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Dissipatio

Dissipatio H.G.
di Guido Morselli
(1973)
Adelphi, 2012
Pagine 142

Il Narratore senza nome è tutti i nomi. Egli è infatti l’ultimo uomo rimasto sul pianeta dopo che in un solo istante, alle 2 della notte tra il I e il 2 di giugno, l’umanità si è dissolta. Dissipatio Humani Generis è la formula attribuita a Giamblico per indicare lo sparire dell’umano, il suo evaporare. Sorpreso, incredulo, costernato, euforico, rassegnato, ilare, sollevato, l’eletto o l’escluso -dipende dal punto di vista- ricostruisce gli eventi che hanno portato all’Evento, compresa la sua volontà di uccidersi proprio alla stessa ora in cui è avvenuto l’impensabile.
Questa «monade intellettuale senza aperture né impegni» (pag. 28) molte volte aveva desiderato la solitudine, il silenzio e ora gli si offre una Solitudine senza riserve, un Silenzio diverso da ogni altro sperimentato tacere, un «silenzio da assenza umana […], un silenzio che non scorre. Si accumula» (33). L’umano è parentesizzato. Una metafisica e insieme empiricissima epoché mostra la potenza degli oggetti e quella della natura. Gli altri animali conquistano gli spazi che una volta furono abitati da noi. L’istinto avverte gli uccelli «di una novità in cui certo non speravano; il grande Nemico si è ritirato […]. O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante» (53). La ferita, l’inganno, la vis costruttiva e distruttiva si è estinta con la nostra specie. Una calma furia politica attraversa i pensieri del sopravvissuto contro i «samaritismi ipocriti della nostra società, che offre una mano a coloro che lei, proprio lei, butta nel fosso» (25). Ma non si tratta di storia, si tratta di natura. Non soltanto di natura, si tratta del sacro. La sarcastica apocalisse è rappresentata da «tre angeli neri, gli stessi a cui, in vita, quelli si prosternavano idolatri, e ognuno dei tre porta uno scudo, e su uno degli scudi si legge: Sociologismo, sull’altro, Storicismo, sul terzo, Psicologismo. A piè del monte, due serpi loricate strisciano sibilando e buttando fuoco. E ognuna sulle scaglie ha una scritta, e su una si legge: Advertising, e sull’altra: Marketing» (88). Crisopoli, così il Narratore chiama la capitale della sua nazione, la città della Borsa, degli Affari e dell’Oro, è ora diventata Necropoli, la città di coloro che una volta sono stati e ora si sono dissipati.
Ma la morte non è che una differenza quantitativa. La corsa degli umani e degli evi verso la dissoluzione è già dentro la loro stessa nascita, dentro il germinare delle cose che si sentono vive. «Un bisogno imperioso e ignaro» (95) è già all’opera nella «impartecipazione al mondo esterno, insensibilità, indifferenza» che ci rende «morti a tutto ciò che non ci tocca o non c’interessa» (74). La “divina indifferenza” (Montale) fa sì che «morire biologicamente, è il perfezionarsi di uno stato in cui ci troviamo già ora» (Ibidem). Verso il tutto e verso se stesso l’umano era «produttore inesausto» di «danno e fastidio» e tuttavia di tanto in tanto l’Ultimo desidera i suoi simili scomparsi, o almeno li cerca, e comincia «forse a misurare la loro importanza» (43). Ma sùbito ritorna alla sua paradossale razionalità «verticale, rigorosa e irrefutata» (130), la quale gli squaderna davanti agli occhi e nella memoria l’insostenibile volatilità di ogni antropocentrismo. Che cosa facevano in sostanza gli umani? Agivano in vista del proprio utile e ragionavano su ciò che vedevano fuori di sé e su ciò che credevano di scorgere dentro di sé. Poi indicavano ed esprimevano tutto questo con parole, suoni e segni. Chiamavano tale operare Cultura e la propria storia Storia del mondo. E dunque con la loro dissipatio il mondo sarebbe finito? Neppure per sogno: «La natura non si è accorta della notte del 2 giugno. Forse si rallegra di riavere in sé tutta la vita, chiuso l’intermezzo breve che per noi aveva il nome di Storia. Sicuramente, non ha rimpianti né compunzioni» (84). «La fine del mondo? […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro» (54). Una delle ultime testimonianze umane riferite dal racconto è l’invito che campeggia sullo striscione di un movimento politico radicale «Se siete uomini, sterilizzatevi» (141).

