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Epicuro / La materia

Epicuro
Lettere sulla felicità, sul cielo e sulla fisica
Prefazione di Francesco Adorno
Introduzione, traduzione e note di Nicoletta Russello
Rizzoli, 2021
Pagine 197

Lettera a Erodoto (sulla fisica): §§ 35-83
Lettera a Pitocle (sull’astronomia/cielo): §§ 84-116
Lettera a Meneceo (sull’etica/felicità): §§ 122-135

La materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo. E dunque l’ambito che studia la materia – la Fisica – è il sapere fondamentale, dal quale gli altri ricevono chiarimento e senso. Anche per questo delle tre lettere nelle quali Epicuro (341-270) riassunse il proprio pensare, il testo chiave è la Lettera a Erodoto, nella quale il filosofo fornisce anche alcune indicazioni di metodo che sono preziose per affrontare qualsiasi tema.

La prima indicazione va la di là della contrapposizione tra induzione e deduzione, in quanto «si dedurrà una puntuale conoscenza dei dettagli, se lo schema generale della teoria è stato ben compreso e fatto proprio dalla memoria» (§ 36, p. 69), se dunque ogni osservazione fisica è resa sensata e feconda da una prospettiva metafisica generale che non si limiti a osservare ma che osservi comprendendo, cercando di articolare il più ampio quadro epistemologico e materico nel quale qualunque osservazione empirica prende avvio, accade, perviene a dei risultati di natura generale.
L’osservazione metafisico-fisica del mondo ci dà le informazioni essenziali su di esso, prima delle quali è la sua infinità nello spazio e nel tempo: «Non c’è dubbio che il tutto è infinito [το πάν άπειρον εστί]» (§ 41; p. 73).
L’intero si compone di mondi infiniti che mai hanno avuto nascita e mai avranno fine poiché «nulla ha origine da ciò che non è […] E se ciò che perisce si annientasse in ciò che non è, tutto sarebbe ormai distrutto, perché ciò in cui si è dissolto sarebbe non esistente» (§§ 38-39, p. 71).
La materia, il tutto – τὸ πᾶν – si compone di corpi/enti e di spazi locali nei quali tali corpi si muovono: σῶματα καὶ κενόν (§ 39; p. 73).
Il risultato è che termini come ‘vuoto’ e ‘nulla’ sono delle semplici parole di confine, le quali indicano la pura astrazione negativa del concetto rispetto alla pienezza eternovunque che il mondo è.
Esigenza logica e ontologica è dunque che nella divisibilità dei corpi non si possa arrivare alla loro dissoluzione nel niente e per questo è necessario postulare un confine ultimo della differenza che sono gli ἄτομα, le componenti prime e indivisibili della materia. Gli aggregati di atomi si compongono e si dissolvono ma le loro parti costitutive prime e indivisibili rimangono eterne. Le tre caratteristiche intrinseche alla struttura atomica sono σχήματος, la forma; βάρους, il peso assoluto, non relativo ad altri corpi, vale a dire la massa; μεγέθους, la grandezza.
Il corpomente umano è composto anch’esso di tali elementi. La ψυχή è l’energia della materia diffusa in tutto l’organismo e capace di vivere sino a che l’organismo rimane unitario e composto. Quando si dissolve, con esso si separa ogni altra struttura di identità del corpomente, tornando σῶμα e ψυχή al tutto indistinto dal quale si formeranno altri aggregati, «non è infatti possibile pensare che l’anima sia senziente  fuori da questo complesso di anima e corpo» (§ 66, p. 97). 

