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Lauree

In una seduta di laurea dello scorso novembre ho chiesto di mettere a verbale la seguente dichiarazione:

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«La tesi che la candidata *** presenta per il conseguimento della Laurea magistrale in Scienze filosofiche, dal titolo ***  si compone di 32 pagine; indica soltanto 6 testi in bibliografia; contiene errori di ogni genere (sintassi, lessico, grammatica) in quasi ognuna delle 32 pagine; non dà neppure una indicazione in nota o nel corpo del testo dei classici dei quali parla; presenta dei brani copiati dalla Rete (ad esempio a p. 12 dal sito di Giuseppe Argentieri [su Agostino: https://www.giuseppeargentieri.eu/tag/agostino/]; a p. 24 da un manuale online dell’Università di Siena [sul concetto di creazione: http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/testi/htm/t_char1.htm]).
Ritengo dunque che un lavoro con queste caratteristiche non possa essere giudicato adeguato al conseguimento del titolo di laurea magistrale, titolo che pertanto chiedo alla Commissione di non attribuire alla candidata.
Aggiungo che, per quanto basso sia diventato il livello dei laureati italiani, non intendo rendermi responsabile di una decisione evidentemente scorretta, quale sarebbe l’attribuire un titolo dal valore anche legale a fronte di una tesi di laurea del tutto insufficiente».
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Come siamo arrivati a un punto così basso della didattica universitaria?
Alcuni anni fa descrivevo i patetici tentativi di nascondere la realtà con ‘corsi zero e sotto(zero)’ rivolti alle matricole. Di didattica e pedagogia scrivo da quando insegnavo nei Licei, dunque da decenni. Alcuni di noi hanno indicato per tempo  – con libri, saggi, iniziative, azioni – il baratro verso il quale stiamo conducendo ciò che chiamiamo ‘conoscenza, sapere, scienza, civiltà’ (cfr. ad esempio: Educazione e antropologiaSulla «Grande Riforma» della scuola italianaPer la παιδεία).
Nel caso specifico del quale parlo ci sono evidentemente problemi nella governance (come amano dire) delle Università italiane per quanto riguarda i finanziamenti, che arrivano più copiosi se si hanno più iscritti che si laureano in corso e si hanno più iscritti che si laureano in corso se si rende tutto più facile, vale a dire se si nega uno dei significati sia antropologici sia sociali delle istituzioni educative: orientare in base alle capacità e alla tenacia.
E poi: presidenti di corsi e di commissioni di laurea che dovrebbero verificare per tempo la congruità delle tesi presentate; studenti abituati a ottenere voti alti preparando gli esami in pochi giorni; la generale pretesa di laurearsi soltanto per il fatto di essersi iscritti a un corso di studi, atteggiamento – questo – che è parte di uno dei drammi più pervasivi del presente: l’infantilizzazione del corpo collettivo. E così via e così via nel rosario delle responsabilità diffuse.
Ma non sono questi gli elementi più gravi. Il dramma è il risultato, vale a dire: titoli di laurea che perdono il loro valore; tanti studenti che si impegnano con rigore e passione e che ottengono lo stesso titolo legale di chi copia le tesi; la conferma che onestà e lavoro non servono e nella vita ci vuole altro. Tutte espressioni, quelle elencate e altre, del fallimento della funzione educativa delle istituzioni scolastiche e universitarie.
In questo dramma c’è anche una dimensione farsesca, quella di chi crede che regalando a tutti le lauree si operi a favore dei più disagiati, mentre invece si ottiene esattamente il contrario poiché si ribadiscono ciascuna e tutte le diseguaglianze di partenza. Chi arriva alla laurea senza meritarlo ma proviene da una famiglia ‘che possiede dei mezzi’ arriverà lontano; chi si laurea meritandolo ma fa parte di una famiglia che questi mezzi non li ha rimarrà fermo. E però tutti saranno ugualmente ‘laureati’. È il noto effetto inflattivo, che colpisce in modo implacabile i più deboli.
Tutto questo non è certo prerogativa della sola Università di Catania. Ma ovunque e da chiunque lo si consegua, che valore avrà il certificato di laurea magistrale rilasciato da un Ateneo dove lo si ottiene con una tesi di 32 pagine piena di errori e in parte copiata? Un valore assai scarso, quasi nullo.

