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Giuliano, i Discorsi

Con gli imperatori Marco Aurelio (161-180) e Giuliano (361-363) sembra realizzarsi il progetto platonico volto a coniugare filosofia e potere politico. Le opere di entrambi sono infatti una indissolubile unione di sapienza antropologica, di esperienza politica e di tensione metafisica.
Giuliano dimostra più volte di essere un esperto in umanità, la cui φρόνησις-saggezza, consiste anche nella consapevolezza che per quanti si dedicano esclusivamente alla vita politica essa diventa un vero e proprio demone, una droga, tanto che per loro «non è possibile neppure respirare, come si dice, senza di lei»  (Al filosofo Temistio, cap. 4, 256c, p. 475) 1. Essa diventa un ἦθος, un’abitudine, che si fa δευτέρη φύσις, una seconda natura, come accade a tutte le abitudini umane (Misopogon, 23, 353a, 771). E tuttavia quando la forza dell’abitudine riguarda la politica, si tratta di un comportamento poco accorto, poco saggio, dato che governare con equità ed efficacia è un’impresa quasi impossibile a causa della natura degli umani, delle aspirazioni che intorno al potere si scatenano, del limite stesso di tutte le cose. 

Disincanto che si mostra particolarmente evidente nel decimo discorso: Simposio o Saturnali. In esso la filosofia parla ancora una volta – come era accaduto con Socrate e altre volte accadrà – contro la pretesa totalizzante del  potere; circostanza tanto più rilevante poiché questa critica dell’autorità è espressa da un potente che è anche un imperatore romano. Il netto rifiuto della monarchia ereditaria da parte di Giuliano è frutto del magistero di Platone e di Aristotele ma è anche il risultato della sua stessa esperienza politica, a partire dalle autentiche nefandezze che il principio ereditario aveva prodotto nella sua stessa famiglia, quella dei costantinidi.
Disincanto che diventa amarezza nella lucida requisitoria contro la città di Antiochia, la cui pratiche politicamente corrotte ed eticamente dissolute favorirono l’adesione alle dottrine degli «atei», cioè del cristiani, e che male sopportò la presenza in essa per alcuni mesi dell’imperatore. Tanto da indurre Giuliano a chiedere agli abitanti di «questa città popolosa, godereccia e ricca» (Misopogon, 29, 358a, 779): «Perché dunque siete così ingrati?» (ivi, 43, 370c, 799) e a rispondersi in questo modo: «Il popolo, che nella maggior parte, o meglio nella sua totalità, ha scelto l’ateismo, mi odia, perché vede che mi attengo ai riti delle cerimonie dei padri; i ricchi, invece, perché vieto loro di vendere ogni cosa a gran prezzo, e tutti, infine, a causa dei ballerini e degli spettacoli, non perché io li privi di cose del genere, ma perché me ne importa meno che delle rane nelle paludi» (ivi, 28, 357d, 779).

Ai limiti che pervadono ogni elemento e impresa umana il neoplatonico Giuliano oppone la direzione della mente rivolta vero la perfezione del «cosmo divino e bellissimo», il quale «dall’eternità esiste ingenerato, nonché eterno per il tempo a venire» (A Helios Re, per Salustio, 5, 132c, 693). Al di là della forma e del linguaggio mitologici, del tutto comprensibili e colmi di senso nel contesto della filosofia del IV secolo, la prospettiva giulianea difende la razionalità della «filosofia, àmbito in cui solo gli Elleni hanno raggiunto i traguardi più alti, ricercando con la ragione la verità, come essa è per natura, senza lasciare che noi prestassimo attenzione a miti inverosimili o a prodigi assurdi, alla pari di molti fra i barbari» (Consolazione a se stessi per la partenza dell’ottimo Salustio, 8, 252b, 435).
Filosofia che è una forma di purificazione dall’assurdo, dal pianto e dalla ferocia. Filosofia la cui natura consiste nel «conoscere se stessi e assimilarsi agli dèi; il principio è conoscere se stessi, il fine l’assimilarsi agli esseri superiori» (Contro il cinico Eraclio, 19, 225d, 531), in questo modo raggiungendo l’εὐδαιμονία, la gioia.
Nonostante il suo slancio trascendente e la vicinanza alle pratiche teurgiche, in Giuliano c’è anche la consapevolezza dell’unità psicosomatica che l’ἄνθρωπος è, della quale è segnale anche un’osservazione di carattere medico come questa: «Spesso non è la debolezza del corpo, ma l’infermità dell’anima a diventare causa di debilitazione per il corpo» (Misopogon, 17, 347c, 761).
Molti elementi, quasi tutti, di questa molteplice unità che siamo, sono interamente condivisi con ogni altro vivente, in particolare con gli altri animali. Se c’è qualcosa che ci differenzia, essa è la capacità di conoscere in modo razionale il mondo e di progredire senza posa in tale conoscenza. Esattamente questo è l’elemento divino nell’umano, proprio perché «è in virtù della conoscenza che gli dèi sono superiori a noi» (Contro i cinici ignoranti, 5, 184b, 603).

