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Gioco e massacro

Alluvion, di Matt Collishaw
M77 – Milano
A cura di Danilo Eccher
Sino al 15 ottobre 2023

Nell’invitarmi a visitare questa mostra, Michele Del Vecchio mi ha parlato di «colori, forme, oggetti, meccanismi, raffigurazioni e molta tecnologia di avanguardia. Risultato finale: molto interessante e inquietante». Ed è esattamente così.

L’arte di Matt Collishaw è poliedrica, ironica, tragica. È fatta di nature morte/vive che si animano dentro il quadro; di un’animalità fugace, libera, indagatrice; di foto splendenti e seicentesche di piatti e pietanze che costituiscono l’ultimo pasto dei condannati a morte nelle prigioni USA; di uccelli/automi alla Vaucasson che ripetono di continuo i protocolli comportamentisti dello stimolo/risposta, confermando in tal modo che cosa il behaviorismo sia, una forma di sottomissione, l’opposto di ogni emancipazione. Questi automi hanno come titolo The Machine Zone e vengono così presentati: «L’opera fa riferimento agli esperimenti degli anni Cinquanta dello psicologo americano B.F. Skinner, che analizzò il comportamento di piccoli animali guidati da un sistema di ricompensa, dimostrando che la ricompensa casuale crea una sorta di incertezza costante che incoraggia un ciclo comportamentale, meccanismo che è anche all’origine degli algoritmi che guidano le interazioni nell’era dei social media».

 


Infine, opera centrale che da sola occupa tutta la prima sala, una scultura circolare (circa 2 metri di diametro) su più livelli. Le ‘statuette’ che formano la scultura rappresentano personaggi intenti ad azioni violente. Tutto un po’ banale sino a quando è statico. Poi la scultura comincia a girare vorticosamente su se stessa e le statue prendono vita, si muovono, agiscono, uccidendo, massacrando. L’effetto che rende possibile il cinema dà qui vita alla materia generando un movimento tridimensionale che affascina come un grande gioco. E l’arte non è forse (anche) il grande gioco degli adulti?

Astratto / Figura

Painting is back
Anni Ottanta, la pittura in Italia

Gallerie d’Italia  – Milano
A cura di Luca Massimo Barbero
Sino al 3 ottobre 2021

In tutti gli ambiti del sapere è giunto il momento di oltrepassare i dualismi, di sostituire agli elementi che l’un l’altro si escludono quelli che invece reciprocamente si integrano, dando in questo modo vita e spazio a uno sguardo sul mondo che comprenda meglio la sua complessità e ricchezza fatta di differenze che proprio in quanto differenze plasmano un’identità fatta di gloria. Tale dinamica vale in primo luogo per la teoresi, per la filosofia che è «das sagende Bauen am Seyn durch Erbauen der Welt als Begriff», ‘il dire che edifica l’Essere tramite la costruzione del mondo come concetto’ (Heidegger, Schwarze Hefte 1931-1938 – Überlegungen IV, Vittorio Klostermann 2014, p. 212). E poi vale per la vita collettiva-politica, ormai al di là dei paradigmi topologici nati con il 1789; vale per la fisica, che integra la materia/energia sia come onda sia come particella; vale per l’arte, in particolare per la distinzione tra figurativo e astratto.
La percezione è sempre astratta perché è fatta di una miriade di elaborazioni cerebrali che partono dai sensi e si trasformano poi in forme; ed è sempre figurativa poiché tali forme assumono un ordine senza il quale la presa del corpomente sul mondo non sarebbe possibile. Anche questo è la Gestalt, è la Forma. Che è principio gnoseologico, ontologico ed estetico.

Il superamento del dualismo tra astratto e figurativo è evidente nella mostra che la sede milanese delle Gallerie d’Italia dedica alla pittura italiana degli anni Ottanta del Novecento. La divisione in decadi è sempre convenzionale e artificiosa ma in questo caso risulta accettabile perché indica non un arco cronologico ma una tendenza plurale e rizomatica che si origina prima di quel decennio e continua nel presente. La tendenza al gioco, decisamente. A un divertimento della costruzione che dall’artista si trasmette a chi osserva le opere, le gusta, sorride. Davvero un piacere nato dal giocare con le forme, dal divertirsi con i colori, con le invenzioni, i titoli, le citazioni, la possibilità di trasformare in ‘arte’ la materia che si tocca.