[L’articolo è uscito anche sulla testata girodivite.it]

Giustizia / Vendetta

«Oὐκ ἀτρίακτος ἄτα; invincibile è Ate!»1  invincibile è la giustizia/vendetta. È lei la signora dell’intera trilogia che va sotto il nome di Orestea e lo è in particolare di questa seconda parte. Giustizia/vendetta che hanno a che fare con il cosmo, con la Terra, con l’intero e non soltanto con le effimere vicende dei mortali.
Si tratta di un principio universale, che già il frammento di Anassimandro aveva espresso con grande potenza. Il coro delle coefore, delle donne che portano libagioni sulla tomba di Agamennone, afferma che «δι᾽ αἵματ᾽ ἐκποθένθ᾽ ὑπὸ χθονὸς τροφοῦ / τίτας φόνος πέπηγεν οὐ διαρρύδαν; il sangue bevuto dalla Terra nutrice / è vendetta, è delitto, è un grumo che non si scioglie» (vv. 66-67; p. 518). Giustizia è «τὸν ἐχθρὸν ἀνταμείβεσθαι κακοῖς; ricambiare il malvagio con il suo stesso male» (v. 123; p. 522), modalità d’esistenza nella quale il fondatore del cristianesimo identifica correttamente «i pagani» (Mt, 5, 43-48).
La giustizia/vendetta è per i Greci un potente sentimento – «θυμὸς ἔγκοτον στύγος; è l’impeto del cuore – è il rancore implacabile» (v. 393; p. 542) – ed è anche un principio sacro, che gli Dèi vogliono, pensano, impongono ai mortali. «Ἄρης Ἄρει ξυμβαλεῖ, Δίκᾳ Δίκα; Ares contro Ares, Dike contro Dike» (v. 461; p. 546); conflitto e giustizia unite in cinque parole, in un verso tra i più splendidi e sintomatici della Grecità.

A imporre a Oreste la vendetta è il dio dell’equilibrio e della luce, è Apollo, Apollo Λοξίου, l’obliquo, il molteplice, l’ironico. Se non ubbidisse al dio, Oreste subirebbe la persecuzione delle Erinni. E tuttavia compiuto il riscatto della morte del padre Agamennone con la morte per sua mano della madre Clitemnestra, Oreste viene immediatamente perseguitato dalle Erinni. Non si dà ragione alcuna, infatti, per uccidere la madre, qualunque azione abbia ella compiuto. È dalla sua carne che infatti gli umani, come qualunque mammifero, vengono lentamente plasmati nei mesi in cui sono con la madre una cosa sola. Uccidere la propria madre è uno dei massimi atti contro natura che sia possibile pensare.
La sorella Elettra, il coro delle schiave troiane, l’amico Pilade, la nutrice, ricordano in modi diversi a Oreste il suo dovere di vendicare il padre tradito e assassinato. E Oreste ubbidisce. Dopo aver ubbidito ad Apollo dichiara perché lo ha fatto: «κτανεῖν τέ φημι μητέρ᾽ οὐκ ἄνευ δίκης; ho ucciso mia madre per giustizia» (v. 1027; p. 588). E tuttavia la conseguenza sono le Erinni davanti al suo cuore, le Erinni che lo fanno impazzire, le Erinni che non hanno pietà e che soltanto il tocco del Lossia, forse, potrà scacciare dal corpomente del matricida.
Davvero nel mondo degli umani «τὸν ζῶντα καίνειν τοὺς τεθνηκότας; i morti uccidono i vivi» (v. 886; p. 576), corpo si sostituisce a corpo, vita si sostituisce a vita; la morte è il signore di tutti. Suo tramite è il principio femminile che prende e dà, che costruisce dentro di sé la vita e schianta con la propria forza le vite che ha generato. Monica Centanni vede acutamente e giustamente all’opera in tutto questo uno «sguardo etologico» (p. 1061), quello che Sofocle esercita nel celebre inno dell’Antigone che celebra l’umano come forza meravigliosa e tremenda, concezione che in realtà è di Eschilo, per quanto splendidamente ripresa dal suo successore. Infatti:

πολλὰ μὲν γᾶ  τρέφει
δεινὰ καὶ  δειμάτων ἄχη,
πόντιαί τ᾽ ἀγκάλαι κνωδάλων
ἀνταίων βρύουσι:
πλάθουσι βλαστοῦσι καὶ πεδαίχμιοι
λαμπάδες πεδάοροι,
πτανά τε καὶ πεδοβά-
μονα κἀνεμοέντ᾽ ἂν
αἰγίδων φράσαι κότον.

ἀλλ᾽ ὑπέρτολμον ἀνδρὸς
φρόνημα τίς λέγοι
καὶ γυναικῶν φρεσὶν  τλαμόνων  καὶ
παντόλμους ἔρωτας
ἄταισι συννόμους βροτῶν;

Molti la terra nutre
Terribili […] funesti orrori
E i recessi del mare
brulicano […] di bestie mostruose, maligne.
E dall’alto cala ancora rovina:
I fulmini dal cielo distruggono
Gli esseri dell’aria e della terra. E potrei dire dei venti, il vortice tempestoso del loro furore.

