubitare, -m’investe della sua forza il mare- parleranno» (86).

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