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Aiace

Teatro Greco- Siracusa
Aiace
di Sofocle
traduzione di Walter Lapini
con Luca Micheletti (Sofocle), Daniele Salvo (Odisseo), Diana Manea (Tecmessa), Teucro (Tommaso Cardarelli)
scene e luci di Nicolas Bovery
musiche di Giovanni Sollima
regia Luca Micheletti
Sino al 7 giugno 2024

A differenza di altre esperienze siracusane a teatro, Aiace è una tragedia che non rinuncia al buio dell’ora successiva al tramonto ma lo accompagna e se ne riempie poiché tale buio è l’unica luce rimasta per l’eroe sconvolto dall’ira sino a invocare le «venerabili Erinni» affinché possano vendicare l’offesa sprezzante che gli Atridi e Odisseo hanno compiuto sottraendo le armi di Achille a colui il quale, se l’eroe avesse potuto decidere, sarebbero state destinate, ad Aiace, il più forte dei guerrieri achei dopo Achille, il più valoroso, l’invincibile. Le armi sono invece andate a Odisseo, il quale rimane sempre presente al confine della scena quando protagonista è la compagna di Aiace Tecmessa che racconta al Coro quanto è accaduto all’eroe, quasi a volere confermare con la sua permanenza la sorte comune e misera che anche a lui, in quanto mortale, è destinata.
L’inganno e l’offesa subita scatenano la μῆνις di Aiace, l’ira, la vendetta, il rancore. E scatenano insieme alla μῆνις la follia e la furia che avrebbero portato l’eroe a far strage dei Greci suoi compagni se non fosse intervenuta Atena a indirizzare la violenza del guerriero contro delle pecore, contro dei buoi, creduti invece da Aiace umani ai quali infliggeva dolore e dava la morte. Il velo di sangue che copre la scena e nasconde i cadaveri degli agnelli e dei buoi squartati partorisce anche Aiace che fa il suo ingresso proprio da quello stesso ventre di lamento e di sangue.
Quando il guerriero si sveglia dalla furia che lo ha sconvolto, si accorge di essere diventato lo zimbello dei Greci. È stato toccato il suo onore, perdere il quale è una condizione intollerabile in una civiltà della vergogna e non della colpa, qual è la Grecia antica. Sentono, sentono i suoi soldati le urla strazianti e orribili di Aiace. Si impossessa dei cuori di tutti la paura, il terrore, altra violenza, l’arcaismo di sentimenti primordiali e non controllabili. A rischiare di diventare folli sono tutti e non soltanto l’eroe.
«Quale turbine di orrori mi vortica intorno» dichiara Aiace. E più volte, come fa il colonnello Kurz di Cuore di tenebra, ripete il suo «l’orrore, l’orrore». Una condizione che è frutto non soltanto dell’inganno di Odisseo ma anche e specialmente della ὕβρις di Aiace, del suo vantarsi nei confronti di Atena e di Ares di poter sconfiggere i nemici anche senza la loro protezione e il loro aiuto. Non possono gli dèi tollerare una tale protervia, poiché vale sempre – è regola inscalfibile del mondo greco – che, come afferma Odisseo, «il ridere e il piangere degli umani dipendono solo dagli dèi».
Alla fine accade ciò che deve accadere e la scena viene occupata dall’enorme scheletro di Aiace che si è conficcato la propria spada nel petto. Perché se, come lui stesso afferma, «il tempo porta luce là dove era ombra e ombra dov’era la luce» – e dunque se il tempo è Differenza – è anche vero, come ancora Aiace dichiara, che «la natura di un uomo è immodificabile», Identità. L’identità di guerriero che gli ha reso intollerabile il vivere ancora.