Il culto verso Helios, il Sole intelligibile, e verso la Grande Madre Cibele si spiegano all’interno di questo approccio religioso e insieme teoretico alla vita. Cibele è infatti un principio che con un linguaggio non neoplatonico ma spinoziano si può ben definire della natura generatrice, la Natura naturans; Attis è il corrispondente principio della natura generata e delle sue forme, la Natura naturata. «Ritengo che questo Gallo o Attis sia la sostanza dell’intelletto generativo e demiurgico, che genera ogni cosa fino all’ultimo livello della materia e ha in sé tutti i principi e le cause delle forme materiali» (Alla Madre degli dèi, 3, 161c, 561). Come tutti i miti dei quali parla, Giuliano interpreta in modo allegorico e simbolico la vicenda dell’autoevirazione di Attis. Un racconto che sembra truce e che invece rappresenta l’antico principio della razionalità che si oppone a ogni ὕβρις.
«E l’evirazione, poi, che cos’è? L’arresto della dispersione infinita. I fenomeni generativi, infatti, si arrestarono, trattenuti dalla provvidenza demiurgica in forme definite. […]
Quando il re Attis arresta la dispersione infinita con l’evirazione, anche a noi gli dèi ordinano di ‘tagliare’ l’infinito che è in noi e di imitare le nostre guide, elevandoci verso il delimitato, l’uniforme e, se è possibile, verso lo stesso ‘Uno’» (Alla madre degli dèi, 7, 167c, 571 e 9, 169c, 575).
In questo senso, osserva giustamente la curatrice delle opere di Giuliano, l’ascesa teurgica non è da intendere «come una semplice fuga dalla materia, ma come capacità di accogliere in sé la molteplicità materiale, superandola nella tensione unificante verso il divino» (nota 181, p. 1008).

Pur con la sua passione per i sacrifici animali, della quale comunque Giuliano tenta una giustificazione anche naturalistica; pur con il suo disagio orfico a stare dentro il proprio corpo; pur con la paradossale ma anche significativa vicinanza all’ascetismo dei «Galilei», l’imperatore filosofo conferma in ogni sua pagina l’appartenenza alla filosofia classica, alla suo piena razionalità, alla sua profonda serenità.
A testimoniarlo è anche l’augurio che formula per se stesso nella preghiera che conclude l’inno a Cibele: «una fine priva di dolore e gloriosa; βίου πέρας ἄλυπόν τε και εὐδόκιμον» (20, 180c, 595). Auspicio migliore non potrebbe darsi per degli enti la cui struttura è πέρας, limite, è l’essere per la morte.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Discorsi (pagine 191-801). Le indicazioni bibliografiche delle opere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

 

[L’immagine di apertura è del fotografo Giuseppe Lo Schiavo, che ringrazio per avermi concesso l’autorizzazione a riprodurla. Si intitola Daphne and the Ocean (2023) e fa parte di una serie che si può ammirare qui: Windowscapes]

 

Giuliano, le Lettere

L’imperatore Giuliano amava scrivere quasi quanto amava leggere. Portava con sé ovunque dei libri, in particolare Omero e Platone, anche durante le campagne militari. E al prefetto d’Egitto Ecdicio conferma che se «alcuni sono appassionati di cavalli, altri di uccelli, altri di fiere; a me, invece, è entrato dentro, fin da piccolo, un desiderio struggente di possedere dei libri» (lettera 107; Antiochia, fine luglio-agosto 362, 377d-378a, p. 141) 1.
Lettura e scrittura fanno il primato dello studio su ogni altra attività umana, tanto che – ricorda a Eumenio e a Fariano – «se qualcuno vi ha fatto credere che per gli uomini esiste qualcosa di più gradevole e utile del filosofare in tranquillità e al riparo da pubbliche incombenze, costui, ingannato, vi inganna a sua volta» (lettera 8: Gallia, fine 358-fine 359,  441b, p. 5) e raccomandando loro di dedicarsi con particolare cura allo studio di Platone e di Aristotele.