Materia mitologica come nelle splendide opere di Salvo che attingono ai templi e alla luce di Sicilia, ai suoi paesaggi con rovine, all’orgogliosa ironia dei 31 siciliani; mito che emerge anche nel Gilgamesh di Gino De Dominicis.
Materia storica come quella di Luigi Ontani che gioca con Mantegna e con Tiepolo nella sua Camera dei celibi.
Materia animale in Mario Merz e in numerosi altri che riscoprono e fanno propria la potenza della vita che intride le specie non umane.
Materia aritmetica, ancora in Merz che attinge alla serie di Fibonacci e materia simbolica nel Cinèma di Nicola De Maria e nei suoi Cieli degli uccelli – gridi sulla testa.
Tra i numerosi artisti presenti in mostra emergono in particolare Emilio Tadini con il suo Oltremare turchese di pienezza (qui sotto) e le opere di Enrico Baj. Tra queste una, bellissima, fatta di bianco, grigio e nero esplodenti e sprofondanti, il cui titolo è davvero un’epitome dell’arte oggi: Vedeteci quel che vi pare (immagine di apertura).
Infine, in tutti questi artisti e in tutte le loro opere sta anche la figura umana immersa nel colore, a esso consustanziale. Un cromatismo intenso, splendido, parlante.

Semiotica della distanza

Jean-Michel Basquiat
Milano – Museo delle Culture
A cura di Jeffrey Deitch e Gianni Mercurio
Sino al 26 febbraio 2017

Un’energia senza riposo, una creatività rabbiosa e senza requie. Archetipi, paure, sogni, diventano forme solo apparentemente semplici e immediate, immerse invece nella conoscenza della storia dell’arte e costruite con un sicuro dominio della tecnica. «Non so come descrivere la mia arte, non è mai la stessa cosa», disse una volta Basquiat. Ed è vero.
Il corpo, sempre e dappertutto. Con la sua fragilità, la sua decadenza, la sua bruttezza, la sua tenacia. La serie Anatomy disegna con bianca precisione parti dello scheletro umano su uno sfondo nerissimo.
Il potere con le sue corone. Il gioco, come nell’ironica casetta infantile -proprio identica a quella che tutti disegniamo all’asilo- sotto la quale è scritto A house built by Frank Lloyd Wright for his son. O come nella divertita serie di piatti in ceramica dipinti tra il 1983 e il 1984 con nomi di pittori, registi e altri artisti del passato e del presente.
La rabbia ma anche l’ascesi, come nel bellissimo Ciclista del 1984 che sembra assorbire e ricreare una delle possibili maniere di Picasso. In un’intervista Basquiat affermò che Guernica era da bambino il suo quadro preferito; come preferito avrebbe potuto essere Bacon.
I quadri di Basquiat sono impastati dei colori più accesi e dei più scuri: nero, giallo, rosso, bianco, verde, marrone. E su tutto domina il segno. In queste opere, infatti, i segni grafici sono scrittura e la scrittura diventa un segno grafico; «uso le parole come fossero pennellate».
L’opera di Basquiat è una semiotica della distanza, semiotica di una controllata e consapevole ribellione alla vita, assai più che alla società, ai cui riti e regole l’artista infine cedette insieme al campione della società dello spettacolo: Andy Warhol.
Nelle teste e nei ritratti appare chiaro che uno dei  segreti di quest’arte è la sua classicità.

Uno spasso

Nespolo That’s Life 
Catania – Fondazione Puglisi Cosentino
A cura di Danilo Eccher
Sino al 15 gennaio 2017

«La più alta autorità patafisica italiana», così Ugo Nespolo viene definito nel testo di presentazione della mostra. Della patafisica Nespolo esprime l’ironica giocosità che fa dell’arte uno spasso per adulti rimasti bambini; ha l’apertura a qualunque materiale: carta, vetro, alluminio, legno, acciaio, tessuto, vimini, ottone, nylon, serigrafie, fotografie, acrilici su tela, panno; ha la serietà del pensiero, come testimoniano in modo evidente le Tavole di Pastore (1968), con i sillogismi aristotelici diventati figura, forma, serialità, e anche Addizione (1973) e Grande conto del 1981, opere che hanno il coraggio e la capacità di trasformare l’aritmetica in ludico colore. Danilo Eccher ha giustamente scritto che «Nespolo è artista nel senso più classico del termine, creatore di immagini e racconti, architetto e scienziato, poeta e faber, regista e falegname, o, come si potrebbe riassumere, l’ultimo allievo di Luigi Pareyson».
Questo artista coglie soprattutto il ritmo degli oggetti, poiché anche gli oggetti inanimati sono tempo incarnato. Un tempo che diviene più lentamente ma che si trasforma anch’esso (è chiaro, ad esempio, in Schedario del 1967). Se le opere più recenti di Nespolo sembrano dei mosaici postmoderni, ovunque e sempre si tratta di un mondo colorato, colmo di significati del tutto razionali e insieme profondamente giocosi.