La rappresentazione di tutto questo a Siracusa è stata coinvolgente e corretta. Corretta perché la scena, cosparsa ovunque di sangue e di carcasse di animali uccisi, riesce a trasmettere la struttura arcaica e tribale della tragedia, di questa di Sofocle ma non soltanto di essa. Coinvolgente perché il regista/interprete Luca Micheletti e il compositore Giovanni Sollima hanno tentato di restituire la natura di Gesamtkunstwerk della drammaturgia greca, il suo essere quindi non soltanto un testo recitato – come nel moderno teatro borghese – ma una rappresentazione fatta anche di musica, movimenti coreutici, canto. Un’opera d’arte totale. E le musiche di Sollima rispettano l’andamento ritmico del testo, pur tradotto in italiano.
La musica è protagonista di questa rappresentazione siracusana, musica che assurge al compito nietzscheano di una influenza «veramente rispondente» nella quale «immagine e concetto acquistano un accresciuto significato». Essa infatti «spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca, e in secondo luogo la musica fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione» (Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi 2011, § 16, p. 110). Che siano percussioni, archi o strumenti a fiato, che facciano vibrare l’aria insieme o singolarmente, essi riempiono lo spazio e le immagini che si lasciano così vedere meglio e più a fondo. La rappresentazione mostra assai chiaramente come a essere centrale, alla fine, non è la morte di Aiace ma il destino ineluttabile che appartiene a tutti, come saggiamente ci ricorda quello scheletro  imponente presente sulla scena.
L’enorme scheletro di Aiace che occupa tutta la parte finale della rappresentazione è infatti lo scheletro del nulla umano. Ma non è soltanto questo. È, senza averlo voluto, anche qualcosa di più contingente e miserabile. Il Teatro di Siracusa era infatti pieno. Pieno anche e specialmente di scolaresche. E quindi di adolescenti, o poco più, che hanno mostrato via via tutta la loro insofferenza nei confronti di ciò a cui erano costretti ad assistere. E per questo bisbigliavano, chiacchieravano, interrompevano di continuo con degli applausi anche mentre gli attori recitavano.
Guardavo le posture degli studenti, evidentemente e somaticamente a disagio. Perché infliggere a queste persone un simile tormento? Che diventa un’altra domanda: è corretto pagare biglietti dal costo anche assai alto per uno spettacolo continuamente disturbato e interrotto in questo modo? La responsabilità non è degli studenti, o non è soltanto loro. È anche e specialmente dei loro educatori, o presunti tali, dei loro professori che non esitano a costringere le scolaresche (in gita in Sicilia ma anche autoctone) ad assistere a una espressione di profondità e radicalità antropologica e metafisica alla quale questi adolescenti sono evidentemente impreparati o, in ogni caso, ‘non è cosa loro’. Che stiano a casa a guardare Maria De Filippi e TikTok, che stiano in giro attaccati ai loro cellulari, al torrente di messaggi audio, al flusso di WhatsApp. Quello è il loro mondo, lì devono stare, lì si sentono e sono a proprio agio. Non davanti a un incomprensibile e per loro noiosissimo spettacolo di due ore su argomenti e dinamiche alle quali sono estranei come lo sarebbe un marziano.
Lo scheletro in scena è dunque anche quello del teatro, greco e non greco. È lo scheletro dell’Europa, i cui giovani cittadini sono interamente e totalmente immersi nella Stimmung barbarica che proviene da New York e non da Atene.

In forma dunque di vermiglia rosa

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Guido Paduano
Con: Lucia Lavia (Dioniso), Ivan Graziano (Penteo), Antonello Fassari (Tiresia), Stefano Santospago (Cadmo), Linda Gennari (Agave)
Regia di Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
Sino al 20 agosto 2021