Tra i suoi scritti, le molte lettere inviate sia come privato sia prima come Cesare e poi come Augusto rappresentano una parte significativa del suo pensiero. Che infatti Giuliano si occupi di questioni personali o pubbliche, ha sempre davanti a sé la κοινοῦ τών Ἕλλήνων, la comunità degli Elleni, alla quale rivolgersi per confrontarsi, per guidarla, per delineare e vivere insieme la παιδείαν ορθην, la retta educazione tramite la quale restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo.
L’unicità dell’imperatore Giuliano consiste esattamente e anzitutto in questo, nel modo con il quale pensò e – sino a che visse – realizzò il progetto di ricostituzione e rinascita dell’Ellenismo. Un modo unico perché esplicitamente volto a utilizzare il λόγος, la parola, la persuasione, e non l’autorità, la violenza, la costrizione. Metodi questi utilizzati da alcuni imperatori prima di lui e soprattutto dai cristiani prima e dopo il suo breve regno (dal 361 al 363). Giuliano ha piena consapevolezza sia dell’obiettivo e sia del metodo filosofico e non violento con il quale raggiungerlo: «Io non voglio né che i Galilei vengano messi a morte, né che siano ingiustamente colpiti, né che subiscano qualche altro male» (lettera 83 ad Artabio; Antiochia, luglio-dicembre 362, 376e, p. 85), anche perché ritiene che l’ateismo dei cristiani negatori degli dèi e il fanatismo che caratterizza le loro azioni siano espressioni patologiche di menti inquiete e senza misura, costituiscano più una malattia che altro. Essa andrebbe dunque curata e non punita.
Tra questi comportamenti c’è la loro tendenza (documentata da innumerevoli fonti antiche e dagli studi moderni) a «impadronirsi delle eredità degli altri e accaparrarsi di ogni cosa» (lettera 114 ai cittadini di Bostra; Antochia, calende di agosto 362,  437a, p. 153). E c’è soprattuto il bisogno – anch’esso ampiamente documentato – di morire, di farsi uccidere dalle autorità imperiali in modo da ottenere subito la palma del martirio e il conseguente paradiso: «Molti degli atei sono ossessionati e persuasi a morire, perché – essi pensano – voleranno in cielo, una volta staccati violentemente dalla vita» (lettera 89b a Teodoro, sommo sacerdote; Antiochia, marzo 363,  288 a-b, p. 99).
Nonostante tali e altri inquietanti comportamenti, Giuliano non esercita nessuna violenza contro i cristiani, i quali appunto 

per ignoranza più che per convinzione si sono sviati. È con la ragione che bisogna convincere e istruire gli uomini, non con le percosse, gli insulti e i supplizi corporali. Perciò, ancora e ripetutamente invito coloro che aspirano a una devozione autentica a non commettere ingiustizia contro le moltitudini dei Galilei, a non attaccarle, a non recare loro offesa. Bisogna avere compassione piuttosto che odio per coloro che sono così sfortunati proprio in quello che c’è di più importante (ancora ai cittadini di Bostra, 438b-c, p. 155). 

Sintetizzando con chiarezza le linee della sua politica verso i cristiani, l’imperatore scrive che «mi sono comportato verso tutti i Galilei con tanta mitezza e umanità che nessuno di loro in nessun luogo ha mai subito violenza, è stato trascinato al tempio o minacciato perché facesse, contro la sua volontà, cose del genere», mentre i Galilei esercitano continuamente violenza anche reciproca, contro i loro correligionari definiti ‘eretici’: «Invece i membri della Chiesa ariana, resi arroganti dalla loro ricchezza, hanno aggredito i seguaci di Valentino, e hanno osato commettere a Edessa infamie quali mai dovrebbero verificarsi in una città ben ordinata» (lettera 115 agli Edesseni [l’attuale Odessa, in Crimea]; Antiochia, fine ottobre-metà novembre 362; 428c-d, pp. 155-156). Valentino e i suoi seguaci furono una delle più importanti e influenti comunità gnostiche, perseguitate appunto dai cattolici e dagli altri cristiani.

Il veleno dell’intolleranza cristiana contaminò comunque persino Giuliano inducendolo a proibire non i testi dei cristiani o degli ebrei ma quello di altri Elleni, di alcune filosofie da lui ritenute inaccettabili: «Non sia ammessa la dottrina di Epicuro, né quella di Pirrone; già infatti – e hanno fatto bene! – gli dèi hanno anche distrutto le loro opere, cosicché la maggior parte di esse è scomparsa» (ancora a Teodoro, 301c, p. 119).
Al di là di questa debolezza, di tale cedimento allo spirito violento contro le filosofie introdotto dalle lotte cristiane per l’ortodossia, Giuliano mostra la serenità di chi sente vicino a sé il divino, mostra il disincanto di chi ha ben compreso la natura inemendabile della vita, il suo limite. A coloro tra gli Elleni che provano angoscia per la distruzione dei templi greci operata dai Galilei, l’imperatore ricorda che quanto 

è stato realizzato da un uomo saggio e buono può essere distrutto da uno malvagio e ignorante; invece, le immagini viventi, stabilite dagli dèi, della loro sostanza invisibile, cioè gli dèi che si muovono in circolo per il cielo, rimangono eterne per sempre. Nessuno, dunque, perda la fede negli dèi, vedendo e ascoltando che alcuni hanno fatto violenza alle loro statue e ai loro templi (ancora a Teodoro, 295a, pp. 109-110).