L’impersonalità della materia – sostenuta contro il Timeo e gli Stoici – costituisce uno degli elementi centrali di continuità tra la fisica e ciò che chiamiamo etica. La materia e gli dèi, che sono la stessa cosa, sono infatti del tutto impersonali, privi di passioni, impossibilitati ad agire per favorire o per danneggiare i loro composti: «In una natura incorruttibile e beata non può esistere nulla che possa provocare conflitto o turbamento; μη είναι εν άφθάρτω και μακαριά φύσει των διάκριση/ ύποβαλλόντων ή τάραχον μηθέ» (§ 78, p. 107). Proprio questa indifferenza è parte fondamentale dell’essere ‘immortale e beato’ αφθαρτον και μακάριον, che è la vera natura del divino (§ 123; p. 143).
La consapevolezza che tale è la struttura del mondo ci libera dalla paure più grandi, da quei terrori che avvelenano l’esistenza, come il terrore della volontà divina e della morte. Anche lo studio dei cieli, l’astronomia, serve a conseguire tale e tanta serenità. Infatti «nella conoscenza dei fenomeni celesti, connessa ad altre dottrine o fine a se stessa, non vi [è] altro scopo che il conseguimento di imperturbabilità [άταραξίαν] e solide convinzioni, proprio come nelle altre ricerche» (§ 85; p.113).
La serenità è uno dei frutti di tutto questo. Una serenità che conduce a gustare quanto la vita offre di bello, a godere dei piaceri ma – condizione fondamentale – senza essere subordinati ai desideri. La felicità umana coincide piuttosto anche con la libertà dai desideri, oltre che con la libertà dai timori. Epicuro afferma anzi che «l’indipendenza dai desideri sia il bene più grande; Και την αύτάρκειαν δε αγαθόν μέγα νομίζομεν» (§ 130; p. 149). Evidentemente errate, per non dire insensate, sono dunque le interpretazioni dell’etica epicurea come un atteggiamento di abbandono a ogni e qualsiasi forma del piacere, quando invece è la φρόνησις – la saggezza, la prudenza, la misura – a caratterizzarla, è il «non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima; αλλά το μήτε άλγεΐν κατά σώμα μήτε ταράττεσθαι κατά ψυχή» (§ 131; p. 151).

La felicità della persona/filosofo è pari alla beatitudine degli dèi, è pari alla forza della materia stessa. Sarà dunque possibile vivere «come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali; ζήσεις δε ως θεός εν άνθρώποις. ούθέν γαρ ἕοικε θνητψ ζώω ζων άνθρωπος εν άθανάτοις άγαθοΐς (§ 135; p. 155).
Così si chiude la lettera di argomento etico a Meneceo, fondata – come abbiamo visto – su quelle dedicate alla fisica e all’astronomia. Poiché la materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo.

[Esattamente 424 anni fa, il 17 febbraio del 1600, veniva arso vivo dall’Inquisizione cattolica un altro filosofo che aveva posto al centro dell’ontologia e dell’etica la materia cosmica, Giordano Bruno. In tempi nei quali le inquisizioni politicamente corrette stanno drammaticamente restringendo le libertà di pensiero e di espressione, ricordo i due Dialoghi (entrambi del 1584) nei quali la riflessione bruniana coniuga in modo come sempre complesso e splendido la questione della materia e la necessità della libera parola: De l’infinito, universo e mondi  ;  De la causa, principio e uno ]

Arte e scienza barocche

Arte e scienza barocche
in Vita pensata
n. 28, aprile 2023
pagine 93-96


Indice

Arte, scienza, libertà
Giordano Bruno
Bruno a teatro
Caravaggio al cinema

Nella barocca e mistica gioia della conoscenza abita la luce che la filosofia offre a chi la coltiva. Luce che invade chi la ama e che produce inevitabilmente odio in chi non ne comprende natura, fondamenti, scopi. Figlio della filosofia e della sua libertà, Giordano Bruno così rispose ai giudici del Tribunale dell’Inquisizione cattolica che l’8 febbraio 1600 lo condannarono a essere bruciato vivo: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam; ‘Avete forse più paura voi a pronunciare contro di me questa sentenza che io a riceverla’».
La luce di Caravaggio viene da un carattere inquieto, votato allo svelamento e al possesso totale della vita; viene dalla dismisura di un uomo violento, permaloso, passionale, facile al pugnale; viene dalla forma, cercata negli anfratti più scuri dell’essere, quelli in cui si conserva l’eco della sapienza primordiale, del non dicibile ma raffigurabile; viene dall’ombra, perché anche quest’ombra è la filosofia.