I nomi degli dèi e dei mortali che dal χάος da cui tutto sgorga pervengono infine a Dioniso e a Penteo compaiono alcuni subito e altri a poco a poco sulla superficie spazzata dai passi e dal vento. Immediato è invece l’irrompere sulla scena delle Menadi con il loro grido dell’orgia, εὐοῖ, evoè! Le Menadi, le Baccanti, stanno al centro di questa corale messa in scena dell’opera di Euripide. Una scelta saggia a indicare il cuore collettivo della festa e della ferocia umane. Espresse mediante lo spazio totale del teatro, lo spazio del teatro che si fa totale –Gesamtkunstwerk– attraverso i suoni, le percussioni, le danze, le voci che restituiscono la gloria degli dèi e la loro forza, antiche come il tempo.
E soprattutto, tratto caratterizzante la Fura dels Baus, mediante le imponenti macchine che portano attori e personaggi per l’aere, nelle contrade assolute, nell’aperto spazio del mito che dalla terra sale al cielo e poi dal cielo ridiscende nella polvere. I due principi del mondo sono infatti Demetra, la terra, il secco e Dioniso, l’umido, il succo della vite che dà ai mortali l’oblio dei loro mali. Non esiste altro rimedio al dolore d’esserci e del fare. Sia al povero sia al ricco, Dioniso concede il piacere del vino che libera dal dolore. Astemio, stitico, schematico e ultramoralista, Penteo invece non riconosce questa leggerezza, entra in scena portando con sé tre pesanti massi, offende, disprezza e illusoriamente incatena lo Straniero che parla in nome di Dioniso, lo Straniero che è Dioniso. La furia del dio, la sua vendetta, come si sa, saranno terribili. E meritate. La testa / prigione che domina sin dall’inizio la scena si trasforma nella testa vuota di un mortale che non vuole capire la forza inarrestabile del desiderio, del sesso e del sorriso, rimanendo nella tristezza dell’autocontrollo, della castità e della smorfia pudica intrisa di paura. Per diventare infine la testa mozzata e insanguinata che la baccante Agàve mostra con gioia dopo aver fatto a pezzi il proprio figlio.
Carlus Padrissa e la Fura dels Baus sono stati da sempre euripidei, da sempre utilizzano l’ἀπὸ μηχανῆς θεός, il deus ex machina che fa scendere, muovere e salire l’umano e il divino nello spazio della scena. Il loro Imperium, ad esempio (al quale avevo partecipato a Milano in compagnia di Mario Gazzola), era costruito come spazio affollato dagli spettatori, direttamente coinvolti nelle vicende e nella violenza rappresentata. Uno spazio dentro il quale si elevano piramidi, gru, corde. Da queste geometrie si staccano i soggetti del dominio, nel doppio genitivo di chi ordina e di chi subisce. Donne dai cui corpi si sprigiona la sensualità, l’implacabilità, la fecondità del comando. In Imperium la musica restituisce la raggrumata densità dei movimenti scenici, che sembrano tornare alla semplicità del gesto primordiale, quello che fonda insieme natura e civiltà, che dà e riceve morte, perché altro nelle cose non sembra darsi se non questa furia dei corpi.
Era già quello dunque uno spettacolo dionisiaco che in Baccanti diventa un’enorme forma antropomorfa (Semele / Zeus) dal cui ventre esce il dio bambino, con l’attore / Dioniso che precipita investito dalle acque del parto che si rompono. Dinamismo che raggiunge il culmine in gru e corde con le quali il Coro e le Menadi si avvicinano e si allontanano, si addensano e si espandono, dando ogni volta forma e vita al fiore del cosmo pulsante di potenza e desiderio.
«In forma dunque di vermiglia rosa / mi si mostrava la corale sacra / che nel suo sangue Bacco fece sposa», si potrebbe dire guardando la gloria delle Menadi librarsi e parafrasando per esse Alighieri (Paradiso, XXXI, 1-3).
Peccato solo che Dioniso appaia coinvolto nelle vicende di Tebe con gesti e gridolini che nulla hanno ovviamente del dio, il quale «ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος; ‘è dio nel pieno senso, ed è terribile, ma più d’ogni altro con gli uomini è mite», come egli stesso tiene a dichiarare (Βάκχαι, vv. 859-861, trad. di Filippo Maria Pontani). Dioniso uccide sorridendo. In Euripide (e sempre) questo dio è una maschera ironica e distante, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra. Una scelta di coinvolgimento isterico, come invece ha voluto qui il regista, è completamente sbagliata. Tale limite non inficia comunque la profondità e la bellezza di una messa in scena delle Baccanti imponente, coraggiosa e visionaria.

 

Elena gnostica

Teatro Greco – Siracusa
Elena
(Ἑλένη)
di Euripide
Traduzione di Walter Lapini
Con: Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (Menelao), Simonetta Cartia (Teonoe), Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno), Viola Marietti (Teucro), Mariagrazia Solano (una vecchia), Maria Grazia Centorami (Primo Messaggero), Linda Gennari (Messaggero di Teoclimeno), Federica Quartana (Corifea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 22 giugno 2019

Ho assistito a questo spettacolo insieme a un gruppo di studenti del corso di Filosofia teoretica del 2019. A loro dedico le riflessioni che seguono.

