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Pura gioia

Johan Sebastian Bach
Concerto Brandeburghese n. 1 in Fa Maggiore BWV 1046 – III movimento: Allegro
Jordi Savall – Le Concert des Nations

 

 

Ancora Bach, sì, ancora i Concerti Brandeburghesi. È a essi che si torna, sono essi che si ascoltano quando la mente vuole attingere la pura gioia dell’esserci, una gioia non umana ma composta dalla luce delle stelle, dalla densità di un canto d’altri luoghi, da una potenza che nulla può contaminare.
Bach è il dolore più profondo delle Passioni, è la melanconia degli adagi ma è soprattutto la redenzione, sì, la redenzione. Il terzo movimento – Allegro – del Concerto n. 1 in Fa Maggiore è diretto da Jordi Savall con l’orchestra «Le Concert des Nations». La pienezza sonora dei corni intesse l’intera partitura rendendola calda, allegra, trionfante.
La dimensione teologica dell’opera di Bach si esprime per lo più nelle forme cristiane delle Passioni e delle Cantate. Nei Concerti invece, e soprattutto nei Brandeburghesi, essa si libera dalla cupezza e dal dolore e diventa una teologia pagana, platonica. Questa musica credo possa infatti essere accostata alle parole conclusive delle Enneadi di Plotino:

«Καὶ οὗτος θεῶν καὶ ἀνθρώπων θείων καὶ εὐδαιμόνων βίος, ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων τῶν τῆιδε, βίος ἀνήδονος τῶν τῆιδε, φυγὴ μόνου πρὸς μόνον.
Questa è la vita degli dèi e degli uomini divini e felici: distacco da ciò che di miserabile ci circonda, vita che non si compiace più delle cose che soltanto vede, fuga di solo a solo» (VI, 9, 11).

e a quelle con le quali Proclo descrive la natura divina:

«Dunque tale è l’immutabilità degli dèi, che consiste nella autosufficienza (αὐτάρκεια), nella impassibilità (πάθεια) e nella identità (ταὐτότης
(Teologia Platonica, libro I, cap. 20,94. 10-11, a cura di Michele Abbate, Bompiani 2019,  p. 137).

Proust, la teoresi, la gioia

Quello gnostico di Proust
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
27 maggio 2024
pagine 1-4

La Recherche du temps perdu è un cosmo che nessuna navicella ermeneutica riuscirà mai a percorrere per intero. Un modo per toccarne quanti più luoghi, spazi, direzioni, anfratti, enigmi, dimensioni, è attraversarla con uno sguardo teoretico che riconosca in Marcel Proust il filosofo che è stato.
De Scriptura di Enrico Palma squaderna il pensare proustiano nella sua potenza, dinamica e coerenza, offrendo in questo modo un fecondo contributo all’infinito lavoro di comprensione dell’Opera, che ne disvela i nuclei filosofici, li pone in relazione con il pensiero teologico ed estetico del Novecento, ne coglie continuità e distanze con la poesia e la narrativa del nostro tempo. E soprattutto questo libro mostra le ragioni dell’inspiegabile gioia che da un secolo coglie i lettori di Proust nell’istante di grazia nel quale incontrano le sue parole e intravvedono in esse la verità profonda della vita.

I luoghi, la gioia

I luoghi, la gioia
Nicola Buonomo
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXX – numero 82 – aprile 2024
pagine 50-55

Nelle immagini di Nicola Buonomo non appaiono umani. Se ne scorgono tracce, si vedono i loro manufatti, le automobili, le antenne, le sedie, le ciminiere, i panni stesi, ma essi, gli autori di tali artefatti, sono evaporati, dissolti, dissipati. Si vedono il legno, il cemento, le pietre, a volte sullo sfondo di colline, alberi, cieli. Ma nessuna persona umana abita questi luoghi né li attraversa. Sono luoghi che sembrano cantare da sé – non con voci umane – il significato del loro esserci. E anche per questo sono luoghi colmi di senso. I quali a chi in particolare è cresciuto in una Sicilia analoga, antica e freneticamente volta al ‘moderno’, trasmettono una profonda familiarità con ogni angolo dello spazio da Buonomo raffigurato. Un panificio, ad esempio, è semplicemente «Panificio», senza altre specificazioni e formule da marketing. Un panificio archetipico. E in questi luoghi i frutti della terra e le opere dell’animale umano sono inestricabilmente connessi, intrecciati, formanti un solo mondo, lo spazio.