L’animale umano

Etologia umana e filosofia 
in Dialoghi Mediterranei
n. 58, novembre-dicembre 2022
pagine 34-38

Indice
-Etologia e antropologia
-Antropologia e pedagogia
-La guerra
-L’invito delfico

Se Giordano Bruno vide la terra come un granello di polvere nel cosmo infinito, se Darwin scoprì la dipendenza della specie umana dagli altri primati e dall’intero mondo biologico del quale è parte, Konrad Lorenz da parte sua permette di comprendere meglio la struttura culturale dell’animale umano confrontandola con le modalità di vita e le organizzazioni degli altri animali. Le analisi di Lorenz e di Iräneus Eibl-Eibesfeldt sono feconde per la comprensione di un comportamento quale l’aggressività intraspecifica, a partire dalla presenza nella nostra specie sia di elementi innati sia di atteggiamenti acquisiti.
Anche uno dei più importanti antropologi libertari, Pierre Clastres, conferma la presenza e la pervasività della guerra in tutte le società conosciute. Contro Lévi-Strauss, che fu suo maestro, Clastres sostiene che la guerra non sarebbe il risultato di uno scambio fallito; non l’esito dunque di una pratica commerciale che nel mondo primitivo non esiste, ma sarebbe la struttura e la condizione di base di quelle società.
I pericoli insiti in tutto ciò che riguarda la guerra, il territorio e il rango  nelle società contemporanee sono dati anche dal fatto che nel corso della filogenesi non vi è stata alcuna pressione selettiva contro la guerra, la quale solo a partire dal Novecento ha assunto la dimensione di un male definitivo e irreversibile; contro l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, data la scarsità della popolazione fino all’esplosione demografica contemporanea; contro il potere delle immagini televisive e di Internet, fenomeni evidentemente nuovi e il cui impatto è ancora difficile da valutare in termini evolutivi, anche se è possibile coglierne fin d’ora i rischi di omologazione politico-culturale e di istigazione imitativa.

Tragedia

L’ombra di Caravaggio
di Michele Placido
Italia, 2022
Con: Riccardo Scamarcio (Caravaggio), Louis Carrel (L’inquisitore), Maurizio Donadoni (Paolo V), Isabelle Huppert (Costanza Sforza Colonna), Lolita Chammah (Anna), Micaela Ramazzotti (Lena Antonietti), Michele Placido (Cardinale Del Monte)
Trailer del film

Tragedia è la costante tendenza dei corpi collettivi a imporre una ortodossia e una ortoprassi volte a comprimere, reprimere, controllare, sopire e troncare, troncare e sopire quanto la fantasia, l’intelligenza e la libertà costantemente generano dentro le collettività umane. La fantasia, l’intelligenza e la libertà che dentro tali collettività gli individui più dotati di talento sanno esprimere, inventare, difendere, generare, diffondere. La tendenza securitaria dei gruppi umani è invece quella di chiudersi dentro un recinto ben organizzato di verità e di valori che giudica inevitabilmente pericolosa ogni prospettiva che non si confà ai valori praticati e alle verità credute da gruppi, partiti, chiese e regimi di volta in volta diversi ma costanti nella loro tendenza a catturare e distruggere il pensare.
Michelangelo Merisi (1571-1610) fu una delle vittime di questa tendenza e però la sua arte e il suo talento furono così grandi da convincere parte del potere – in questo caso quello di famiglie e cardinali della Chiesa Romana – a proteggerlo e a finanziarne l’opera. Così come vittima fu negli stessi anni Giordano Bruno che in questo film viene fatto incontrare in carcere con Merisi in una delle scene comunque più deboli dell’opera.
Caravaggio e Bruno furono aggrediti e perseguitati in nome dei valori e delle verità della dottrina cristiana. Almeno però il fasto, lo scetticismo e il libertinismo di molti esponenti della Chiesa Romana garantivano il lavoro degli artisti e la sopravvivenza delle loro opere; cosa che oggi credo non accada più, visto che tale Chiesa è diventata sempre più moralizzata e moralistica. Peggio accadde in ambito protestante e luterano dove, almeno agli inizi, non era neppure possibile che sorgessero artisti e filosofi lontani dai valori e dalle verità bibliche alle quali si ispiravano il monaco agostiniano Lutero e il gelido teologo Calvino.