Ma la violenza che c’è nella mente dell’uomo
Chi potrà dirla a parole?
E la brama del cuore delle donne
Temerarie […] l’audace
Passione che porta tutti a rovina?
(vv. 585-598; p. 556)

Una condizione ambigua, dinamica, cangiante, che diventa in Oreste cambio repentino di identità: da figlio vendicatore supplicato dalla madre a figlio perseguitato dalle Erinni della madre, da queste cagne immonde e potenti. In pochi versi, in un istante, «Oreste non è già più il vendicatore vittorioso del padre: è un figlio con le mani sporche di sangue della madre, perseguitato dai demoni» (Centanni, pp. 1088-1089).
I demoni che intessono e guidano le nostre passioni, non quelle di Oreste, le nostre: ogni giorno, per tutta la vita. Nessuno, davvero, «fra i mortali può passare / tutta senza affanno la vita, senza pagare il prezzo; οὔτις μερόπων ἀσινὴς  βίοτον / διὰ παντὸς  ἀπήμον᾽  ἀμείψει» (vv. 1018-1019; p. 588). Una vita priva di dolore e di inquietudine, sarebbe qualcosa di «più prezioso dell’oro / più grand[e] della grande fortuna degli Iperborei!; κρείσσονα χρυσοῦ, μεγάλης δὲ τύχης καὶ ὑπερβορέου» (vv. 373-374; p. 540).
Gli Iperborei, popolo presso il quale Apollo trascorreva gli inverni. Anche Eschilo è Λοξίου, obliquo come il dio.


Nota
1. Eschilo, Coefore (Χοηφόροι, 459 a.e.v.), verso v. 338; p. 538,  in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

Ate, il suo inno

Teatro Greco – Siracusa
Agamennone
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Musici: Diego Mingolla, Stefania Visalli
Con: Laura Marinoni (Clitennestra), Sax Nicosia (Agamennone), Linda Gennari (Cassandra), Stefano Santospago (Egisto), Spettro di Ifigenia (Carlotta Messina, Maria Chiara Signorello), Corifea (Gaia Aprea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 5 luglio 2022

La cifra stilistica è naturalmente sempre quella che lo scorso anno caratterizzò Coefore / Eumenidi, anche se la declinazione è un poco diversa, più sobria. Sobria compatibilmente con le intenzioni di Livermore, che anche in questo caso travalica non soltanto Eschilo ma proprio l’idea greca del teatro. Nel preciso senso che la presenza del regista diventa preponderante e la formula registica potrebbe essere applicata a qualunque testo di qualsiasi epoca. Una notte, insomma, in cui tutti gli spettacoli sono uguali. Il coro è formato, tra gli altri, da generali più o meno paralitici e in ogni caso vecchissimi. I gesti sono meccanici, artificiosi, esagerati. Compaiono ovunque fantasmi, una figura evidentemente cara a Livermore. In questo caso nelle fattezze di due bambine che rappresentano il fantasma della Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone e della cui morte la madre Clitemnestra appunto si vendica massacrando il marito e la nuova schiava/concubina Cassandra.
Coerente e interessante è invece l’idea di accompagnare l’intero spettacolo con la musica. Si parte da livelli alti, dai più alti, vale a dire da Bach ma si conclude con gli attori che eseguono una canzone accettabile ma che ancora una volta nulla c’entra. Se questo regista ama il musical perché non mette in scena dei musical?
Ma ancora una volta la parola di Eschilo sopravvive e vince.
Vince nel comprendere che «ἐγρηγορὸς τὸ πῆμα τῶν ὀλωλότων, si risveglia sempre il dolore dei morti» (v. 346, questo e gli altri versi vengono citati nella traduzione di Monica Centanni), che coloro che non sono più possiedono ancora la forza di legare a sé il destino dei vivi, nell’infinita serie di cause e legami che costituisce l’esistere.
Vince nel pieno splendore della Necessità, ben conscia che quanto sta accadendo è «μοῖρα μοῖραν ἐκ θεῶν, Moira contro Moira» (v. 1026), è l’inno originario di Ἄτη, «πρώταρχον ἄτην», le sue parole che -«ἐν μέρει δ᾽ ἀπέπτυσαν, cantano il canto della colpa originaria» (v. 1192).
Vince dicendo con chiarezza dall’inizio alla fine che la stirpe degli Atridi, «κεκόλληται γένος πρὸς ἄτᾳ, questa stirpe è legata con le catene di Ate» (v. 1566) e che pertanto tutto accadrà di ciò che deve accadere: infanticidio, matricidio, vendetta, giustizia. Nulla sfugge all’occhio gorgogliante di Erinni.