Una soddisfazione dal sapore di euforia traspare in questo indefinibile libro -romanzo certo, ma la sua natura va al di là di ogni steccato e limite di genere- e consiste nel sentirsi parte di una forma che non conosce tramonto né dolore. La forma che accomuna ogni cosa che è, una forma capace di esprimersi soprattutto attraverso le stelle, l’energia, la lava, le rocce. La forma che è la materia. Essa, «annunciava altamente il grande Roland Barthes […] è ben più preziosa della vita» (114-115). Certamente. Ogni filosofia degna del proprio nome, ogni pensiero amico della sapienza, non può che arrivare a questa chiara conclusione: la materia è più preziosa della irrilevante sua escrescenza confinata -per quello che sappiamo- all’infimo pianeta Terra, il quale gira intorno a una della più modeste stelle situate alla periferia di una delle innumerevoli galassie delle quali tale materia si compone. Materia che è accompagnata dal vuoto e dal silenzio. Meraviglioso.
Il Narratore si dice disinteressato alla filosofia ma si tratta di una bugia. Questo libro è intriso di filosofia poiché è capace di pervenire a un luogo teoretico che della filosofia è territorio privilegiato di indagine: il rapporto tra l’umano, la materia e il tempo. Nel mondo senza umani tutto era «a posto e in ordine ma immobile e fuori dal tempo, perché è l’uomo che fa il tempo delle cose, e non si vedeva un uomo. Non ne rimaneva uno» (35). E tuttavia questa sensazione di immobilità del tempo, e dunque di ogni cosa, è ben presto anch’essa dissolta poiché «su questa terra non c’è l’eterno, non ci sono che attimi, per quanto incalcolabili» (107). La potenza di tali attimi innumerevoli e senza fine è la potenza stessa della materiatempo, quella che dovremmo cercare di comprendere a fondo nei tanti suoi modi (i modi di Spinoza). Il modo umano è consustanziale al tempo, come ogni altro ente ogni vita ogni fenomeno ogni evento, e quindi esso si dissolve «come, e quando, è cessato il tempo» (133). Nel tempo rimangono infatti le tracce della sua esistenza, la materia da lui plasmata, i segni della comprensione che questo grumo di materia ha avuto di se stesso.

La bellissima copertina di questa edizione di Dissipatio H. G. riproduce un’opera di Geoffrey H. Short, una Esplosione senza titolo del 2007. I suoi molteplici colori e la sua forma antica sembrano voler racchiudere e nello stesso tempo far esplodere i molti nomi che costellano la narrazione di Morselli, che non l’appesantiscono affatto, anzi la rendono ironica e sapiente. Eccoli, in ordine di apparizione: Marcuse, Durkheim, Flaubert, de Beauvoir, Penderecky, Hegel, Malinowski, Lévy-Bruhl, Montaigne, Pascal, Cartesio, Berdiaeff, Camus, Nietzsche, Proust, Pasolini, Berg, Bach, Enzensberger, Giamblico, Agostino d’Ippona, Husserl, Baudelaire, Tommaso d’Aquino, Marx, Hölderlin, Freud, Borges, Barthes, Gropius, Weber, Dostoevskij, Gauguin, Thoreau. E tuttavia la musica di questo testo non è di nessuno fra coloro. È tutta e soltanto di Morselli. Un epicedio di ironica saggezza sulla specie umana. «E anch’io, se canto, canto di notte» (53).

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