L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana continuarono nel massimo custode dell’etica egualitaria e uniforme dello stalinismo: Andrej Ždanov. Il quale fu intransigente persecutore di ogni pittore, musicista, letterato che si discostasse dalle regole del «realismo socialista», unica forma d’arte ammessa dal regime sovietico.
L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana e stalinista continua oggi negli intransigenti persecutori di ogni cittadino e intellettuale che critichi i valori uniformanti e conformisti del Politically Correct; della medicina ricondotta a braccio armato delle case farmaceutiche -come ha documentato Ivan Illich -; delle scienze ridotte a correnti di un’ortodossia e un’ortoprassi volte a perseguitare quanti in vari modi difendono la salute dei cittadini, l’abito scientifico, il buon senso, le nostre libertà.
Caravaggio non ebbe requie e pace da coloro che o con l’apparato dottrinale o con la violenza dei pugnali ripudiavano la metamorfosi che nei suoi capolavori accadeva di gente miserabile, mendicanti e prostitute in santi e madonne. Questo non era etico, come non è etico oggi utilizzare il maschile neutro per rivolgersi a un gruppo di persone o apprezzare il pensiero di David Hume e di Voltaire nonostante il primo accettasse la schiavitù e il secondo fosse antisemita. E sono soltanto due esempi di una tendenza che non lascia in pace niente della storia dell’Europa, tendenze nichilistiche quali la Cancel culture e l’ideologia Woke.

Il film di Michele Placido ha reso vivide ai miei occhi le conseguenze e le forme di ogni ondata di moralismo con la quale si intende cancellare fantasia, intelligenza e libertà in nome di un qualche valore supremo. Per questo l’ho apprezzato, per il suo costante intersecare «un immenso talento» (parole dell’inquisitore) con «tuttavia» il pericolo che l’arte di Caravaggio disvelasse al popolo la tragedia dell’esistere e l’inconsistenza delle promesse redentive.
Mi sembra che il regista e gli sceneggiatori facciano propria l’ipotesi di Vincenzo Pacelli e Tomaso Montanari secondo la quale l’artista lombardo non morì di febbri e infezione da piombo ma assassinato da emissari dei poteri a lui avversi. Al di là di vari elementi controversi della biografia, il film mostra in ogni caso l’inquietudine costante, il carattere difficile, il bisogno di libertà e il genio davvero sconfinato di Caravaggio, del quale qualche anno fa scrivevo questo:
«Da dove viene questa luce? Viene dalla sapienza delle mani febbrili nel lavorare e dipingere per poi ‘darsi al bel tempo’, come si diceva allora; viene da un carattere inquieto, votato allo svelamento e al possesso totale della vita; viene dalla dismisura di un uomo violento, permaloso, passionale, facile al pugnale; viene dalla forma, cercata negli anfratti più scuri dell’essere, quelli in cui si conserva l’eco della sapienza primordiale, del non dicibile ma raffigurabile; viene dall’ombra, perché anche quest’ombra è la filosofia».

L’immagine in alto riproduce La morte della Vergine, un capolavoro rifiutato dall’Ordine Carmelitano – che pure a Caravaggio lo aveva commissionato – e che oggi si trova al Louvre. La madre di Gesù ha le sembianze terree di un vero cadavere, non destinato a essere assunto in cielo, e sembra raffigurare con il suo ventre gonfio una donna incinta o almeno morta annegata nel Tevere. I valori della fede mariana non potevano accettare una simile sconcezza. Ma il dipinto è mirabile. Essere liberi, esserlo davvero dentro il cuore, significa difendere la bellezza, l’immaginazione, il pensare e la differenza da ogni cupo controllo dei valori morali, che si tratti di quelli del cristianesimo nella sua gloria o dei «diritti umani» i cui fanatici sostenitori sono pronti a privare di diritti i cittadini che non si conformano ai loro valori, alle loro credenze, alle loro interpretazioni del mondo, al loro bisogno di apparire «buoni e giusti».
Ecco, questa è la tragedia sempre presente nelle società umane. Tragedia pervasiva del nostro presente epidemico e politico. 