Il disincanto sulla condizione umana è ben mostrato da due brani di una lettera ritenuta spuria ma che in ogni caso esprime efficacemente lo spirito dell’imperatore. Il quale ricorda a Imerio, prefetto d’Egitto, che al dolore insistito e inconsolabile di Dario per la morte della sua amata compagna, Democrito promise «che se avesse fatto scrivere sulla tomba della moglie i nomi di tre persone mai sfiorate dal dolore, subito ella sarebbe ritornata in vita. […] Dario rimase a lungo in imbarazzo, non potendo trovare alcuno cui non fosse capitato anche di soffrire qualche dolore; allora Democrito, sorridendo, secondo la sua abitudine, disse…» (lettera 201, 413b-c, p. 185).
La lettera si conclude affermando che «sarebbe una vergogna per la ragione se non avesse la stessa forza del tempo» (ibidem), sarebbe una vergogna che quanto il tempo in ogni caso consegue, l’attenuazione del dolore, non si cercasse di raggiungerlo già nel presente con la forza del pensare.

Nota
1. Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, a cura di Maria Carmen De Vita, Bompiani 2022, sezione Le Lettere (pagine 1-189). Le indicazioni bibliografiche delle lettere che cito sono fornite direttamente nel testo, tra parentesi.

Giuliano

Sine ira et studio Maria Carmen De Vita cerca di presentare una figura poliedrica, sfuggente, molteplice e complessa come l’imperatore Giuliano, che governò Roma dal dicembre del 361 al giugno del 363. Diciotto mesi soltanto, che però sono rimasti nella storia politica e in quella della filosofia assai più di quelli di tanti altri nomi della vicenda imperiale latina. Posto esattamente a metà tra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, Giuliano costituisce infatti per molti versi un enigma della storia tardoantica.
Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura e il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano.

L’ampio saggio introduttivo alle sue opere – una vera e propria monografia di 300 pagine – delinea in modo articolato un’azione prima di tutto politica e poi teoretica. Nonostante «la sconcertante varietà e contraddittorietà di stimoli forniti dalla sua persona politica, dalle sue scelte, dalla sua filosofia»1, «i diversi aspetti dell’azione giulianea si rivelano strettamente connessi» (p. LII). Essi vanno sempre collocati sullo sfondo e dentro le complesse dinamiche comunicativo/retoriche e interreligiose che caratterizzano il mondo tardoantico. Giuliano fu infatti anche un formidabile retore, educato sin da ragazzo alle più raffinate tecniche comunicative che la cultura greca sviluppava da secoli. E fin da ragazzo fu anche educato alle arti militari tanto che, prima come Cesare delle Gallie e poi come sovrano di tutto l’impero, Giuliano non venne mai sconfitto in battaglia. La lancia che nel 363 gli tolse la vita sembra che fosse stata scagliata da mano romana, forse da un soldato cristiano che – come tanti altri suoi correligionari – vedeva nell’imperatore il fantasma di un ritorno del politeismo.
La stessa mano cristiana, stavolta di un altro imperatore (Valentiniano III) e dei suoi collaboratori,  decretò nel 448 il rogo del libro che Giuliano aveva scritto Contra Galilaeos, vale a dire conto i cristiani. Libro che – come molti altri testi pagani distrutti dai cristiani – ci rimane in forma di frammenti citati in questo caso dal vescovo di Alessandria Cirillo allo scopo di confutare i contenuti di quel testo. Ed è anche a questo rogo del Contra Galilaeos – e di migliaia di altri documenti culturali, di opere, di capolavori del pensiero e della letteratura antica – che bisogna pensare quando si rimprovera Giuliano di aver voluto impedire ai professori cristiani di insegnare i miti e la filosofia pagani nelle scuole, senza in nulla toccare non soltanto le loro vite ma neppure la loro professione, invitandoli semplicemente a insegnare le Scritture cristiane. 

