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Oro / Platone

James Lee Byars
Hangar Bicocca – Milano
A cura di  Vicente Todolí
Sino al 18 febbraio 2024

L’opera e la memoria di James Lee Byars (1932-1997) sono emblematiche di molta arte della seconda metà del Novecento e del XXI secolo. Le sue installazioni, sculture, performance oscillano infatti tra il sublime e il kitsch. Costituiscono quasi degli archetipi di queste due dimensioni delle arti visive e dell’estetica. E lo fanno a partire già dai colori.
Del significato dell’oro e del suo giallo Byars è perfettamente consapevole quando scrive che misterioso è il suo effetto «sulle persone; per alcuni è decadente e insignificante. Per me non è così: l’oro mi proietta verso la dimensione dell’infinitamente mistico. Raramente penso all’oro come a qualcosa di decorativo. Per me è un elemento spirituale» (Depliant della mostra, p. 22). E infatti numerose opere sono ricoperte da una patina d’oro e riverberano un giallo splendente.
Il rosso è affidato alle potenze indicibili, ai demoni, a una sfera composta da 3333 rose che nel periodo della mostra trascorrono da un colore vivissimo all’impallidire, allo sfiorire, al morire. Sempre intatte e di colore giallo sono invece le sfere che compongo la «tomba» che l’artista eresse a se stesso (è la sfera a sinistra nell’immagine di apertura) e la grande Golden Tower che accoglie il visitatore, la cui parte somma appare duplicata accanto alla torre – con la denominazione The Capital of the Golden Tower -, su una base nera che rende ancora più luccicante il riverbero dell’oro.


E dappertutto stanno il cerchio, la sfera, in generale le figure geometriche esemplate anche sul Timeo. «Nell’opera di Platone», scrive Byars «si trova una sublime definizione matematica della bellezza della sfera, in cui tutti i punti sono equidistanti. La superficie è liscia e levigata. Platone la eleva a una delle massime espressioni della bellezza, per poi addentrarsi nel concetto di cosmologia della Terra e dell’interpretazione religiosa» (Depliant, p. 15). Religioso non significa confessionale o fideistico ma attinente alla sfera del sacro, nella quale l’opera di questo artista tenta di immergersi in vari modi, forme, vibrazioni. Sfera del sacro che coincide in gran parte con la natura e la struttura del cosmo. Alcuni esempi sono; The Moon Books, «un grande tavolo rivestito in foglia d’oro sul quale sono disseminate sedici sculture in marmo bianco che rappresentano la luna nelle sue principali fasi – nuova, crescente, piena, calante» (p. 17);

le sfere rosse che compongono Red Angel of Marseille e quelle bianche di The Thinking Field.

Nell’immagine che documenta quest’opera, dietro le cento sfere bianche si intravede l’anfora di The Spinning Oracle of Delfi, riferimento ellenico che pervade l’estetica di Byars. Nei Greci e negli Egizi l’artista trova una spiegazione del vivere e del morire. L’ultima opera da lui realizzata è la monumentale Byars is Elephant (immagine di apertura), che così viene descritta dal curatore Vicente Todolí: 

L’installazione è costituita da due componenti in netto contrasto: da una parte un cangiante telo dorato di grandi dimensioni che pende dal soffitto e si estende fino a coprire parte del pavimento, dall’altra una palla di corda intrecciata, appoggiata su un piedistallo, realizzata con pelo di cammello. Entrambi i materiali sono legati alla storia egizia, ma con significati diametralmente opposti: la corda è un prodotto povero, utilizzato già nell’antichità per issare i blocchi di pietra con cui sono state costruite le piramidi, mentre l’oro è legato alla figura del faraone ed è simbolo di immortalità. L’artista, che aveva trascorso i suoi ultimi giorni a Giza, in una stanza d’albergo da cui poteva contemplare le piramidi, straordinari esempi di forme geometriche perfette, sosteneva che gli Egizi fossero il popolo che più avesse esplorato e compreso il concetto di morte (pp. 16-17). 