Infiniti mondi

Giordano Bruno
De l’infinito, universo e mondi
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, 1985
I volume, pagine 343-544 

L’onestà intellettuale di Giordano Bruno gli fa riconoscere la validità di alcuni argomenti di Aristotele, filosofo che pur critica aspramente. Un’onestà che lo spinge a dismettere ogni fede, pregiudizio, dogma. La consapevolezza metodologico-critica che fonda l’opera bruniana è ben espressa da questa affermazione: «Chi vuol perfettamente giudicare, come ho detto, deve saper spogliarsi della consuetudine di credere; deve l’una e l’altra contraddittoria estimare equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbibito da natività» (p. 500).
I risultati di questo atteggiamento sono tra i più importanti e fecondi del pensiero moderno e si possono riassumere nella equiparazione della Terra a ogni altro corpo celeste; nella struttura isotropa dell’universo; nella necessità che intride il mondo fisico; nella identità tra corpo e tempo.
Bruno ribadisce infatti e dimostra che «non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente luogo e cielo (463). In questo modo il dualismo tradizionale -aristotelico ma non solo- tra mondo lunare e mondo sublunare scompare; l’indagine si può aprire a dimensioni inaudite e sconosciute, la cui infinità fa sì che in qualunque punto e luogo ci si trovi dell’universo, esso dà sempre l’impressione di essere il centro dell’intero. Tra gli innumerevoli soli, terre, astri, non esiste vuoto e vi sono 

innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanta potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo (518).

La materia è perfetta e dunque necessaria, poiché «non può esser altro che quello che è; non può esser tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili» (384). Il determinismo è semplicemente la presa d’atto che la materia coincide con le sue stesse leggi, immutabili ed enigmatiche, delle quali l’umano è parte.
Di queste leggi è struttura fondamentale il tempo, vale a dire la potenza stessa del divenire che genera, dissolve e rigenera. Il corpo umano è anch’esso corpotempo. È infatti evidente «che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi e da noi se dipartano li già altre volte accolti» (412-413).
L’energia e lo slancio del pensiero bruniano costituiscono una forza davvero rivoluzionaria. Il filosofo ne è del tutto consapevole. A Burchio il quale sconcertato obietta che «con questo vostro dire volete ponere sotto sopra il mondo», Fracastoro giustamente e sensatamente risponde chiedendo «ti par che farrebbe male un che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato?» (465). No, non farebbe male.

Socrate, la paura

Teatro Greco – Siracusa
Nuvole
di Aristofane
Traduzione di Nicola Cadoni
Musiche di Germano Mazzocchetti
Scene e costumi di Bruno Buonincontri
Con: Nando Paone (Strepsiade), Antonello Fassari (Socrate), Massimo Nicolini (Fidippide), Stefano Santospago (Aristofane), Galatea Ranzi e Daniela Giovanetti (Corifee), Stefano Galante (Discorso Migliore), Jacopo Cinque (Discorso Peggiore)
Regia di Antonio Calenda
Sino al 21 agosto 2021

«La terra si imbeve tutta del succo del pensiero». Questo è ciò che le nuvole producono, questo l’effetto della pioggia di parole che spaventa Aristofane, che lo induce a presentare Socrate e il suo ‘pensatoio’ nella maniera peggiore possibile ma che in questo modo esalta la forza irresistibile delle parole e del pensiero.
In questo tradizionalista affascinato dal caos che il dire e il pensare rappresentano di fronte all’ordine autoritario della città, si esprime tutta la paura che gli ateniesi nutrivano verso la filosofia, la paura che qualunque città antica o moderna nutre verso il pensare che non si acconcia a diventare megafono, strumento, ornamento e zerbino di chi comanda. Ė per questo che Socrate è morto, giustiziato dai bravi cittadini della giuria di Atene. Ė per questo che dopo di lui altri filosofi sono stati perseguitati, calunniati, uccisi, da Giordano Bruno a Galilei, da Spinoza a Heidegger. Ė per questo che Aristofane è un bel paradosso, che della filosofia mostra la debolezza e la potenza.
Al di là, infatti, delle battute scontate e sconce che descrivono Socrate e i suoi allievi come degli zombie, dei ladri, degli spostati, il cuore della commedia è Zeus, è il presunto «ateismo» dei filosofi, il loro voler sovvertire la πóλις con spiegazioni razionali e ‘meteorologiche’ del cielo, della pioggia e delle nuvole; con la trasformazione del discorso peggiore nel discorso migliore; con la distanza dal solido buon senso rurale di Strepsiade.
La filosofia non ha dogmi, non ha valori, non obbedisce. Nel suo feroce attacco a Socrate, il commediografo riconosce a lui e alla filosofia la potenza di questa libertà.
La messa in scena di Antonio Calenda è rispettosa di tale complessità di strati, modi e intenzioni del testo. Al centro c’è la traduzione di Nicola Cadoni, caratterizzata dal tentativo di riprodurre la musica dell’antica lingua greca; dal calco dei giochi di parole; dai ripetuti accenni alla politica contemporanea e soprattutto dall’ardita decisione di tradurre numerosi passi con i versi di Manzoni, Leopardi, Alighieri, con autori del Settecento, con Totò e Pasolini. Una scelta che mostra la continuità poetica dai Greci al presente. A conferma della continuità politica della filosofia europea, che è dissacrante di ogni certezza e conformismo oppure, semplicemente, non è.
Il paradosso Aristofane è anche questo: la reductio di Socrate al relativismo sofistico ma anche la conferma che c’è una dimensione della filosofia – e soltanto della filosofia – irriducibile al relativismo: la sua libertà, il suo respiro, l’impalpabile potenza delle nuvole.

