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Gangster

Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Musiche di Andrea Chenna
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Con: Giuseppe Sartori (Oreste), Anna Della Rosa (Elettra), Laura Marinoni (Clitennestra), Stefano Santospago (Egisto), Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Le Erinni), Olivia Manescalchi (Atena),  Giancarlo Judica Cordiglia (Apollo), Maria Grazia Solano (la Pizia), Sax Nicosia (voce e immagine di Agamennone)
Regia di Davide Livermore
Sino al 31 luglio 2021

Un’opera lirica. Con musicisti e pianisti sulla scena e con le voci intense delle Coefore a gorgogliare il dolore. Con, in un momento della trama, in sottofondo anche le musiche di Memorial di Nyman.
La Madre Terra dalla quale tutto sgorga. La Notte, che ha generato le Erinni, la Moira, la Furia. È nelle loro mani il destino degli umani. È nelle mani, negli sguardi, nella profondità di queste potenze sovrane dell’oscurità, accompagnate dal Coro che narra atroci vicende. Le quali però con una progressione di implacabile razionalità trasformano la giustizia della Vendetta nella giustizia dei Tribunali. Per volontà di Apollo e di Atena, vale a dire di Zeus. E così nasce la città umana, la πόλις. Così Eschilo. La sua energia.
Tutto questo diventa invece nel progetto e nella regia di Davide Livermore una parodia. Una parodia nella forma spesso di un musical. Come nella orrenda canzoncina finale. Volontà parodistica che, attenuata, funzionava nella Elena di due anni fa, che di per sé è una tragedia assai particolare, dalla tonalità più lieve e con un lieto fine. Ed è Euripide. Qui invece è Eschilo, che significa la fondazione stessa del mondo sulla materia violenta dei corpi. Non a caso, invece, i corpi degli ateniesi chiamati a stabilire giustizia tra Oreste e le Erinni sono delle sagome metalliche accese di fuoco e spente di esistenza. E se Apollo e le Erinni lottano in un corpo a corpo non soltanto verbale ma proprio fisico, lo fanno dopo essere apparsi le une in dorati abiti da sera sberluscenti e l’altro in tenuta da cameriere d’alto bordo. Non solo. Apollo parla proprio con il birignao dei padroni dei camerieri d’alto bordo. Mani in tasca. Atteggiamento svagato. Dizione strascicata.
Così come Atena e altri personaggi, immersi in una recitazione da commediola novecentesca, nella quale le parole di Eschilo rischiano semplicemente il naufragio. Atena, inoltre, è doppia. Una elegante signora che declama e poi una giovane modella in posa, che fa -alla lettera- la bella statuina. Per concludersi tutto, insieme alla ricordata canzonetta finale, sulle immagini di Aldo Moro nella Renault, delle stragi di Bologna e di Capaci e altre italiche tragedie.
Perché è grave? Perché mostra da parte del regista una radicale sfiducia in Eschilo e nella tragedia. Come se le parole dei Greci avessero bisogno di essere ‘attualizzate’ da questi abiti, da questa recitazione, da queste immagini. E dalle pistole. Sì, ci sono anche delle pistole utilizzate a destra e a manca come nei cartoni animati, nei quali le vittime della pistolettata risorgono pimpanti per essere di nuovo colpite.
Eschilo è ‘attuale’ sempre. Lo è perché sa che di fronte alla Necessità siamo tutti servi. Perché sa che il sangue/biologia non può essere cancellato da nessun pensiero/volontà ma, semmai, soltanto attenuato e indirizzato. Livermore sembra invece condividere il puro culturalismo contemporaneo, uno dei maggiori equivoci del presente. E dei più superficiali.
L’elemento più radicale, più greco e più bello di questa messa in scena è la sfera/video che accompagna l’intero spettacolo, che genera di continuo forme e colori di pece, di fuoco, di oceani, di magma, di Soli, di fango. E che diventa anche lo spettro di Agamennone, il velato, la voce, lo stridore dei morti. Se gli attori -è un’iperbole ovviamente- si fossero semplicemente limitati a leggere Eschilo sullo sfondo di tale sfera e vestiti come noi tutti, la tragedia sarebbe stata tragedia. Perché la potenza delle parole e dei pensieri di Eschilo vince anche sulle trovate di Livermore, sulla riduzione dei Greci a volgari gangster degli anni Venti del Novecento. Le parole di Eschilo.

«Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita»

(Coefore, vv. 928-934, trad. di Monica Centanni)

Una meditazione morale

One on One
di Kim Ki-Duk
Corea del Sud, 2014
Con: Dong-seok Ma, Yi-Kyeong Lee, Young-min Kim, Ji-hye Ahn, Dong-in Jo, Jung-ki Kim, Gwi-hwa Choi
Trailer del film

Violenza e assassinio su una giovane donna. È un 9 maggio. Si vedono esecutori e mandanti ma non si conosce la ragione di tale violenza. Qualche tempo dopo, quel 9 di maggio ritorna nelle parole dette e nelle immagini mostrate da un gruppo di giustizieri che rapisce uno a uno i responsabili di quel delitto, li tortura, fa loro scrivere quello che hanno compiuto e poi li rilascia. Dagli esecutori su su fino ad alcuni generali dell’esercito sudcoreano. Veniamo a poco a poco a sapere che i giustizieri sono persone del tutto comuni, spesso umiliate e in condizioni di difficoltà. La persona che le ha raccolte nutre un bisogno di giustizia che è anche un furore di vendetta. Giustizia e vendetta che si compiono pienamente ma che non conducono ad alcuna redenzione, a nessuna consolazione, a nessun riscatto, a nessun ristabilito equilibrio.
Una chiara e violenta metafora dell’insensatezza delle relazioni umane, nella quale vittime e carnefici sono intercambiabili, dialogano come dei filosofi sulla colpa, sulla responsabilità, sulla miseria, sulla pena. Vedere dei banali torturatori e delle banali vittime, a loro volta assassine, discutere con il lessico e le forme dell’antico stoicismo, delle tradizioni religiose, della kantiana presunta autonomia del gesto morale, produce un effetto interessante, straniante, profondo.
Una descrizione dei comportamenti e delle passioni cupa e assai lucida, fredda e veemente, entomologica e distante. L’assenza di qualunque consolatorio finale conferma la serietà di questa meditazione morale.

Ἀναγκη

Il dubbio. Un caso di coscienza
(Bedoone Tarikh, Bedoone Emza)
di Vahid Jalilvand
Iran 2017
Con: Amir Aghaee (Dr. Nariman), Navid Mohammadzadeh (Moosa), Hediyeh Tehrani (Sayeh), Zakieh Behbahani (Leila)
Trailer del film

Un medico legale investe senza volerlo una moto con sopra una famigliola, compreso un bambino di otto anni. Sembra comunque che nessuno si sia fatto male. La notte stessa il bambino arriva però morto in ospedale. L’autopsia accerta che si tratta di avvelenamento da cibo andato a male ma il dott. Nariman si tormenta sospettando che in realtà sia stata la caduta dalla moto a causare il decesso. Intanto il padre del bimbo finisce in prigione per aver aggredito l’uomo che gli ha venduto i polli avariati che hanno ucciso il figlio. Il tormento dei due uomini fa sentire ciascuno di loro responsabile della morte. E gli attori, tutti, sono ben immersi in questa  inesorabile trama.
Sempre la colpa gorgoglia dall’agire umano, come un drago che soffoca nelle sue spire l’orizzonte. Dalle azioni più insignificanti alle opzioni di fondo dell’esistere sentiamo, sì lo sentiamo proprio, che qualcosa è accaduto con il nostro nascere, qualcosa che non doveva accadere. E che dobbiamo scontare. Da Anassimandro a Ungaretti «la morte si sconta vivendo»; da Eschilo a Pirandello – ben presente nella trama aporetica del film, dove sino alla fine ciò che è è anche ciò che ciascuno vuole che sia–,  γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικία, le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine.
Non riusciamo ad accettare che Ἀνάγκη guidi gli eventi, che φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, che l’essere, l’intero, il sorgere, porti sempre con sé il tramonto, «che il nulla stia fitto dentro il mondo / nessuna sfera ne esce già redenta». I nostri dolori sono meritati come le nostre gioie, al di là dei limiti e delle scelte di ciascuno. Una profonda giustizia domina l’insignificanza delle esistenze umane dentro il tempo.