Tesi confermata da tutta la storiografia, a partire da Erodoto. Dove la dimensione sacra appare evidente è nelle grandi opere verticali come la Torre d’oro e The Figure of Death, autentico totem composto da dieci cubi di basalto che nella loro semplicità devono qualcosa al monolito di Kubrick , debito che mi sembra evidente anche in altri manufatti di Byars.

A chiudere la sintetica rassegna che ho tentato di questa mostra, segnalo l’installazione nella quale l’oro, la geometria, la sfera e lo spazio sembrano coniugarsi al meglio: la prospettiva con la quale sono strutturate e vengono guardate due opere: The Door of Innocence e The Figure of Question is in the Room, come se l’essere fosse perfetto, come se le forme immortali ed eterne fossero il vero mondo, del quale le strutture diluite e disordinate dentro cui siamo immersi sono soltanto un riverbero. Ancora una volta Platone.

Morandi

Giorgio Morandi
1890-1964

Palazzo Reale – Milano
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 4 febbraio 2024

Un rigore formale che attinge alle geometrie di Piero della Francesca ma con la tonalità tutta novecentesca di un immanentismo che si fa anch’esso distanza dagli eventi e dalla morte, come accade allo slancio verticale di Piero. Una prospettiva stratificata su più piani, attraverso forme e pennellate che all’inizio sembravano vicini alla Metafisica e al Realismo magico e poi divennero altro, divennero il sacro che dalle tele di Morandi spira.
Una luminosità fredda e antica si fa forma nelle fronde immobili, in un dolore oggettivo, nelle conchiglie, nei fossili, negli oggetti che si raggrumano e producono nel loro tacere luce. È un mondo fatto di geometrie, di parallelepipedi, di paesaggi «inameni», come li definì Roberto Longhi. Un mondo abitato da una forza di gravità interiore che stringe sempre più gli oggetti gli uni con gli altri, rendendo fermo lo spazio.
Giustamente la curatrice della mostra milanese afferma che in Morandi «la  luce ha un’incidenza metafisica. Lo spazio non è misurabile né percepibile» e nelle opere ultime la sua è «una materia che sta scomparendo». Una materia che si dissolve nella pienezza dell’essere. Morandi lo intuì e scrisse che «quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose».

Morandi. Natura morta, 1918-1919

L’arte di Morandi mostra tale essenza, dispiega la potenza della materia e del silenzio. Nessun umano appare nei suoi quadri. Anche per questo offrono la pace della materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Ma a rimanere sarà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, materia miserrima dentro il cosmo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore. E il tempo accade senza posa nel movimento delle masse e nella potenza dell’energia.

Morandi. La strada bianca, 1941

[L’immagine di apertura è una Natura morta del 1957. Le ultime righe di questo testo sono già state utilizzate da me in altre pagine del sito, parlando della musica di Jean-Philippe Rameau, di un film di fantascienza (Life, 2017), di una lezione alla Scuola Superiore di Catania. Si tratta infatti di una concezione della materia/luce del tutto affrancata da ogni antropocentrismo, una tesi per me fondamentale]