La realtà dei fatti è che il regno di Giuliano e la sua persona furono caratterizzati da un atteggiamento di profonda tolleranza religiosa e persino di non-violenza, per ragioni anche culturali che affondano nelle posizioni filosofiche dell’imperatore. Nonostante le continue calunnie di Gregorio Nazianzeno (personaggio davvero ossessionato da Giuliano) e di altri cristiani, è infatti «certo che Giuliano non rovesciò l’editto di Costantino, non proclamò il cristianesimo religio illecita, né ricorse a mezzi drastici per vietare ai credenti la celebrazione dei loro riti» (LXXXIV). In generale, e questo è uno dei risultati più importanti delle indagini di De Vita, «l’impegno a favore dell’Ellenismo non sfociò mai, comunque, in una vera e propria persecuzione anticristiana; appena divenuto imperatore, Giuliano promulgò un’amnistia, concedendo il ritorno nelle loro sedi ai vescovi che erano stati precedentemente esiliati; nei mesi successivi mirò sostanzialmente all’abolizione dei privilegi concessi al clero e alla Chiesa da Costantino e Costanzo» (XXX). E questo perché quella incarnata da Giuliano fu «una filosofia-religione che aveva nel risanamento etico, nella fiducia nel logos e nella non-violenza (perfino contro gli avversari Galilei) i suoi cardini teorici» (CCLXIV).
Nonostante l’ambiente cristiano nel quale venne educato, Giuliano si immerse nella παιδεία ellenica, da lui vissuta come una integrale esperienza di saggezza/φρόνησις e di libertà/ελευθερία sia individuale sia collettiva. Il suo amore per i libri, per la conoscenza, per la lettura fu profondo e contribuì a farne un autentico filosofo, oltre che un politico e un militare. La filosofia di Giuliano è una complessa articolazione delle varie correnti del neoplatonismo, volta soprattutto a mantenere la natura e la struttura razionali del pensiero classico, evitando di dare troppo spazio alle correnti e alle pratiche teurgiche di Giamblico e di altri neoplatonici, nonostante la grande ammirazione da Giuliano nutrita verso il filosofo di Calcide. Agli amici Eumenio e Fariano, ad esempio, raccomanda che «tutti gli sforzi siano per la conoscenza delle dottrine di Aristotele e di Platone» (sezione Lettere scritte in Gallia, lettera 8, 441c, p. 5)
La ricca teologia solare di Giuliano è anche un tentativo di mantenere le differenze interne al divino, tipiche della religione greca, e insieme di coniugarle con le tendenze verso un forte principio unitario che caratterizzano non soltanto il monoteismo cristiano ma anche il pensiero plotinano dell’Uno. Giuliano trasforma «di fatto il pantheon greco-romano in una catena di divinità eliache, un sistema gerarchico di divinità subordinate all’entità suprema, che anticipa gli sviluppi della speculazione metafisico-teologica dei neoplatonici del V secolo» (CCXXI). Questa filosofia aveva anche lo scopo di rispondere alle esigenze religiose profondamente sentite dalla società del IV secolo, preservando comunque i cittadini romani dall’irrazionalismo e quindi anche «dalle tenebre dell’ignoranza galilea» (CCXXVI).

Il lavoro culturale contro la teologia cristiana deve molto agli scritti di Celso e di Porfirio ma possiede elementi di originalità che affondano appunto nel primato del culto solare e nel complesso significato che per Giuliano caratterizza il ‘paganesimo’. Questo concetto è utilizzato dall’imperatore 

per esprimere una pluralità di nozioni diverse, fra loro collegate: una realtà storico-geografica (la Grecia e soprattutto l’Atene dei tempi di Temistocle e Pericle, di Socrate e di Platone); un’etnia e una cultura considerate superiori a quelle degli altri popoli; infine, alcune qualità intellettuali e morali d’eccezione, che consentono persino a un Celta come Salustio o a un Tracio come Giuliano di definirsi Elleni nei costumi e nell’indole, e rendono i Romani, a distanza di tanti secoli, gli eredi più degni del patrimonio ellenico (L).

Giuliano coniuga dunque le tendenze mistiche dell’ultimo neoplatonismo con un solido realismo politico. Il suo obiettivo primario, che è insieme filosofico e sociale, consiste nella salvaguardia dell’identità greca del Mediterraneo e dell’Impero e nel mantenimento dell’unità degli Elleni, ai quali cercò di restituire lo «spazio culturale e linguistico usurpato dai nuovi teologi cristiani» (CCCVIII).
L’azione dell’imperatore Giuliano fu permeata di profonde convinzioni cosmologiche e teologiche, sempre vissute però in una «scelta di realismo» (CCXCII) che cerca di salvaguardare l’unità del mondo greco-romano e di ampliarne i confini. «Lungi dall’essere in fuga dalla sua realtà, l’Apostata appare profondamente immerso in essa» (CCXCVII). L’unità di teoresi e di prassi è in lui ancora un’eredità della Grecia.