The Godfather

The Godfather
(Il Padrino)
Parte I (1972) – Parte II (1974)
di Francis Ford Coppola
Con: Marlon Brando (Vito Corleone), Al Pacino (Michele Corleone), Robert De Niro (Vito Corleone da giovane), Robert Duvall (Tom Hagen), James Caan (Sonny Corleone), Diane Keaton (Kay Adams), John Cazale (Fredo Corleone), Talia Shire (Connie Corleone), Al Lettieri (Virgil, ‘il Turco’, Sollozzo), Corrado Gaipa (Tommasino), Lee Strasberg (Hyman Roth), Michael V. Gazzo (Frankie Pentangeli), Gastone Moschin (Fanucci), Maria Carta (la madre di Vito), Morgana King (mamma Corleone)

«Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. […] E quel che è peggio di tutto, vi è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve» (Thomas Hobbes, Leviatano [1651], La Nuova Italia 1976, cap. XIII, p. 120).
Tale fu sin dall’inizio l’esistenza di Vito Andolini, diventato all’anagrafe statunitense Vito Corleone dopo essere sfuggito alla morte che il capomafia di Corleone, appunto, aveva inferto a padre, madre, fratello.
Onesto era Vito ma a Little Italy aveva dovuto imparare l’arroganza, l’umiliazione, la violenza. Ed era diventato Don Vito. Lo troviamo, ormai ricco, nel giorno del matrimonio della figlia; le cerimonie costellano infatti di sé l’intero film, lo scandiscono. Proprio quel giorno è venuto un uomo a chiedergli giustizia per la violenza subita da sua figlia e che i tribunali dello Stato gli hanno negato. Il film inizia con le parole di questo padre: «Io credo nell’America».
La stessa fede nutrita dal figlio minore e amatissimo di Don Vito, Michele, decorato al valore durante la Seconda Guerra mondiale e che al suo ritorno trova un’altra guerra costante, pervasiva, totale; trova il bellum omnium contra omnes e ne diventa il signore: malinconico, freddo, determinato, feroce. Sino alle scene conclusive delle due parti dell’opera: nella prima Michele riceve l’omaggio dei suoi uomini dopo essere diventato il capofamiglia; nella seconda ha ottenuto vendetta su tutti i suoi nemici, tra i quali anche un fratello, anche la moglie allontanata, anche un vecchio e potente ebreo che gli aveva portato la guerra in casa.

Lo sguardo di Michele è lontano, rassegnato, triste, interrogativo, silente. È lo sguardo del potente che domina su un regno di morti e lo sa: «Chi stermina tutti i nemici non ha più alcun nemico, e inoltre gode la vista dei loro mucchi ora inermi» (Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi 1981, p. 543).
È lo sguardo di Cesare Borgia, unito a quello di Machiavelli: «È molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua»; «Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede [la parola data], quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi [malvagi], e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro» (Il Principe, capp. 17 e 18).