Luce che si fa struttura

Georges de La Tour
L’Europa della luce

A cura di Francesca Cappelletti
Palazzo Reale – Milano
Sino al 27 settembre 2020

Non ci sarebbe stato, naturalmente, senza Caravaggio. Ma non ci sarebbe stato neppure senza i fiamminghi antichi e i più recenti, come i maestri di Utrecht. Non ci sarebbe stato senza l’intera pittura nordeuropea della prima metà del Seicento. E soprattutto non ci sarebbe stato senza la luce. La luce della notte e la luce della sua mente. La mente di Georges de La Tour (1593-1652). Quella che emerge nella penombra dei suoi spazi; nei trapezi e nei rettangoli dei suoi abiti; nell’energia dei suoi mendicanti; nel riverbero incredibile e soffuso delle candele.
La mostra milanese accompagna ai dipinti di de La Tour quelli di alcuni dei suoi contemporanei: prima di tutto il sempre vivace e ammaliante van Honthorst, con una splendida Vanitas (1618, qui a destra, anche se la foto -ahimè- non rende) nella quale la bellezza di una donna diventa specchio, morte, giustizia, arcano; poi un pittore senza nome, chiamato Maestro del Lume di Candela, poiché una candela è sempre il centro dal quale si dipartono i corpi, gli eventi, le situazioni; infine altri artisti nelle cui tele si diffonde una polvere di luce.
Tra i dipinti di de La Tour esposti a Palazzo Reale ci sono alcune opere della prima fase – Il denaro versato; La rissa tra musici mendicanti – nelle quali esplode una violenza che sembra tanto antica quanto naturale, nelle quali il denaro condiziona, plasma e deforma i volti degli umani. Le opere più mature – I giocatori di dadi (in alto), Educazione della vergine – acquistano significati e forme del tutto nuove e potenti, con figure sempre più nette, geometriche, astratte dallo spaziotempo, dentro la luce che si fa struttura. Queste opere e Giobbe deriso dalla moglie (1650, a sinistra) stanno al confine tra la pittura italiana e quella dell’Europa del Nord. Nel Giobbe una figura grande, dominante sino al divino, surclassa un uomo nudo e vago, il cui sguardo è, rispetto alla potenza di lei, una lacrima tenace. Uno degli ultimi dipinti – San Giovanni Battista nel deserto (sotto)– raffigura una solitudine ai confini delle tenebre, del nulla.
Di lui Roberto Longhi disse: «È un pittore sorprendente. Non abbiamo strumenti per misurare il suo genio; ma sento che il talento di de La Tour spezzerebbe più di un manometro».
Dentro Caravaggio ma al di là di Caravaggio, Georges de La Tour incarna un ideale matematico-platonico, un espressionismo esoterico, arcaico e modernissimo dove tutto sembra vibrare di immobilità sospesa, enigmatica, luminosa.

Pictura ordine geometrico demonstrata

Fausta Squatriti
Se il mondo fosse quadro saprei dove andare…

Triennale di Milano
Sino al 5 marzo 2017

Gallerie d’Italia – Milano
Sino al 2 aprile 2017

Nuova Galleria Morone
Via Nerino, 3 – Milano
Sino al 2 aprile 2017

A cura di Elisabetta Longari
Video di presentazione

Nella parete più ampia della grande sala della Triennale si staglia il Polittico dell’eclissi, opera del 2015 che dell’arte di Fausta Squatriti rappresenta una summa. Là dove, negli antichi polittici, si raccontano le vite di Cristo o dei santi, qui ci sono le foto degli stracci con i quali i parigini chiudono i tombini delle loro strade per evitare che l’acqua tracimi. Nella parte bassa del polittico vi sono materiali come rose essiccate e bulloni, che sostituiscono le rose nell’incedere degli eventi. È la bellezza uccisa, la tecnologia al servizio della morte. Dove, in alto, era posta la Trinità cristiana, qui si dà un segno capovolto e insanguinato. Al centro, infine, domina l’eclissato Sole della storia, della natura, del tempo; il Sole nero di un’eclissi senza fine. Il buio come l’altro
13_2015 POLITTICO ECLISSEdella luce, il morire dentro la vita. Inseparabili. Il quadrato, le stelle, le foglie, il canto della materia.
Da qui si parte, da questa sintesi, per cogliere le continuità e le differenze che hanno scandito l’arte di Squatriti dal 1957 al 2017. In L’Œuvre au noir: ritratto dell’artista da giovane gli oggetti sono calcinati, il grigio dell’opera domina sul grigio della vita. Ne La solitudine di Casanova emerge la verità anche mozartiana del Don Giovanni: il seduttore rimane sempre solo, con il suo rifiuto di ogni pentimento che del desiderio cancelli persino il ricordo. Il piacere deve invece restare vivo, qualunque ne sia il costo, poiché di desiderio siamo fatti, anche quando i corpi si rigano di impercettibili decomposizioni, come nei dipinti di Tiepolo che Fausta riprende e trasforma in un rosa vorticoso e verticale, arricchendolo di colori pop, nella memoria ben presente della carne che è dissolta ma che fu felice.