Nota
1. Maria Carmen De Vita, Flavio Giuliano Claudio: l’autore, l’opera, saggio introduttivo a: Giuliano Imperatore, Lettere e Discorsi, Bompiani 2022, p. CCLXV. I numeri di pagina delle successive citazioni compaiono tra parentesi nel testo.

Sul politeismo

Mai avvennero e sempre sono. Sul politeismo 
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 3 – 2020
Pagine 69-90

Indice
-Unità e molteplicità
-La religiosità greco romana
-Cristianesimo e filosofia
-Persecuzioni
-Giuliano: restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo
-Gnosi e iniziazione
-Il mito
-Il sacro

Abstract
The aim of this paper is to analyze the transition from mediterranean polytheisms to christian monotheism from an historical and, above all, theoretical prospective. The life and work of Emperor Julian (360–363) constitute a fundamental junction to understand the richness of what has been lost and the consequences of the prevalence of an exclusive and anthropocentric conception of the sacred, which has always been enemy of philosophy. The analysis pays particular attention to the issue of persecutions that paganism suffered by the winner christians. The title refers to a passage by Salustio, Julian’s counselor and friend.

Come forse si evince dall’indice, questo è il saggio sinora più importante da me dedicato in modo sistematico a uno degli ambiti di ricerca che sento più vicini a ciò che sono e a ciò che desidero capire e sapere: «la vitalità delle filosofie e delle religioni pagane». Per queste filosofie il fine e la sostanza di ogni mortale consistono nel rinascere continuamente dalle tante morti che ci avvolgono nel nostro dolore, rinascere da noi stessi e non soltanto dalla madre mortale che ci ha dato alla luce. E, come Dioniso, essere Lúsios, liberati.
Nei politeismi non ha senso contrapporre naturale e soprannaturale poiché la molteplicità degli dèi si coniuga alla unità monistica del cosmo, nella quale convergono identità e differenza, singolarità e pluralità, maschio e femmina, vita e morte, senso e significato, somatico e psichico.
La Gnosi cercata e vissuta nell’intero arco del vivere e del pensare dei Greci, da Anassimandro a Proclo, è un percorso che conduce al sapere tramite il vedere ciò che a un primo sguardo rimane precluso. Filosofia è anche l’oltrepassamento dell’oscurità in un percorso iniziatico della mente dentro l’essere, la verità, il tempo. La grandezza del paganesimo sta nel sapere e non nello sperare. Anche per questo una rappresentazione adeguata del divino pagano sono i κοῦροι, il loro enigmatico sorriso.
Salustio, amico e consigliere dell’imperatore Giuliano, così riassunse il significato e la potenza del politeismo: «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ ἀεί», «queste cose mai avvennero e sempre sono» (Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, Sugli dèi e il mondo, 4, 8, 26).

Sugli dèi e il mondo

La vicenda dell’imperatore Giuliano e della sua corte sintetizza un intero mondo al suo tramonto. In quei pochi anni, dal 360 al 363, la civiltà greca tentò l’ultima impossibile impresa, quella di sopravvivere a una nuova fede sostenuta dalle masse e da una parte della classe dirigente: Ambrogio e Agostino provenivano dagli stessi ambienti e perfino dalle stesse famiglie di Simmaco e di Salustio ma decisero di aderire alla dottrina e al gruppo vincenti. Salustio (Saturninio Secondo Saluzio) fu praefectus praetorio Orientis, maestro e consigliere di Giuliano e suo amico fidato. Per Salustio e per Giuliano filosofia non è semplicemente l’aderire a un’idea o la capacità di pronunciare discorsi efficaci ma consiste in un modo di essere che informa di sé la persona, è una maniera di vivere.
Il divino è perfezione immutabile e felice. I Dodici dèi del pantheon ellenico che Salustio enumera -«Gli dèi che fanno il mondo sono Zeus, Poseidone e Efesto; lo animano Demetra, Era e Artemis; Apollo, Afrodite e Hermes lo accordano; mentre Hestia, Atena e Ares stanno a guardia» (Sugli dèi e il mondo, [Perì Theon] a cura di R. Di Giuseppe, Adelphi 2000, § 6, 3, 1-6)- diventano i paradigmi di un mondo imperituro e ingenerato. Non è quindi pensabile «che il divino reagisca agli affari umani: né positivamente, né negativamente […] Siamo piuttosto noi -essendo buoni- a entrare, per somiglianza, in unione con gli dèi e a distaccarcene per dissimiglianza, divenendo cattivi» (14, 1, 9-18). Culti, sacrifici e preghiere hanno quindi senso soltanto dal punto di vista umano ed è agli uomini che servono. Gli dèi non accettano né rifiutano, non benedicono né condannano, «sicché, dire che è il dio a respingere i cattivi equivale a sostenere che il sole si rifiuti a chi è privo della vista» (14, 2, 6-9). Viene in tal modo superata anche l’obiezione epicurea: gli dèi agiscono nel mondo ma lo fanno senza fatica alcuna, per il semplice fatto di esistere, come il sole che nulla perde della propria potenza e perfezione illuminando lo spazio, anzi la esplica.