In quest’opera la morte arriva coniugata ai riti cattolici, lo sterminio si accompagna e si alterna alle professioni di fede, alla musica celeste, alla solennità della soteriologia cristiana. L’apice è raggiunto durante la cerimonia del battesimo, nella quale Michele fa da padrino al figlio di sua sorella, dichiarando che «rinuncia a Satana e alle sue opere» proprio mentre i suoi uomini uccidono uno a uno e in luoghi diversi i capi delle altre famiglie. Un montaggio magistrale, ironico e disperato. La cui efficacia si percepisce assai meglio vedendo i due film (come ho avuto di recente la possibilità di fare) nella versione originale con i sottotitoli, e potendo quindi apprezzare il continuo passaggio linguistico dall’inglese americano all’anglosiculo. Un originale linguisticamente e concettualmente più sobrio rispetto alla traduzione e al doppiaggio spesso ‘folcloristici’ della versione in italiano.
La seconda parte dell’opera è apertamente e fecondamente politica, con la Cuba del dittatore Fulgencio Batista finanziata sia dalle istituzioni sia dalla criminalità degli Stati Uniti d’America e con una commissione d’inchiesta contro la mafia nella quale i senatori americani sono in mano alle diverse famiglie mafiose, che li usano per reciproche accuse e vendette. Credo che solo il grande successo della prima parte abbia permesso a Coppola di poter essere così esplicito e libero nelle accuse rivolte al proprio Paese, che ne emerge per quello che è: una sentina di corruzione.
Su tutta l’opera domina, naturalmente, Shakespeare, del quale The Godfather è l’ennesima espressione. Riccardo III ma non solo. Il film è pervaso dall’antropologia di Hobbes, Machiavelli e Shakespeare.

Un’antropologia che in Sicilia conosciamo bene. La conosciamo bene a Catania, città dove forze non dissimili da quelle descritte nel Padrino vanno da tempo all’attacco dell’istituzione -l’Università- che pur con tutti i suoi limiti, anche territoriali e antropologici, può insegnare e praticare uno sguardo diverso rispetto a quello della legge del più forte; dove un’informazione comprata e venduta presenta il mondo e i suoi eventi in una chiave espressionistica e perennemente distorta; dove massonerie di tutti i generi stanno dentro le istituzioni che dovrebbero garantire i diritti, i doveri e l’eguaglianza dei cittadini; dove i più lontani dalla legge e dalle sue garanzie invocano continuamente la legge e le sue garanzie, ricevendo ascolto; dove un numero in fondo decisamente minoritario di soggetti riceve la stolta complicità, l’acquiescenza, l’ingenuità di coloro contro i quali operano: i giovani soprattutto.
In quest’ultimo caso la responsabilità è anche nostra: non abbiamo saputo fornire in modo adeguato ai nostri studenti gli strumenti per decifrare la realtà, comprenderne il male, guardarsi dai pericoli che si celano nella superficialità, nell’ignoranza, nei media tradizionali e digitali, nell’inganno ogni giorno perpetrato da molti, troppi, soggetti sociali. Non esiste, naturalmente, il Padrino. Esiste un oscuro tessuto di relazioni palesi e nascoste, istituzionali e private, locali e nazionali, individuali e di gruppo. Un tessuto rosso del sangue del futuro che i nostri giovani non avranno perché non hanno saputo e non abbiamo saputo liberarci dai Corleone che con altri nomi sono ancora i padrini di Catania.

Mafiosi

La mafia non è più quella di una volta
di Franco Maresco
Con: Ciccio Mira, Letizia Battaglia, Franco Maresco
Italia, 2019
Trailer del film