Le Gallerie d’Italia raccontano e documentano la passione geometrica di Squatriti, la sua Fisiologia del quadrato che raggiunge il vertice del rigore e della storia in un’opera come Dalla svastica alla croce (1985) e si declina in musica delle forme nella serie In segno di natura, i cui capitoli intrecciano geometrie e ornamento mediante titoli come Alla Mecca, Islam verde, Ricamando l’organicità, Nella piscina. La mescolanza materica di acquarelli, pastelli, marmo esprime la molteplicità di linguaggi di cui l’arte di Fausta è capace: scultura, pittura, poesia, grafica, fotografia, narrativa.
Dappertutto, sempre, nelle opere e nel variare della vita, rimane un rigore compositivo che è una delle cifre più importanti di questa artista, la quale ha avuto il coraggio e la precisione di dire di se stessa «ho acquisito un desiderio di freddezza per amore di esattezza». Ne emerge un’opera profondamente teoretica e dunque capace di dire, raccontare, manifestare ed esprimere il corpo, la materia, le forme.
Squatriti ha abitato nel centro e nel cuore dell’arte contemporanea, da Man Ray a Lucio Fontana, da Gillo Dorfles a Giulio Carlo Argan e oltre, dei quali è stata amica, musa, narratrice. E riuscendo, del Novecento e del XXI secolo, a esprimere l’intera tragicità, trasformandola in una bellezza che del nostro tempo è manifestazione, racconto, redenzione.

Nelle belle e importanti sedi che le ospitano, le opere dialogano tra di loro -diverse e convergenti- e respirano nello spazio. In uno dei filmati che documentano e arricchiscono le esposizioni, Squatriti descrive il progetto Ecce homo, che si chiude con una scimmia vivisezionata, della quale Fausta dice «uno sguardo terribile, una creatura viva che non sa perché sta soffrendo». Neppure noi sappiamo il perché del nostro dolore ma un’arte come quella che ha generato queste opere ci regala qualche scintilla di comprensione, qualche raggio nella notte oscura.

Movimento, ala, piega

Arnaldo Pomodoro
Milano – Palazzo Reale
Sino al 5 febbraio 2017

La Piazzetta Reale fa da premessa con il Pietrarubbia Group, un insieme scultoreo che indica la memoria dei luoghi dove siamo nati, il loro trasformarsi accanto e contro di noi, il tempo delle pietre diventate bronzo. Entrati nella magnifica e struggente Sala delle Cariatidi si viene accolti dalla Grande tavola della memoria, una parete che racconta storie, vicende, drammi, guerre, dialoghi filosofici, teoremi matematici.
Poi le forme geometriche iniziano a vibrare. Colpite da luci riverberano luce. Le porte del mondo schiodate inchiodano la materia al suo fluire. Verticalità, orizzontalità, diagonali, rette, segmenti, tangenti, sfere, ellissi. La materia e lo spazio si raggrumano in stele arcaiche, in sfere sacre. Il ferro, il bronzo, il cemento, diventano movimento, ala, piega.
Dentro la sfera perfetta ma anche spezzata, ferita, consumata, perforata, si esprime il dramma di una modernità che anela al mito e deve accontentarsi della forma. «Nello stesso atto mi libero di una forma assoluta. La distruggo. Ma insieme la moltiplico» ha scritto Pomodoro. È così che dentro la materia splende senso, si dà Luce. La visione di Platone, una volta tanto, non è esatta: la Bellezza, infatti, è insieme ideale e materica.
Arnaldo Pomodoro e Ivan Theimer sono due forme greche infisse nella contemporaneità.