I percorsi del mito e degli dèi sono rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili. Il politeismo greco è anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio.
Elena di Euripide rappresenta un’evidente dimostrazione di tutto questo. Si tratta infatti di un personaggio diverso dalla Elena omerica, che è la più nota, con l’universale biasimo che l’accompagna. Eccezione significativa rispetto alla generale condanna verso questa donna fu Gorgia, che su di lei pronuncia invece parole del tutto plausibili di encomio. Contemporaneo di Gorgia, Euripide disegna un’Elena fatta di saggezza e di misura. Ci voleva coraggio nel far questo, visto che «l’azzeramento delle responsabilità di Elena equivale all’azzeramento della tradizione omerica» (Anna Beltrametti, in Euripide, Tragedie, Einaudi 2002, p. 556).
Racconta Euripide che Elena non è mai arrivata a Troia, che mentre i guerrieri a Ilio si scannavano, lei venne portata in Egitto, dove la troviamo sulla tomba di Proteo, a difendere se stessa dal figlio di lui che vorrebbe farla propria. Elena narra che «Era, incollerita per non avere vinto le altre dee, mandò in fumo il connubio ad Alessandro: non diede me, ma un simulacro vivo, che compose di cielo a somiglianza di me, al figliolo del re Priamo: e lui ebbe l’idea d’avermi – vana idea che non m’ebbe» (trad. di F.M. Pontani).
Decisa a uccidersi piuttosto che andare in sposa a Teoclimeno, il caso o gli dèi – sono la stessa cosa – fanno approdare sulle coste egizie il naufrago Menelao, che crede di portare con sé Elena conquistata a Ilio. Non crede quindi ai propri occhi quando vede e riconosce quest’altra Elena. Tra i due, come prima in un dialogo fra Elena e Teucro, gioca la dinamica di realtà e illusione. Gli antichi sposi decidono di ingannare il nuovo re egizio, fargli credere Menelao morto e chiedere di onorare la sua fine in mare. Ottenuta da Teoclimeno la nave, tornano a Sparta, vincitori.
Anche i percorsi della Wirkungsgeschichte, delle interpretazioni della tragedia e dei suoi effetti, sono molteplici. Non esiste, ovviamente, alcuna regia o messa in scena ‘corretta’ delle opere teatrali, tanto meno di quelle greche. Chi difende la ‘tradizione’ difende in realtà le interpretazioni novecentesche o persino del XIX secolo. La domanda da porsi è invece questa: quanto di greco c’è in questa regia? Nel caso della Elena di Davide Livermore c’è molto, per numerose ragioni.
La prima è che abbiamo assistito a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, fatta di parole ma anche di musica, di danza e di immagini. I primi tre elementi erano costitutivi del teatro greco, l’ultimo li rende vivi attraverso un grande schermo che fa da sfondo alla scena creando di volta in volta immagini degli dèi, degli umani, del mare, delle stelle, del fuoco. La suggestione e l’enigma ne vengono moltiplicati in una sorta di arcaismo elettronico che, insieme ai tanti specchi e all’acqua nella quale la scena è immersa, rende visibile il doppio, la dissoluzione dell’identità nell’aria e nel tempo. Nell’acqua sono immersi la tomba di Proteo, l’obelisco di Teoclimeno, il relitto della nave di Menelao.
Le musiche vanno dal barocco rivisitato al minimalismo, dalla musica leggera al Fandango del Quintetto IV in Re Maggiore G. 448 di Boccherini , che restituisce il ritmo dell’eros, del tradimento, del gioco. Musica che coniuga dissonanza e redenzione, la Dissonanza come immersione nel Nulla della «vana immagine» di Elena, «creata da un dio»; dei guerrieri «morti per una nuvola»; del «dio che è insondabile». L’etica dei Greci sta qui, nella loro ontologia, nella radicalità con la quale esistono e comprendono l’esistere.
L’Elena di Euripide – opera per molti versi sconcertante – è accenno, filigrana e metafora di qualcosa di assai profondo nella storia mediterranea e greca. Qualcosa che era nato con l’orfismo e che si compie nella visione gnostica del mondo. Elena è infatti un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce. L’uovo dal quale nacque Elena, dopo che sua madre Leda venne fecondata da Zeus in forma di cigno, divenne un simbolo della Gnosi, un’allegoria dell’esistere redento.
Tra le forme della verità che appare e si dissolve ci sono le strutture che i Greci raccolgono sotto il nome di Afrodite. Di lei, come di Dioniso, Elena è figura. Anche per questo può osare definire la dea πολυκτόνος Κύπρις, vale dire «la Cipride omicida» (v. 239) riconoscendone però sempre la dolcezza, insieme alla potenza. Rivolta ad Afrodite infatti Elena dice: «Avessi la misura! Per il resto, oh non dico di no, tu sei per gli uomini, certo, di tutti i numi la più dolce». Livermore ha reso visibile questa potenza di Elena/Afrodite, la sua bellezza, i modi e le parole.
Più di ogni altra forma, anche la vicenda iniziatica, tragica e inquietante di Elena è espressione di Ἀνάγκη: «λόγος γάρ ἐστιν οὐκ ἐμός, σοφὸν δ᾽ ἔπος, / δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον» ‘Non è sentenza mia, ma dei sapienti: della necessità nulla è più forte’ afferma Menelao (vv. 513-514). Ed è questa necessità ad aver generato Elena, la sua dionisiaca bellezza, la sua storia che si conclude, e in altro modo non potrebbe, con la divinizzazione profetizzata dai suoi fratelli, i Dioscuri: «ὅταν δὲ κάμψῃς καὶ τελευτήσῃς βίον, / θεὸς κεκλήσῃ» ‘Quando poi verrà la svolta e finirà per te la vita, sarai dea’ (vv. 1666-1667). È questo che a Siracusa si è compiuto nel rosso conclusivo che intride la scena, le immagini, le acque, mentre tutti intorno a lei muoiono –  come sempre nel divenire del mondo –  ed Elena rimane invece viva, trasfigurata, gnostica nel pianto e nella luce.