Enrico Palma su Nomadismo e benedizione

Enrico Palma
Comprendere la sofferenza tramite Nietzsche 
Recensione a Nomadismo e benedizione. Ciò che bisogna sapere prima di leggere Nietzsche

in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 marzo 2023
pagine 1-6

«Grecità e modernità convergono dunque per Biuso nella proposta nietzscheana di “reintegrare i due mondi facendo della vita uno strumento per la conoscenza” (p. 68), una gnosi totale, un cammino costante, certamente pericoloso ma per ciò stesso aperto al rischio e fondato sulla libertà, un peana che avoca a un’’etica dell’immanenza” (ibidem), a una vita lieve, pura, giocosa, che non distrugge bensì trasforma e fa rilucere, tracimante ironia, soprattutto quando riferita agli umani, la convivenza con i quali “può essere frutto solo del disincanto” (p. 76) per via della loro ovvia infedeltà, sicura ferocia e incolmabile distanza. Bisogna dunque nutrire un sentimento greco, avere il coraggio di guardare questo male che ci schianta, conoscerlo e non indietreggiare, consapevoli del fatto che ciò che illumina è la possibilità che abbiamo nella nostra vita di fare conoscenza».

San Vito Rap

Pizzica di San Vito
Ensemble L’Arpeggiata diretto da Christina Pluhar
N. Rial / V. Capezzuto / G. Bridelli / J.J. Orliński
Festival Oude Muziek, Utrecht 2016

Una versione dell’antico canto colma di divertimento, ritmo, contaminazione, come la musica è sempre. La musica, questo linguaggio universale della pienezza, della gioia.

«La taranta è ancora viva» canta Eugenio Bennato anche perché il tarantismo è stato ed è un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici e pervasivi delle culture mediterranee.
Danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico.
Il nume cattolico del tarantismo è ‘Santo Paulo’ ma non è l’unico. La pizzica dedicata a San Vito conferma il politeismo del culto dei santi, la sua vicinanza alle radici pagane.

«E sì chiù bella tu, e sì chiù bella,
E sì chiù bella tu ti na cirasa,
Iata all’amori tua, iata all’amori tua,
Iata all’amori tua quannu ti vasa»

 