Eschermania

Escher
A cura di Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea
Milano – Palazzo Reale
Sino al 29 gennaio 2017

All’inizio fu ottimo disegnatore e incisore, capace di muoversi con estro e abilità tra il liberty e il surrealismo. Poi furono la geometria, le forme, la mente. Fu l’Italia raffigurata con rara potenza grafica: il Tempio di Segesta, il Flusso di lava come lo si vede da Bronte, Castelmola e altre splendide immagini della Sicilia e dell’Italia, soprattutto meridionale. E di Roma, dove Escher si stabilì e visse per quattordici anni. «L’episodio che produsse il cambiamento nel percorso artistico di Escher fu la visita a L’Alhambra e a Cordova nel 1936». In quegli edifici arabi vide la geometria, la serialità, la potenza creatrice della percezione umana, la relazione tra la struttura dei minerali e le costruzioni, vide le immagini ricorsive che si fanno musica degli occhi. «Escher è affascinato dal tema dell’illusione del volume realizzato con i mezzi della grafica» ha scritto Bruno Ernst.
E poi le leggi della Gestalt, gli ‘oggetti impossibili’, le Metamorfosi che mostrano la continuità olistica tra tutte le cose. Insieme a Magritte –soprattutto al Magritte de Les compagnons de la peur, in cui delle foglie si trasformano in inquietanti civette-, Escher ha ancora una volta dato ragione ad Aristotele, per il quale la mente è in qualche modo tutte le cose.
Già mentre Escher era vivo esplose una Eschermania che da allora non si è più fermata. Le forme escheriane si sono diffue ovunque: dalle scienze all’industria culturale (fumetti, copertine di dischi e di riviste, video), dall’arte più raffinata alla pubblicità. Uno degli artisti matematicamente più complessi è diventato anche uno dei più popolari. Questa mostra assai ricca ne spiega con efficacia le ragioni.

Geometria / Rivolta

FLATLANDIA
Racconto fantastico a più dimensioni
di Edwin A. Abbott 
(Flatland. A Romance of Many Dimensions, 1882)
Traduzione e prefazione di Masolino D’Amico
In appendice un saggio di Giorgio Manganelli
Adelphi, Milano 1999 (1966)
Pagine XX – 166

 