Klimt

Klimt. Alle origini di un mito
Palazzo Reale – Milano
Sino al 13 luglio 2014

Anche Klimt in questa mostra. Ma soprattutto l’ambiente affettivo, storico, culturale nel quale prese vita una pittura che sta al confine tra il figurativismo ormai al tramonto e la ricerca di forme diverse -più ricche del banale aspetto delle cose come appare d’acchito ai nostri occhi- con le quali plasmare l’ordine del mondo nella mente. Le prime opere sono infatti soltanto l’estenuarsi decadente di ciò che una volta, sostanzialmente sino al Settecento, era stata la potenza della realtà attraversata dallo sguardo. Tra l’imitazione del passato e un profluvio simbolico che voleva esser nuovo -ma era soltanto stanco- si consuma il debito verso Wagner e il suo progetto emulativo della Gesamtkunstwerk, che non poteva rinascere al modo pedissequo nel quale il musicista lo intendeva.
Il confine tra un simbolismo malinconico e la forza di forme nuove alla pittura è probabilmente il grande Fregio dedicato nel 1902 a Beethoven e che la mostra riproduce per intero. Poi Klimt cerca davvero strade altre. E le trova trasformando la donna in potenza della mente e i paesaggi in vibrazione, nel colore che attraversa l’estensione e la sostanzia. Il Bosco di faggi sembra infatti fremere nello spazio, la Madre con due bambini ha la forza espressionista che era già di Schiele, l’Adamo ed Eva conclusivo e incompiuto segna il riconoscimento della potenza materica della donna -il suo sorriso, infine- e dell’uomo quasi inesistente alle sue spalle. Finalmente Eva/Cortigiana/Salomè è diventata la Sophia da sempre ricercata, unione dei mortali con la luce.