Bruno, la materia, il tempo

Giordano Bruno
De la causa, principio e uno
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, Firenze 1985 (1958)
I volume, pagine 173-342 

«Per amor della mia tanto amata madre filosofia e per zelo della lesa maestà di quella» (p. 202) agisce la passione ‘eroica’ di Giordano Bruno a favore di un sapere non più in mano a pedanti ripetitori del già detto e dell’appreso ma per una scienza capace di mostrare la radice unitaria degli opposti. Infatti, «chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari e oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione» (340).
È dunque chiaro che il pensiero del Nolano si genera e si dispiega nel nodo costituito da Identità e Differenza. Infatti, una è «la omniforme sustanza, uno essere il vero ed ente, che secondo innumerabili circostanze e individui appare, mostrandosi in tanti e sì diversi suppositi» (184). Più esattamente, «ne la moltitudine è l’unità, e ne l’unità è la moltitudine; e come l’ente è un moltimodo e moltiunico, e in fine uno in sustanza e verità» (185). Sino a una conclusione che coniuga in modo consapevole e argomentato l’unità e identità del mondo con la molteplicità e la differenza che lo intridono e lo rendono ciò che è: «Quel che si vede di differenza negli corpi, quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori e altre proprietadi e comunitadi, non è altro che un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile di uno immobile, perseverante ed eterno essere» (326-327).
Il panteismo si coniuga a un profondo immanentismo, consapevole che «mai le forme riceversi da la materia come di fuora, ma quella, cacciandole come dal seno, mandarle da dentro» (183).

Tutto dunque è materia e la materia è tutto afferma Dicsono, l’interlocutore principale di Teofilo/Bruno. Noi vediamo infatti «che tutte le forme naturali cessano dalla materia e novamente vegnono dalla materia; onde par realmente nessuna cosa esser costante, ferma, eterna e degna di aver esistimazione di principio, eccetto che la materia» (273). La continuità delle strutture materiali è intrinseca alla estrema varietà delle loro forme; la molteplicità degli enti si fonda sul loro esser tutti enti naturali ed espressione dell’energia che genera incessantemente la differenza.

[Poliinnio] Non credete che, se la materia si contentasse de la forma presente, nulla alterazione o passione arrebe domíno sopra di noi, non moriremmo, sarrebom incorrottibili ed eterni?
[Gervasio] E se la si fosse contentata di quella forma, che avea cinquanta anni addietro, che direste? sareste tu, Poliinnio? Se si fusse fermata sotto quella di quaranta anni passati, sareste sì adultero…dico, sì adulto, si perfetto, sì dotto? Come dunque ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa, cossì è in volontà de la natura, che ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa nostra sustanza di farsi ogni cosa, ricevendo tutte le forme, che, ritenendone una sola, essere parziale. Cossì, al suo possibile, ha la similitudine di chi è tutto in tutto (296-297).