Dioniso, la luce

«Tragedia totale»1 è Βάκχαι. Essa  chiude la drammaturgia classica riportandola là dove era iniziata, riportandola a Dioniso, a Tebe. Sovrano della città è Penteo, un uomo schematico, ultramoralista, incapace di vedere e capire la complessità del mondo e dei suoi fenomeni. Un uomo assai violento, che ordina la lapidazione dello Straniero responsabile dei culti orgiastici che sul Citerone hanno coinvolto le principesse tebane, compresa Agave, madre di Penteo.
Lo Straniero viene incatenato ma, non si sa come, ben presto si libera dai ceppi mentre una scossa sismica rovina il palazzo e un incendio lo minaccia. Penteo però ha occhi soltanto per lo Straniero e per l’obbedienza di costui a Dioniso. Per questo vorrebbe vedere di persona che cosa stia accadendo sul monte. Lo Straniero si offre di aiutarlo. Penteo accetta e, quasi insensibilmente ma inevitabilmente, viene irretito nella trama del dio e si perde, diventando il gemello di Dioniso Zagreo, fatto a pezzi anch’egli come era accaduto al dio bambino.
È la madre a dare inizio al sabba delle Menadi che dilania il figlio: «Gli strappi denudavano le costole. Ciascuna, con le mani insanguinate, tirava intorno brandelli di carne di Penteo, come se giocasse a palla. Giace il corpo smembrato, parte sotto le dure rocce, parte fra le macchie profonde della selva; ritrovarlo non è facile» (p. 987).
Adesso Tebe, i suoi abitanti, le sue donne, riconoscono il dio, dopo aver rifiutato la sua festa, la festa della vita, il coraggio d’esserci e abitare nella luce. Adesso Tebe sa che «δὲ τὸν Διὸς / Διόνυσον, ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος», «il figliolo di Zeus, Dioniso, è dio nel pieno senso, ed è terribile [δεινότατος], ma più d’ogni altro con gli uomini è mite [ἠπιώτατος]», come egli stesso tiene a dichiarare (vv. 859-861, p. 978).
Nei confronti di chi lo respinge, il dio ha la sapienza che le sue donne per due volte cantano: «τί τὸ σοφόν; ἢ τί τὸ κάλλιον / παρὰ θεῶν γέρας ἐν βροτοῖς / ἢ χεῖρ᾽ ὑπὲρ κορυφᾶς / τῶν ἐχθρῶν κρείσσω κατέχειν;», «Sapienza cos’è? Che splendido / dono divino fra gli uomini / c’è mai, che valga di più / d’un nemico in nostra balia?» (vv. 877-881 e 897-901: p. 979). Mῆνις, il rancore, la furia, la vendetta, è parte costitutiva della vita, delle relazioni, del divenire, è parte dell’intero, è parte del sacro: «Lieve spesa è di credere / che una forza vi sia / qui, nel divino –quale che sia–  / e in norme di natura che / nel tempo vigono sempre» (Ibidem).
Dioniso c’è sempre.
Dioniso è la gioia, «questi sono i pregi suoi: / le corali danze, e poi / musicale ilarità / e la tregua degli affanni» (958-959); «se l’aveste capito quando vi rifiutaste alla saggezza, avreste adesso la felicità» (996).
Dioniso è la misura (sì, è la misura) poiché «in chi è saggio, l’equilibrio tutti i moti domina» (969); «βροτείως τ᾽ ἔχειν ἄλυπος βίος», «stare nei limiti: questo la gioia dà» (v. 1004, p. 984; con una traduzione un poco più letterale: ‘accettare d’essere mortali rende il vivere meno doloroso’).
Dioniso è un dio orfico, Dioniso è lo gnostico che condanna l’ignoranza di Penteo: «οὐκ οἶσθ᾽ ὅ τι ζῇς, οὐδ᾽ ὃ δρᾷς, οὐδ᾽ ὅστις εἶ», «Non sai che cosa vuoi, che fai, chi sei» (v. 506, p. 964).
«Διόνυσος ἥσσων οὐδενὸς θεῶν ἔφυ», «Non è inferiore a nessun dio, Dioniso» (v. 777; p. 974).
La  gioia dionisiaca pervade la teoresi greca e il pensiero di Platone, che nascono dalla luce e dalla furia del divino. Alla domanda da Beltrametti posta con grande suggestione: «Le Baccanti sono anche la tragedia palingenetica di una nuova società che non ha più il genos e neppure la polis a fondamento, ma il tirso: il regno dell’artista, del filosofo-prete, del grande condottiero?» (934), aveva risposto Eric Dodds. I filosofi della Repubblica sono infatti «una specie nuova di sciamani razionalizzati»2.
«εὐάζω ξένα μέλεσι βαρβάροις: / οὐκέτι γὰρ δεσμῶν ὑπὸ φόβῳ πτήσσω», «Grida evoè la mia voce di barbara: / ora i terribili ceppi non temo più» (vv. 1034-1035, p. 985), ora che il dio mi ha liberato.

Note
1. Anna Beltrametti in Euripide, Baccanti (Βάκχαι), «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 937.
2 Eric R. Dodds,  I Greci e l’Irrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), La Nuova Italia 1978, p. 248. 