23 maggio 2017. Palermo ricorda e festeggia i venticinque anni dalla strage di Capaci, dalla «scomparsa» di Falcone e Borsellino. Il ricordo del massacro viene trasformato da una folla di boy scout e da altri sentimentali in una sagra di paese, palloncini colorati, cori da stadio: «Giovanni e Paolo là là là là». Una sanguigna, tenace e attardata Letizia Battaglia rimane sconvolta da questa spettacolare banalizzazione. La gente della Vucciria e dello Zen parla molto male dei due «sbirri e cornuti». L’intramontabile e straordinario impresario di spettacoli Ciccio Mira organizza la più improbabile delle feste, quella che allo Zen (quartiere palermitano edificato negli anni Sessanta) fa esibire cantanti neomelodici e artisti vari per una serata in ricordo dei due magistrati. Il rifiuto da parte di tutti costoro di gridare «No alla mafia». Il giovane, spento e stonato cantante Cristian Miscel indossa magliette con le immagini dei due magistrati ma ribadisce tenacemente che non dirà mai «No alla mafia», neppure se a chiederglielo fossero Santa Rosalia, Gesù, il Padreterno. Cantanti country; ballerine ottantenni; sosia di Raffaella Carrà; neomelodici aggressivi; lo «scanturino» (vigliacco) produttore Matteo Mannino cede alle minacce del quartiere; Mannino e Mira scrivono e riscrivono il testo di presentazione della serata, cancellando alla fine ogni riferimento alla mafia; un cartone animato racconta come tanti anni prima il padre di Ciccio Mira e Bernardo Mattarella divennero amici in occasione di un incidente stradale; Ciccio Mira ha ora un favore da chiedere al figlio di Bernardo, Sergio Mattarella; Mira rivolge una grande lode a costui, al suo silenzio sulla sentenza che ha stabilito la realtà della trattativa fra le istituzioni statali e le organizzazioni mafiose, «perché un vero palermitano non parla, come Ulisse. Chi è stato? Nessuno». Un proverbio sentenzia infatti che «cu picca parrà, ma’ si pintì» (chi ha parlato poco non ebbe mai a pentirsene).
E soprattutto la chiusa del film: parte l’Inno di Mameli, sul palco sculettano ballerine avvolte dal tricolore, un cantante esegue l’Inno in versione techno-pop, davanti al palco soltanto un ragazzino, di spalle, nel buio, nel silenzio e nella distanza del quartiere, di Palermo, della Sicilia. Emblematico ed emozionante; degna conclusione di un film lucido, coraggioso, inevitabilmente intriso di volgarità e di spettacolo, libero da formule e atteggiamenti consolatori, progressisti, etici.
Film costruito con un linguaggio cinematografico articolato e complesso, che mescola -come sempre in Maresco- documento e finzione, verità storica e verità dell’immaginazione, rendendo impossibile comprendere quando i personaggi recitano e quando invece sono. Un linguaggio cinematografico intriso del linguaggio denso, carnale, espressionista e profondamente ironico dei palermitani, del loro dialetto, della loro cadenza che viene da lontano e cammina verso il niente. Un linguaggio cinematografico e dialettale che diventa lingua politicamente scorretta, dove l’ormai impoverito e strumentale lessico dell’antimafia si mostra contiguo e funzionale al protrarsi della mafia. La cui antropologia non è più, naturalmente, quella dei mostruosi analfabeti, puttane, trans, cantanti, detenuti, spacchiosi, venditori, pensionati, che popolano questo film ma abita in dimore pulite, asettiche e internazionali.
Anche per questo la mafia non è più quella di una volta ma rimane «cette chose toujours nouvelles / Et qui n’a pas changé» (Prévert) della quale i siciliani siamo intrisi nella nostra solitudine, nel disincanto, nella libertà dalla speranza e dalla disperazione, nel diffidare della giustizia e dei tribunali, nelle soluzioni dirette e veloci (se il problema è una persona, eliminata la persona è risolto il problema), nelle «menti raffinatissime», nel grottesco, nel culto della morte, nel sorriso e nel sonno, nel tutto e nel niente che siamo.

Dürrenmatt / Giustizia

Giovedì 11 aprile  2019 alle 16,00 nell’aula 252 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania si svolgerà il terzo incontro del ciclo dedicato a «Nella magnificenza di delitti sepolti». Friedrich Dürrenmatt e la verità come enigma, organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict.

Parleremo del romanzo Giustizia (1985) e tenteremo una riflessione generale sulla verità.
Il labirinto temporale e la scrittura ubriaca di questo romanzo cercano di «sondare ancora una volta scrupolosamente le possibilità che forse restano alla giustizia». Per due terzi del testo a parlare è l’avvocato Felix Spät, il quale ha ricevuto dal «dottore honoris causa Isaak Kohler» –condannato a 20 anni di carcere per omicidio- l’incarico di «sondare il possibile», vale a dire di rendere credibile l’ipotesi che non sia stato Kohler a uccidere in un ristorante, al cospetto di moltissima gente, il professor Winter.
Dall’esito di questa vicenda torneremo alla fondamentale domanda di Pilato: Quid est veritas? (Gv., 18,38). Un interrogativo che è necessario porsi se non si vuole rimanere ‘sciocchi’. Infatti, afferma uno dei personaggi, «il fine dell’uomo consiste nel pensare, non nell’agire. Qualsiasi sciocco è in grado di agire». Pensando arriveremo forse a intuire che all’essenza della verità appartiene la non verità, all’essere appartiene l’apparenza, alla luce appartiene l’oscurità.
Anche questo vuol dire ἀλήθεια, disvelamento.