 

Baccanti, una Gesamtkunstwerk

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Giorgio Ieranò
Musiche di Germano Mazzocchetti
Con: Maurizio Donadoni (Dioniso), Massimo Nicolini (Penteo), Gaia Aprea (corifea), Francesco Benedetto (Tiresia), Daniele Griggio (Cadmo), Daniela Giovanetti (Agave), Martha Graham Dance Company (coro delle Baccanti)
Regia di Antonio Calenda
Sino al 29 giugno 2012

Un catafalco, una “vara”, un fercolo. Su di esso avanza il dio. Braccia spalancate, viso immobile, voce tonante. Racconta di come Tebe, la città dove nacque da Semele e da Zeus, non abbia riconosciuto la sua deità. E per questo dovrà essere punita. Pènteo, il giovane re, più di tutti continua a respingere il dio, a interpretare la sua potenza come ciarlataneria, i suoi riti come immoralità. Ma chi resiste a Dioniso è perduto, perché questo dio è l’energia profonda della terra, del cielo, del tempo. La hybris di Pènteo lo rovina sin dall’inizio, sin dal suo nome. Le Baccanti danzano, sussurrano, gridano. Le mura di Tebe e i silenzi del Citerone vengono scossi dalle fondamenta attraverso il grido del trionfo: Evoè!

Baccanti
è l’ultima tragedia euripidea, messa in scena postuma. Con essa si chiude in qualche modo il teatro greco. E tuttavia è proprio in questo spasmodico tramonto che Dioniso è per la prima volta il protagonista assoluto di un dramma. Dioniso, che della tragedia greca è il dio fondatore. Dioniso per onorare il quale il teatro nasce non come spettacolo, non come esperienza ludica ma come rito, come esperienza del sacro.
La potenza del dio che –insieme ad Apollo, suo fratello- fu il vero signore della Grecia pulsa nelle Baccanti a ogni istante, invade lo spazio scenico, parla attraverso tutte le parole, tutti i personaggi, anche con le voci dei suoi nemici. All’inizio Dioniso ribadisce quasi ossessivamente la propria natura divina – «Ho l’aspetto di un uomo mortale ma sono un dio», «un dio vero e terribile / ma anche dolcissimo con gli uomini», un dio che ama l’oscurità e la luce, entrambe sacre, un dio ricolmo di ebbrezza ma anche di saggezza, un dio che dà la morte in modo terribile ma che è la vita stessa, indistruttibile, «unzerstörbaren Leben» (K. Kerényi).
Dioniso sa che «io non dovrò mai subire / quello che non è scritto nel mio destino». E questo vale per tutti gli umani, per tutte le cose.
Di tale potenza orrida e felice Antonio Calenda ha voluto ricostruire per quanto è possibile le modalità con le quali veniva rappresentata in Grecia: non soltanto teatro ma Gesamtkunstwerk, opera d’arte totale nella quale la parola si coniuga alla danza e alla musica. Le danzatrici della Martha Graham Dance Company diventano così delle Baccanti lascive e incantate, fisse nello sguardo e frementi nella gestualità. E cantano i versi dettati loro da questo dio dolce e implacabile, incarnato qui da un Maurizio Donadoni che finalmente ha occasione di mostrare il proprio talento.
Mentre su una Siracusa insolitamente autunnale si stendeva il buio della notte, Dioniso tornava sul suo fercolo, diventato di nuovo maschera immobile, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra.

Robert Wilson. WOOM Portraits

Milano – Palazzo Reale
Sino al 4 ottobre 2009

wilson_rider

Ritratti di attori, coreografi, cantanti, uccelli, porcospini, cani. Nelle forme più diverse che vanno dalle citazioni (Rembrandt, Beckett, vari film) alle pose più surreali, ironiche, sospese, intime, truci, solenni. Ma non è questo ciò che conta. È che le foto di grande formato a guardarle bene prendono vita, si muovono, respirano. Il genio di Bob Wilson ha prodotto ancora una volta qualcosa di semplice e di unico, che utilizza la strumentazione video per unire in un solo oggetto fotografia, cinema, musica, teatro.

Davanti al grande schermo che riproduce Winona Ryder nei panni della Winnie di Giorni felici e dove tutto è immobile ancor più che nel dramma perché tutto è silenzioso, le luci e le ombre che girano intorno alla protagonista, al mucchio di sabbia dentro cui è immersa, alla borsa, allo spazzolino da denti e alla pistola, scandiscono una vera storia. Ed è proprio l’uso magistrale dell’illuminazione e del corpo immobile dei soggetti a rendere questi Portraits una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale.

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