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Un racconto

Di stelle e di buio
in Il valzer di un giorno
di Franco Carlisi
Seconda edizione rinnovata nei testi e nelle fotografie
Gente di Fotografia Edizioni, 2018
Pagine 191-195

Vivere significa anche essere aperti al nuovo. Ho voluto quindi provare una per me inedita modalità di scrittura: il racconto. Un testo di completa fantasia, dove non ci fosse nulla di saggistico e nulla di personale.
L’occasione è stata uno splendido libro di Franco Carlisi, al quale il fotografo mi ha chiesto di collaborare. Un fotografo tra i più importanti del presente, che raffigura i corpi, la festa, la tensione, il sorriso, la carne, le luci, le chiese e le strade, i curiosi e le madri, i suoni e i silenzi, il battito pronto a dire di sì, il distacco da ciò che fu, l’attesa dell’avvenire, gli abbracci per sempre e la potenza dell’adesso, il καιρός. E tutto questo nell’istante di uno scatto, in una foto. 

 

 

Solitudine

Vivian Maier. Una fotografa ritrovata
Catania – Fondazione Puglisi Cosentino
A cura di Anne Morin e Alessandra Mauro
Sino al 18 febbraio 2018

Gli umani, la loro costitutiva solitudine, che siano bambini, operai, madri, funzionari, giovani, anziani, commercianti, edicolanti, bianchi, neri, tutti pronti alla morte, ora, dopo. Una solitudine fatta di azioni, di flusso, di sguardi riempiti dello stupore d’esserci. Uno stupore che coinvolge le strade e le case, le contagia, le ferma nello spazio.
New York, Chicago, San Francisco sembrano il luogo di un’ovvia penitenza. Come se i frammenti di materia che le immagini riverberano venissero dall’improvvisa ma inevitabile interruzione della salvezza. L’utilizzo del colore, a partire dagli anni Settanta, banalizza un poco questo sguardo, lo rende più ‘realistico’, meno apparente e quindi meno vero. I video in 8mm restituiscono il movimento frammentario del mondo, la pena delle attività umane, la saturazione degli istanti. E spingono a migrare in qualche redento altrove. In questo altrove vivono e a questo altrove accennano i numerosi autoritratti di Vivian Maier (1926-2009). Realizzati guardandosi in una vetrina sulla strada o preparati in una fuga di specchi dentro casa.
Due di tali autoritratti svelano qualcosa del silenzio di questa fotografa che non espose mai finché fu viva, suggeriscono qualche ipotesi sui suoi pensieri.
Il primo (del 1955) è una compiuta dichiarazione di poetica. Un operaio di una ditta di traslochi solleva uno specchio. Lei, maestra del tempo, coglie l’istante e si eternizza in questo specchio diventando il suo centro, il centro della foto, il centro dello spazio isotropo che da lei si diparte. Un’immagine stupefacente.
Il secondo, a colori e senza data, raffigura poggiate a terra una camicia, un soprabito e un cappello. Dentro i quali non c’è nessuno. Questo è la solitudine. È il nostro non esserci per gli altri, non esserci nello spazio, non esserci. È rinchiudersi nelle stanze del proprio sé e da questo castello alto e desolato tentare di amministrare i feudi della disperazione.

Vivian Maier visse da sola ed è anche questa solitudine che proietta nello sguardo interiore, esatto e distante che posa sul mondo.

[Una mia più ampia analisi dell’opera di Vivian Maier è in preparazione per il prossimo numero della rivista Gente di fotografia]

Dissonanze

Jennifer Thoreson / Dissonanza e proliferazione
in
Gente di fotografia
Anno XXIII, n. 69, novembre 2017
Pagine 8-17

«Gorgoglia la materia nella morte, come se tutti fossimo sogno di un demone cattivo, fossimo l’ironia delle Madri, fossimo dentro il loro implacabile destino. […] ‘The failure of faith’ è anche una ‘disclosure’, è la rivelazione del nostro essere stati gettati in un mondo incomprensibile e nemico, fatto di sporgenze tumorali, di arcaiche intumescenze, di inaudite proliferazioni. C’è qui, evidente, tutto il fascino e il timore che alcuni antichi gnostici nutrivano verso la materia, verso un mondo di carne e dissoluzione, nel quale i più sono stupidi e ignoranti e la massa è costituita da cose in forma umana».

Dal lutto e dalla gloria

Attilio Scimone / La memoria della terra
in
Gente di fotografia
Anno XXIII, n. 68, agosto 2017
Pagine 56-61

«Tra le erbe, i silenzi, i graffi e le onde si staglia finalmente la bellezza. La bellezza per antonomasia, la bellezza paradigma, la bellezza che ci turba, ci avvolge, ci vince e fa felici. La bellezza della donna. Multiverso le raccoglie, queste donne. Le raccoglie mentre sinuose avanzano coi tacchi dentro il grano o elegantissime sembrano supplicare la loro stessa pacata gloria. Le raccoglie mentre posano distanti dallo sguardo e dal desiderio del fotografo e mentre avvolte nel nero arcaico di Sicilia si accingono a riempire di sé i luoghi, la pellicola, le voglie, la memoria»

Pdf del testo
English version

Sentimento matematico

Jean-Philippe Rameau
Gavotte et Six Doubles
da «Nouvelles Suites de pièces de clavecin» (1728)
Esecuzione al pianoforte di Eddy del Rio

Rameau

 

[audio:Rameau_Gavotte.mp3]

«L’umano è una complessità irriducibile sia all’identità assoluta con il resto dell’essente sia alla differenza altrettanto assoluta e portatrice di dominio e di distruzione della comune casa che tutti gli enti ospita: la materia. La materia protoplasmatica e animale, la materia vegetale e minerale, la materia artificiale e macchinica. La materia, la sua potenza. La materia e basta. Non gli umani soltanto, che sono cosa  miserrima dentro il cosmo. E neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. No. La materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore. E il tempo accade senza posa nel movimento dei corpi e nella potenza dell’energia. Quando penso a tutto questo, la mia ricerca finalmente trova pace. In Dio, nella Natura».
(da: agb, Nicolas Descottes. Materia, in «Gente di fotografia», n. 58, p. 56)

Di tal genere, se non tali appunto, sono i pensieri che questa Gavotte di Jean-Philippe Rameau suscita all’ascolto. Un sentimento matematico, come l’esattezza del crepuscolo, come la gloria della materia.

 

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