 

 

La storia

The Favourite
(La favorita)
di Yorgos Lanthimos
Grecia, 2018
Con: Olivia Colman (Queen Anne), Rachel Weisz (Sarah Churchill, Duchess of Marlborough,), Emma Stone (Abigail Masham)
Trailer del film

Tre meravigliose attrici disegnano e incarnano la potenza che sino in fondo e verso ogni confine fa della vicenda umana l’inevitabile e nascosto matriarcato che da sempre essa è. Anne Stuart (1665-1714) governa il Regno Unito. Lo fa da una camera, da un letto, da una carrozzina, dalle stampelle. La gotta non le consente l’agilità necessaria a muoversi autonomamente. Condizione che, unita alle molte gravidanze andate a male, causa una salute malferma e una volontà oscillante tra il pianto e le carezze. A sostenerla negli affari di stato c’è la favorita Sarah Churchill, duchessa di Marlborough. Una giovane e lontana cugina di Sarah compare a corte e a poco a poco la conquista, passando dal ruolo di sguattera a quello di ministro. Abigail, questo il suo nome, è stata istruita alla durezza dalle disgrazie familiari che l’hanno fatta decadere da una condizione nobiliare a uno stato di indigenza.
La lotta tra le due donne sul corpo e per il corpo della regina descrive la vicenda umana, le sue guerre, la diplomazia, la determinazione, la menzogna, la ferita, i silenzi, i colpi, le parole, i veleni. Gli strati sociali si confondono nella medesima miseria, dalle prostitute «che danno il culo ai soldati sifilitici» agli aristocratici imbellettati come le puttane, dai servitori perfidi e impacciati ai primi ministri tracimanti di corruzione, dai viaggiatori pervertiti in misere carrozze allo sfarzo di imponenti biblioteche. Ovunque e sempre la violenza involve la vita degli umani, una comune passione la muove, la passione della sopravvivenza dentro il gorgo immutabile e dinamico del tempo collettivo.
Qualche commentatore ha scritto che finalmente Yorgos Lanthimos avrebbe abbandonato ‘le plumbee atmosfere metafisiche’ delle sue ultime opere. Non sanno proprio vedere che invece questo regista crea sempre il medesimo film, come Kubrick.
Di DogtoothKynodontas  (2009), The Favourite possiede lo stile iperrealista e raffinato, asciutto e insieme grottesco; così come di The Lobster (2015) esprime la distopia insita nei sentimenti, nei legami, nel naturale, totale, disperato bisogno che gli umani sentono di vivere con gli altri, un bisogno sul quale l’autorità  getta la rete sadica dei suoi comandi. E come ne Il sacrificio del cervo sacro (2017) emerge qui l’inesorabile forza degli eventi concatenati gli uni agli altri, dentro più dentro le passioni umane, il cui andare è stabilito dall’ininterrotto divenire dei desideri, delle ambizioni, del gelo e delle follie.
Tutto questo è narrato tramite l’opulenza del grandangolo e lo sbigottimento dei primi piani, mediante lo sfarzo dei colori e la ferocia che cola dalla luce. Ma alla fine, alla fine è la giustizia. Giustizia che riscatta gli altri animali dalla viltà umana e fa di un coniglio il segno, la traccia e l’occasione di una scena conclusiva strana sino all’incomprensibilità e tuttavia splendida e trasparente per chi sa che il sogno umano -ciò che chiamiamo storia– è abitato nel suo fondo dalle immagini ancestrali degli animali. Per chiudere un film nel modo in cui The Favourite si chiude bisogna avere molto coraggio, bisogna avere genio.

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