FlatlandiaUn Quadrato parla. E racconta la propria vita nel Paese della Superficie, dove le dimensioni della materia sono soltanto due –lunghezza e larghezza- e non si ha idea alcuna dell’altezza. Narra usi e costumi di questa terra piatta, di questa società assolutamente gerarchica nella quale i criteri del valore sono il numero dei lati e degli angoli. Dalle donne che sono Linee -e dunque poste al livello più basso dell’essere e del capire, tenute nell’ignoranza, inaffidabili e vessate ma sempre pericolosissime con la loro micidiale punta acuminata- ai Triangoli isosceli stupidi e violenti con i loro angoli acuti; dagli Equilateri operai ai Quadrati professionisti; dai Pentagoni ed Esagoni -sempre più raffinati e colti- fino alle somme Circonferenze, che sono –in realtà e naturalmente- dei Poligoni con un numero altissimo di lati estremamente piccoli.
Questa società dura, armoniosa e implacabile come può esserlo solo la Geometria, vive della morte continua di ogni Figura che con i suoi angoli mal gestiti possa costituire un pericolo per gli altri; viene scossa da periodiche rivolte capeggiate da Forme irregolari; è governata da una casta sacerdotale potentissima e pervasiva: «Da noi i Preti sono gli Amministratori di ogni Affare, Arte e Scienza […] senza far nulla direttamente, essi sono la Causa di ogni cosa che valga la pena di fare e che viene fatta da altri» (pag. 81). La dottrina che pervade questo spazio è una Razionalità geometrica consapevole della Necessità di ogni ente ed evento poiché non l’educazione o l’esperienza ma è «la Configurazione che fa l’uomo» e dunque «a un giudizio sereno, buona e cattiva condotta non sono ragioni sufficienti né di lode, né di biasimo» (84).
Al Narratore accade di ricevere la sconvolgente rivelazione -da parte di una Sfera- dell’esistenza della Terza dimensione e dunque dello Spazio. Poco prima il Quadrato aveva sognato un Paese della Linea ai cui abitanti lui stesso tentava inutilmente di dimostrare la parzialità della loro struttura. Ora riceve dalla Sfera un’analoga lezione. Rifiuta però questa saggezza e allora viene letteralmente “rapito” nel Paese dei solidi e lì finalmente vede ciò che fino ad allora aveva soltanto dedotto. Si scioglie così alla sua mente l’enigma che non comprendeva quando la Sfera gli parlava. Incapace dello sforzo di volontà che gli garantirebbe, a detta della Sfera, di lasciare il suo piatto mondo, una violenza pedagogica lo trasporta «verso l’Alto, ma non verso il Nord» (139), secondo la formula con la quale cercherà –tornato nella Pianura- di ricordare la ricchezza senza fine della prospettiva spaziale.
Infatti questo Quadrato regolare, pedante e insieme avventuroso -questo «povero Prometeo della Flatlandia» (150) come da sé si definisce- comincia a chiedere al suo maestro e salvatore di insegnargli anche la Quarta, la Quinta e le altre dimensioni. Ma questo dio circolare mostra anch’egli la povertà delle proprie vedute quando respinge tali aspirazioni come follie e sogni, non avendo dunque appreso la verità essenziale: che ogni ente vive nel proprio ambiente commettendo l’errore di pensarlo come l’unico, quando invece lo Spazio è davvero senza fine. Anche la Sfera somiglia insomma a quella creatura infima e adimensionale che vive in Pointlandia e che di se stessa si compiace come dell’unico e totale universo, chiamandosi It, Esso: «Infinita beatitudine dell’esistenza! Esso è: non c’è altro al di fuori di Esso» (141). Altrettanto convinta che oltre le tre del proprio mondo altre dimensioni non si diano, la Sfera scaglia il Quadrato là da dove lo trasse. Nella insensata speranza di convertire i suoi simili alla sapienza dello Spazio, il Narratore viene imprigionato ed è da un carcere quindi che egli racconta.
Così si chiude «questo universo di visioni tragiche e gnostiche» permeato di «una gelida grazia astratta» come con esattezza lo definisce Giorgio Manganelli (165 e 155). Un libro intriso di ironia e di rigore, di invenzioni fantastiche e di dimostrazioni matematiche, di intenti satirici (verso la società vittoriana e non solo) e di serietà mitologica. Un’autentica visione della mente. Un invito a cogliere la plausibilità dell’ipotesi che -oltre alla materia e al movimento- la struttura delle cose sia fatta di un’ulteriore dimensione che è il Tempo.
Il libro di Abbott ha una Wirkungsgeschichte ampia, imprevedibile e carsica. La sua eco riaffiora, ad esempio, anche nelle scenografie di Dogville (2003), il film per il quale Lars von Trier sceglie una scenografia bidimensionale fatta di semplici linee che consente di vedere dall’alto la città, esattamente come il Quadrato vedeva la sua Terra una volta uscito da essa.
Un libro sovversivo, alla fine, con la sua tenace ambizione di suscitare «con qualsiasi mezzo nell’intimo dell’umanità sia Piana che Solida uno spirito di rivolta contro la presunzione che vorrebbe limitare le nostre Dimensioni a Due, a Tre o a qualsiasi numero che non sia Infinito» (132).

 

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