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Con questa nota si conclude la mia analisi dell’opera di Euripide.
Gli altri testi si possono leggere qui:

Alcesti (Ἄλκηστις; 1.6.2016)

Medea (Μήδεια; 3.4.2019)

Ippolito (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος; 23.5.2019)

Elena (Ἑλένη; 29.5.2019)

Troiane (Τρώαδες; 10.6.2019)

Elettra (Ἠλέκτρα; 24.6.2019)

Ecuba (Ἑκάβη; 3.7.2019)

Supplici (Ἱκέτιδες; 10.7.2019)

Ione (Ἴων; 7.8.2019)

Reso (Ῥῆσος; 4.9.2019)

Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος; 14.9.2019)

Fenicie (Φοίνισσαι; 30.9.2019)

Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι; 5.11.2019)

Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἐν Ταύροις; 11.12.2019)

Oreste (Ὀρέστης; 19.3.2020)

Ifigenia

A purificare Oreste dal matricidio non è bastata la furia delle Erinni, non la potenza di Atena che le trasformò in Eumenidi, non la sentenza a suo favore che ad Atene diede inizio alla giustizia umana. Non è bastato tutto questo. Apollo ordina ancora a Oreste di trafugare dalla Tauride la statua della sorella Artemide, condurla in Attica, renderle culto. E allora sarà puro.
Va Oreste con il fidato Pilade, attraversa il mare e le Simplegadi ma viene catturato dai locali, la cui usanza è di sacrificare ad Artemide gli stranieri che giungono alle rive. A officiare il rito di sangue in onore di Artemide è Ifigenia, figlia di Agamennone, sorella di Oreste e molto altro, come lei stessa canta all’inizio della storia: «Si recò a Pisa Pelope di Tantalo su cavalli veloci; ivi sposò la figliola d’Enomao, da cui nacque Atreo: figlioli d’Atreo, Menelao e Agamennone, questi fu mio padre. Io sono Ifigenia; mia madre fu la figliola di Tindaro. Sui gorghi dove l’Euripo smuove ai fitti venti cupi marosi, mio padre, per causa d’Elena, mi scannò (lo crede, almeno) ad Artemide, là nella vallata tanto famosa d’Aulide»1.
Lo credette, Agamennone, insieme a tutti i Greci. E invece Artemide salvò la ragazza, sostituendola con una cerva2. Allo stesso modo Menelao e tutti i Greci credettero Elena in fuga con Alessandro Paride verso Troia, quando invece -per volontà di Era–  fu un εἴδωλον ad abitare le case d’Ilio.
Inganno è la vita umana, inganno è questo costruzionismo che ci spinge a credere ciò che più temiamo o più desideriamo (wishful thinking) e ci porta ogni volta alla deriva contro i muri del reale.
Catturati in Tauride, Oreste e Pilade stanno per essere sacrificati quando Ifigenia si rende conto che questi stranieri le potranno essere utili se porteranno ad Argo notizia che lei è ancora viva. Propone quindi loro di recapitare una lettera e in cambio lei li salverà. L’intreccio si dipana sino all’inevitabile riconoscimento di fratello e sorella, alla macchinazione per fuggire e condurre ad Atene la statua della dea dei boschi, all’inganno ben riuscito verso il re Toante, all’ira di costui, alla calma che gli impone infine Atena.
Un trastullo in mano al bimbo cosmico è davvero l’esistenza umana –«αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη» (Eraclito, detto 52)–  nel racconto dei poeti e nel divenire della storia.
Secondo Euripide in questo gioco i Greci sono spesso infidi o feroci: a Toante che le dice «tanta acutezza la devi alla Grecia!», Ifigenia risponde con un (auto)ironico «non fidarti mai dei Greci» (515-516); le donne tramano inganni; i sentimenti suonano e di continuo mutano nelle diverse note della tastiera interiore che noi siamo: «E mutare, il peggio, per chi / era felice: per gli uomini / questo è il peso più grave» (512). Versi che il cristiano Alighieri, innamorato della sapienza antica, tradusse in questo modo: ««Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria» (Inferno, V, 121-123).
Ma quando dalla miseria, dal gorgo della fine, dalla disperazione, si apre la luce di eventi impensati e redentori, ‘nessun maggior gaudio che ricordarsi del tempo sofferto nella vittoria’. Ifigenia è anche questa gioia.

Note
1. Euripide, Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἐν Ταύροις), in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 445.
2 Una inquietante ripresa del mito è quella che dà il titolo al film di Yorgos Lanthimos Il sacrificio del cervo sacro (2017).

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