Se tale è l’essenza del divino, enti ed eventi sono guidati dal lògos. Il male -come poi ripeterà il cristiano Agostino- è solo  apousìa de agathou, assenza del bene (12, 1, 5). Nel mondo nulla esiste che sia cattivo per sua natura, ogni cosa si tiene con ogni altra, tutto è scaturito dalla medesima sorgente. A questa unità metafisica corrisponde quella gnoseologica di soggetto che conosce, oggetto conosciuto e conoscenza in atto. Il mondo si nasconde e si svela nella forma di un’allegoria sensibile dell’eterno, un’immagine mobile di ciò che non passa, forma che solo i migliori sono in grado di cogliere, dopo lunga fatica. La maggioranza è impotente ad apprendere e sarebbe grave errore «la pretesa di insegnare a tutti la verità sugli dèi» (3, 4, 1-2). Le condizioni per capire e per vivere il divino sono, infatti, numerose e difficili: bisogna essere stati ben educati fin da bambini e non essere cresciuti in mezzo a opinioni errate e superficiali; l’educazione, tuttavia, non basta se «per natura» non si è nobili e assennati (1, 1, 4) e se non si nutre familiarità con le adeguate conoscenze sugli dèi e sugli umani.
Gli “affari umani” -il loro valore, l’esito- dipenderanno quindi dalla conoscenza: da Omero a Plotino l’intellettualismo etico rimane una cifra del mondo greco. Saggezza è soprattutto comprendere la perfezione di ogni ente e dell’intero poiché tutto è derivato da qualcosa di perfetto e cioè di delimitato nei confini armoniosi della Misura. Affermando che «oude apeiròn ti en to kosmo» (20, 3, 3-4) -che nulla al mondo si dà di indefinito- Salustio raccoglie il senso dell’intera cultura ellenica. Essa offriva agli esseri umani non la hybris di paradisi oltremondani ma la felicità della comprensione del qui e dell’ora nell’unità del tempo. È il presente il tempo dei Greci. Tutta la loro religione, arte, filosofia -il loro mondo unitario- è rivolto a gustare l’attimo che coincide con l’eterno. È per questa ragione che la virtù è per i Greci fine a se stessa, poiché il tempo è l’adesso; lo spazio della gioia o del dolore è il qui. La materia è trasformazione degli elementi, non è creazione o distruzione assolute.

Cosmologia, etica e metafisica si unificano nella filosofia di Salustio, sintesi del pensiero di un intero mondo: «Tàuta dè eghèneto mèn oudépote, esti dè aei», queste cose mai avvennero e sempre sono, «l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione» (4, 8, 26-29). Su tale fondamento teoretico si eleva la conquista umana della serenità. Per i pagani la felicità non consiste nella speranza di un paradiso ma nel possesso di sé, metafora del dominio del mondo:

Ma anche se nulla di tutto ciò fosse vero: senza contare il piacere e la gloria, che da quella discendono assieme a una vita priva di crucci e senza servitù (adèspotos Bìos), la virtù stessa basterebbe da sola a render felici quanti scelsero di vivere secondo virtù, e ne furono capaci. (21, 2)

I pagani sconfitti sono uomini ancora vincenti.

Alla madre degli dèi

ALLA MADRE DEGLI DEI e altri discorsi
di Giuliano Imperatore
Introduzione di Jacques Fontaine
Testo critico a cura di Carlo Prato

Traduzione e commento di Arnaldo Marcone
Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore
Milano 1997
Pagine CX-351