[Aggiungo queste poche parole stimolate dall’Agamennone di Livermore a quelle che la lettura del testo mi indusse a pensare: Distruzione a distruzione]

Scrittura e giustizia

Scrittura e giustizia. La voce degli studenti
in Dialoghi Mediterranei
Numero 55, maggio-giugno 2022
Pagine 427-435

Alla fine dello scorso anno, esattamente il 28 dicembre 2021, dopo aver letto alcune pagine non particolarmente corrette di un tesista, decisi di inviare ai miei laureati e laureandi una lettera dal titolo Scrittura e giustizia. Ricevetti numerose, ampie, differenti risposte che ora, con il loro consenso, sono state pubblicate sul numero 55 di Dialoghi Mediterranei.
La serietà esistenziale, la capacità argomentativa, la pluralità di prospettive che emergono da queste lettere degli studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania costituiscono una prova che, se è vero che numerosi giovani sembrano disinteressati alla conoscenza, immersi nelle illusioni del digitale, superficiali e refrattari verso ogni stimolo che non sia troppo banale, molti altri sono invece persone che si interrogano, che sanno osservare, pensare, criticare e criticarsi.

Nello stesso numero è stato pubblicato un saggio di Enrico Palma dal titolo La serie-tv come metafora della contemporaneità (pp. 244-250)

La colonna infame

Giovedì 7 aprile 2022 alle 16,00 nel Centro Studi di via Plebiscito 9 a Catania l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza il secondo incontro del ciclo dedicato a Manzoni contemporaneo. Nel primo avevamo parlato dei Promessi Sposi («Così va spesso il mondo…»); nel prossimo analizzeremo quello che da capitolo di Fermo e Lucia divenne poi un testo autonomo, che Manzoni volle porre come Appendice al romanzo, un testo tragico e disvelatore, la Storia della colonna infame.
Il libro comincia in questo modo:
«Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile».

Die Rache

La vendetta di un uomo tranquillo
(Tarde para la ira)
di Raúl Arévalo
Spagna, 2016
Con: Antonio de la Torre (José), Luis Callejo (Curro), Ruth Díaz (Ana)
Trailer del film

Il titolo originale non anticipa il senso e gli sviluppi della vicenda, quello italiano indica qualcosa. Ma in ogni caso nulla si perde di un racconto cinematograficamente esemplare, dove fatti, oscurità, memorie, ambiguità, si sciolgono e si svelano a poco a poco mostrando quanto determinata può essere la volontà di una persona alla quale è stata rubata la vita attraverso le vite dei suoi affetti e che esiste ormai soltanto per restituire a quelle spente vite un barlume di giustizia. E questo, come la tragedia e l’epica greca ampiamente mostrano, è possibile alla fine soltanto attraverso il sangue.
Un’accurata e insieme impulsiva preparazione conduce quindi il protagonista prima ad attendere il tempo necessario – otto anni – affinché possa conoscere i nomi e i luoghi di coloro che gli hanno fatto del male, molto male, e poi eliminarli uno a uno nonostante la loro forza, nonostante il loro implorare, nonostante persino l’amicizia nel frattempo inconsapevolmente maturata. Solo a quel punto i morti e i vivi avranno giustizia e colui che non aveva più niente da perdere avrà riacquistato il diritto alla propria solitudine, al proprio dolore, al posto che occupa nella trama inemendabile degli eventi.
«So gehört ursprünglich die Rache in den Bereich der Gerechtigkeit, sie ist ein Austausch; ‘la vendetta appartiene quindi originariamente all’ambito della giustizia, consiste in uno scambio’» (Nietzsche, Umano, troppo umano, I, af. 92), che permette di far tornare l’equilibrio dove esso è stato infranto da una decisione e da una azione miope, chiusa nei propri interessi, o anche semplicemente stupida. Esattamente queste  sono infatti le caratteristiche dell’evento del quale il protagonista si vendica: azioni miopi, profondamente sciocche, chiuse in una evidente sproporzione tra il vantaggio che si può ottenere e il danno che si infligge.
Bene fa quindi quest’uomo  a vendicarsi, a non lasciare scampo, a spegnere i superflui, i dannosi, gli stupidi. E bene fa il regista a dipanare i fatti insieme ai pensieri, a intramare eros e violenza, a rendere plausibile la metamorfosi di un uomo tranquillo in un dispositivo spietato. E a stendere su tutto questo una profonda tonalità di poesia. Come seppero fare anche i Greci.

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