Ludens

Homo ludens
di Johan Huizinga
(1938-1940)
Traduzione di Corinna von Schendel
Il Saggiatore, 1983
Pagine 304

huizingaPiù antico di ogni sapere, il gioco è l’elemento generatore di gran parte della vita individuale e collettiva. Questo significa, più o meno, il sottotitolo originale dell’opera: «Saggio sull’origine delle civiltà dal gioco». Huizinga mostra attraverso quali vie l’elemento ludico abbia generato e continui a nutrire la conoscenza, l’arte, la poesia, il diritto, la guerra, il mito, le scienze, la filosofia. Il gioco «è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di ‘essere diversi’ dalla ‘vita ordinaria’» (p. 55). Senza tale elemento ludico non possono esistere la cultura e la società. Huizinga lo mostra con splendida erudizione. Tra i tanti esempi, due mi sembrano particolarmente chiari.
Nella lingua giapponese ogni attività delle classi superiori è legata al gioco, tanto che «il samurai stimava che ciò che è cosa seria per gli uomini comuni deve essere un gioco per l’uomo di valore» (153; cfr. anche 63). Ciò significa che il gioco è una delle azioni che meglio distinguono l’Homo sapiens dall’umano come esclusivo oggetto di bisogni primari; il giocare è pertanto un’attività estremamente importante con la quale «la vita sociale si riveste di forme sopra-biologiche che le conferiscono maggior valore» (78).
Riferendosi a Platone, Huizinga osserva che per lui «la filosofia, comunque approfondita, rimase un nobile gioco» (219) e l’umano stesso è un giocattolo in mano agli dèi -cioè alla necessità-, degno di ben poca considerazione.
L’esistenza si mantiene così in una dimensione leggera e insieme tragica. Una dimensione che dopo il Settecento la civiltà europea sembra aver progressivamente smarrito, sostituita da un ‘puerilismo’ che è stolto e sterile capriccio. Huizinga osserva che lo stesso sport professionistico conferma questo venir meno dell’unità fra gioco e cultura.
Homo ludens fa ben comprendere quanto l’esistenza umana abbia di apparenza, maschera, parata, rito. Prendere la vita come un gioco è il contrario di ogni volgare superficialità; significa piuttosto capire che le nostre azioni non possiedono alcun destino eterno e che racchiudono in se stesse il loro senso. Proprio per questo sono serissime e devono rispettare le regole del gioco. Altrimenti il dominio sarà dei (pre)potenti che non sanno giocare e sono soltanto dei guastafeste.

Forma / Gioco

Homo ludens
Quando l’arte incontra il gioco
Gallerie d’Italia- Milano
Sino al 30 marzo 2014

mazzoni_mozartHuizinga ha mostrato con efficacia attraverso quali vie e con quali forme l’elemento ludico ha generato e continua a nutrire il sapere, l’arte, la poesia, il diritto, la guerra, il mito, la filosofia. Se in molti di questi ambiti è stato perduto il nesso con il gioco, l’arte figurativa rimane permeata di una gratuità senza la quale si ridurrebbe a puro strumento di mercato o a narcisistica espressione dell’io. Quando invece prende sul serio il mondo, e quindi non prende sul serio se stesso, l’artista diventa il tramite per l’esplosione di numeri, lettere, forme logiche, colori accesi, che segna molta arte contemporanea e in particolare quella che si definisce cinetica e concettuale.
Così Antonella Mazzoni pone l’uno accanto all’altro un mandolino, un oboe, uno zufolo e sotto di essi la parola Art; il risultato ha l’evidenza di un nome/suono. Bruno Munari costruisce un Tetracono che ha tutta l’aria di uno di quei meravigliosi giochi che emergevano dalle scatole ricevute in regalo da bambini. Negli Scacchi di Enrico Baj ogni pezzo ha una propria personalità, baj_scacchiabbigliamento, struttura e con essi sembra di esser pronti alla sfida dell’intelligenza. L’Archeologia di Emilio Tadini chiude la mostra e sembra trasformare il gioco in testimonianza antropologica per i millenni. Gli specchi, le strutture in rilievo, la paratassi iconica scandiscono questo percorso dentro la forma/gioco che è l’umano.

 

 

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