Posto esattamente a metà fra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, l’imperatore Giuliano rimane per molti versi un enigma della storia tardoantica. Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura, la fede, il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano come Plotino fu l’ultimo filosofo greco.
Costretto al potere dalle circostanze, avrebbe preferito vivere sempre nella sua Atene interiore ma vide nell’ascesa alla carica imperiale un segno della Moira che gli imponeva una missione titanica: salvare la fede negli dèi mentre trionfava la fede nel Galileo. Cercò, quindi, Giuliano di opporsi al cristianesimo prendendo da esso alcune delle sue armi. Tentò, infatti, di trasformare la religione dei padri in una sorta di ellenismo ecclesiastico « “entrando nel platonismo” così come si dice di un religioso cristiano che “entra negli ordini”» (pag. XVIII). L’imperatore innesta sul tronco della metafisica greca gli apporti magici, teurgici, eclettici della tarda paganità, sperimentando -alla fine- «una sorta di superamento dialettico del paganesimo antico e dello stesso cristianesimo, riassorbendoli in una teosofia solare, che si fonda sulle speculazioni dell’ultimo neoplatonismo» (LV). Giuliano ritiene, infatti, «che le teorie dello stesso Aristotele siano incomplete, se non si integrano con quelle di Platone e, ancora di più, con gli oracoli resi dagli dei» (Alla Madre degli dei, 162 c-d, 4, 36-38, pag. 55).

Del cristianesimo assume l’organizzazione ecclesiastica e gli intenti pastorali e propagandistici, cercando di creare una vera e propria chiesa pagana. Dal cristianesimo, dal neoplatonismo e dalla gnosi assorbe anche il disprezzo per la materia e per le masse dedite solo ai piaceri, in particolare a quelli sessuali. La salvezza di un uomo consiste per Giuliano nel riconoscere dentro di sé la scintilla del divino che è la luce della conoscenza.

I testi che compongono questa raccolta sono diversi fra di loro. La Lettera a Temistio trasmette tutta la preoccupazione nutrita da Giuliano di non essere all’altezza del compito che gli dèi hanno voluto affidargli; Alla Madre degli dei è il manifesto dell’ellenismo teosofico del suo autore; A Helios re costituisce una sintesi molto ricca della speculazione neoplatonica del IV secolo; nel Misopogon, infine, Giuliano mostra le ragioni profonde, personali e passionali, del suo paganesimo attraverso una originale demolizione di se stesso che si risolve in dura invettiva contro Antiochia, la città da lui beneficata ma ormai in preda all’empietà dei cristiani e contemporaneamente vittima della sua antica immoralità. In tutti questi scritti risulta però comune il vivo desiderio di Giuliano d’esser considerato filosofo. Egli sa che il beneficio che potrà dare agli umani non dipende tanto dalla carica politica che ricopre quanto dal pensiero che esprime. Infatti: «chi fu salvato grazie alle vittorie di Alessandro? (…) Al contrario, quanti oggi si salvano grazie alla filosofia, si salvano attraverso Socrate» (Lettera a Temistio, 264 d, 10, 41-46, pag. 35) E, come Socrate, Giuliano morì da «eroe neoplatonico, proibendo che si piangesse dal momento che era sul punto di salire al cielo e di confondersi con il fuoco delle stelle» (Ammiano, XXV 3, 21; pag. 283). Il suo nome fra le stelle, in qualche modo, è rimasto come segno di un tentativo nobile e impossibile, mentre i nomi di altri imperatori pagani e cristiani non sono -come il suo- altrettanto liberi dalla ferocia e dal fanatismo.

«Non mediante una sola strada…»

Il secolo della vittoria cristiana è un tempo di incertezza, paure, recessione economica. Con l’Editto di Milano (313) Costantino non solo trasforma il cristianesimo in uno dei culti ammessi ma stabilisce anche l’entità dei finanziamenti in suo favore. Nel 356 Costanzo II fa chiudere i templi pagani e ne sequestra i beni. Nel 380 Teodosio dichiara il cristianesimo religione di Stato e nel 391, infine, proibisce ogni culto pagano. Nel mezzo, l’ultima fioritura del mondo antico si esprime con l’imperatore Giuliano. Il suo tentativo di recuperare e far rivivere la grande tradizione del paganesimo più mistico e insieme più filosofico si scontra con un mondo morale che oscilla fra edonismo e superstizione.

Il vescovo cristiano Ambrogio contrasta in tutti i modi e con successo i tentativi del prefetto Simmaco di salvare l’Ara della Vittoria (384). Simmaco si appella alla tolleranza e alla pluralità di credenze della tradizione pagana: «suus enim cuique mos, suus ritus est…uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum» (Relatio III, 8-10); Ambrogio respinge tale invito. Un altro vescovo cristiano -Teofilo- si pone alla testa di chi vuol bruciare la Biblioteca di Alessandria (392), le Olimpiadi vengono chiuse (393) e i Misteri eleusini soppressi (396). Poco tempo dopo (415) e ancora ad Alessandria i cristiani aizzati dal vescovo Cirillo massacrano Ipazia nel modo raccontato da Damascio: «una massa enorme di uomini brutali, veramente malvagi […]..] uccise la filosofa […] e mentre ancora respirava appena, le cavarono gli occhi».

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