All’essere stesso è dunque intrinseca la sua forma temporale, la sua struttura diveniente, la differenza inseparabile dall’identità, la molteplicità coniugata all’unità, la permanenza degli enti nella trasformazione incessante che li rende esistenti e vivi. Se l’universo in quanto tale è uno, infinito, immobile ed eterno, le sue modalità d’essere sono molteplici e temporali.
Non ci si muta in altro essere -perché nulla si crea dal nulla-  ma si diviene in altri modi di essere, una dinamica fondata sulla differenza ontologica tra l’essere e gli enti: «E questa è la differenza tra l’universo e le cose de l’universo; perché quello comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere […]. Però intendete tutto essere in tutto, ma non totalmente e omnimodamente in ciascuno. Però intendete come ogni cosa è una, ma non unimodamente» (322-323). Bruno conclude dunque che tutti gli enti sono nell’universo e l’universo è in tutti gli enti. La struttura perfettamente unitaria dell’essere è una struttura di differenze. Il nucleo logico e ontologico di tale differenza è il Tempo.
Rispetto all’infinità spaziale e temporale, ogni misura parziale non può che essere identica a tutte le altre: «Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l’infinito, non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito queste cose sono indifferenti» (320). Anche tale struttura logico-ontologica conferma la molteplice unità di tutte le cose tra di loro.

L’universo è la potenza stessa, è -in termini contemporanei- energia che si dispiega in una varietà lussureggiante di forme, espressioni, leggi, forze. Un universo animato da trasformazioni incessanti all’interno di una forma che non muta.
L’anima mundi  «è tutta in qualsivoglia parte, come la mia voce è udita tutta da tutte le parti di questa sala» (253). Anche così si comprende la differenza tra causa e principio.
Non tutto ciò che è principio è anche causa. Il punto è principio della linea ma non la produce; l’istante è principio dell’azione ma non è sua causa. Il principio spaziotemporale rappresenta un concetto più generale rispetto a quello di causa efficiente. Il principio è parte costitutiva degli enti, degli eventi e dei processi. È una struttura intrinseca e immanente, è -nel linguaggio aristotelico- causa formale.
La causa è invece una struttura che concorre in modo esteriore e trascendente al farsi degli enti, degli eventi e dei processi, sia che la si intenda come causa efficiente sia come causa finale.
Intessuta di principi, cause e tempo, la materia è viva, animata, sacra: «È cosa indegna di razionale soggetto posser credere che l’universo e altri suoi corpi principali sieno inanimati; essendo che da le parti ed escrementi di quelli derivano gli animali che noi chiamiamo perfettibili» (179). 

Come ogni altro ente, l’umano partecipa di tale vita e di questa sacralità. Diventarne consapevoli è condizione per non temere più di tanto la fine del composto che si è, in quanto «si mostra chiaro che ne le cose naturali quanto chiamano sostanza, oltre la materia, tutto è purissimo accidente; e che da la cognizione de la vera forma s’inferisce la vera notizia di quel che sia vita e di quel che sia morte; e, spento a fatto il terror vano e puerile di questa, si conosce una parte de la felicità che apporta la nostra contemplazione, secondo i fondamenti de la nostra filosofia: atteso che lei toglie il fosco velo del pazzo sentimento circa l’Orco ed avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avelena» (179-180).
Anche e soprattutto qui sta la luce che la filosofia offre a chi la coltiva. Luce che invade chi la ama e che produce inevitabilmente odio in chi non ne comprende natura, fondamenti, scopi.
Figlio della filosofia, Giordano Bruno così descrive se stesso: «Io, odiato da stolti, dispregiato da vili, biasimato da ignobili, vituperato da furfanti e perseguitato da genii bestiali; io, amato da savii, admirato da dotti, magnificato da grandi, stimato da potenti e favorito dagli dei» (177). E così rispose ai giudici del Tribunale dell’Inquisizione cattolica che l’8 febbraio 1600 lo condannarono a essere bruciato vivo: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam», ‘Forse avete più paura voi a pronunciare contro di me questa sentenza che io a riceverla’.
A un uomo siffatto -a un filosofo- davvero «ogni terreno è patria» (201), ogni luogo dello spazio, ogni istante del tempo.

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