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Gadda, il guerriero

Gadda, la guerra, la nazione
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
18 febbraio 2025
pagine 1-7

In Carlo Emilio Gadda, nella sua idea del mondo, non c’è posto per gli infingimenti, per le illusioni, per i sentimentalismi ‘umanitari’. Lo testimonia un esplicito brano, che Gadda scrisse anche se poi preferì non pubblicarlo: «Io non ho mai avuto sentimenti umanitarî, né in guerra né in pace, pur essendo molto sensitivo al dolore e alla miseria degli altri e anche alla gioia degli altri». Espressamente enunciata è invece una formulazione che della guerra mostra le innate radici nell’umano e nelle sue società: «Le armi Caino ferocemente le impugna: e talora anche contro alla nostra filantropia».
Ovunque e sempre nei suoi scritti – direi tratto caratterizzante l’intera sua opera – Gadda non ha inteso ‘migliorare il mondo’ ma ha voluto descriverlo nella sua realtà spesso surreale e divertente così come spesso è insensata e feroce: «essendo io un rètore, amo le scritture compiute e non amo gli edificanti stralci». Nessuna scrittura edificante, no, ma la descrizione di ciò che necessariamente consegue da una verità metafisica quale è il tempo che tutto intesse, involve e vince, al modo in cui anche Petrarca sa dirlo: «Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo». Con densità ed efficacia simile a queste, Gadda scrive che «gli umani, nella brevità storica della lor vita, sono il sostegno efimero del divenire».
Eφήμεροι e patetici, con la pretesa – in alcune filosofie ed epistemologie – che  il divenire immenso (miliardi di anni) della materia, delle galassie distanti miliardi di anni luce, degli oceani terrestri, delle lave dell’Etna, tutta questa magnifica potenza dipenderebbe per esistere (non per essere semplicemente conosciuta dall’umano ma proprio per esistere) da quella dimensione parzialissima e insignificante che è la coscienza  di una entità abitante da pochi anni un periferico pianeta di una delle innumerevoli galassie che compongono il cosmo. Pretesa formulata da una entità, l’umano, frutto del tempo (come tutto), la cui vita è intramata di limiti, sofferenza, patologie, ed è destinata in un batter di ciglia a sparire.

 

Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia…

Carlo Emilio Gadda
Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo
Conversazione a tre voci
(1958)
Introduzione di Franco Gavazzeni
Garzanti, Milano 1999
Pagine 103

Il furore che Gadda rivolge contro Foscolo non è destinato soltanto a Niccolò Ugo ma a un intero modo di intendere la parola, la poesia, la storia e la vita stessa. Un modo che a Gadda appare insopportabilmente artificioso, ipocrita e meschino. Nei versi di questo poeta Gadda ritrova e rintraccia sempre il vuoto di chi a volte nulla ha da dire ma parla lo stesso; altre di chi usa la parola per conquistare femmine e danari; e infine anche di chi crede che «una ricerca onomastica ellenizzante o comunque classica», inventrice di un «macchinoso e inutile vocabolario» (p. 64) possa definirsi ed essere poesia. Accade quindi che in un vero e proprio profluvio di  imeni (presunti) intatti, ci siano «più vergini nei millenovecento versi di Foscolo che in tutta la storia di Roma antica. Nelle ‘Grazie’, poi, sono vergini anche i quadrupedi» (78). L’Ellade delle odi, dei sonetti, delle Grazie e dei Sepolcri è agli occhi di Gadda soltanto l’invenzione esaltata e strumentale «del trombone, del rètore, e del falsario» (97) che  Foscolo è stato.
A celebrare questo diselogio funebre sono tre interlocutori impegnati in una sarcastica ma sempre divertente conversazione sulla guerra, le donne, la poesia. Nel salotto di Donna Clorinda Frinelli, «che incarna l’amabile e beata incultura del gentil sesso» (F. Gavazzeni, p. 37) si affrontano il foscoliano Professore Manfredo Bodoni Tacchi e l’inviperito antifoscoliano Avvocato Damaso de’ Linguagi. Il testo venne pensato per la radio e dalla Rai venne trasmesso, preceduto da una intervista/presentazione dello stesso Gadda sul n. 48, anno XXXV, 30 novembre 1958 del «Radiocorriere T.V». L’intervista è un testo raffinato e molto bello che fa pensare all’abisso tra la RAI e le sue pubblicazioni di quel tempo e la RAI del nostro tempo.
La stroncatura è troppo iperbolica per essere condivisibile ed è basata in gran parte – così ipotizza il curatore – su una abbastanza miserabile Vita di Ugo Foscolo scritta dal conte milanese Giuseppe Pecchio nel 1830. Riferimento che testimonia forse come una delle fonti di Gadda fu appunto il romanticismo lombardo, fieramente avverso a qualunque forma di classicismo.
Ma, come sempre in questo autore espressionista e geniale, assai più del tema conta il linguaggio, il profondo piacere che una lingua inventata, sfrenata, perfetta e molteplice trasmette al lettore preso nel vortice di una parola plurale e dolente, divertita e sempre tragica.

Kiefer

Anselm
di Wim Wenders
Germania, 2023
Con: Anselm Kiefer
Trailer del film

Da molti anni lo Hangar Bicocca di Milano ospita in modo permanente I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. «Una verticalità immobile  e cangiante» l’ho definita. E tutta la poetica di Kiefer è anche questa verticalità. Il film di Wim Wenders lo dimostra intessendo l’apparire delle opere – poiché di una epifania si tratta  – con la vicenda biografica che ha condotto questo artista visionario dalla collaborazione con Joseph Beuys a un ampliamento sempre più imponente delle immagini, delle costruzioni, degli spazi. Sino a occupare intere ex fabbriche o ettari di terreno per trasformarli in luoghi poietici, dentro i quali sorgono le spose/Lilith; sorgono gli enormi pannelli fatti di ferro, cemento, ondate di colore; sorgono le torri disseminate nello spazio; sorgono le fotografie raccolte in volumi di piombo.
Kiefer appare dunque come un alchimista e un fabbro, la cui fiamma ossidrica vorrebbe illuminare anche la storia recente della Germania, accompagnato dalla lettura costante ed empatica delle poesie di Paul Celan.
Introducendo Celan, leggendo le sue poesie, Kiefer e Wenders parlano anche di Martin Heidegger. Lo fanno con immagini e video che raffigurano il filosofo mentre cammina, con il suo sguardo sempre ironico e magnetico.  Kiefer e Wenders ricordano l’incontro tra Celan e Heidegger a Todtnauberg, nella baita. Celan scrisse in quell’occasione nel libro degli ospiti una frase che accenna all’attesa di una parola. Wenders/Kiefer rilevano che quella parola non è stata pronunciata.
Evidentemente l’ossessione nei confronti di Heidegger è pervasiva e sotterranea anche in un artista così disincantato come Kiefer. Quale parola si attendeva da Heidegger? Una parola di pentimento? Pentimento collettivo o individuale? Una parola di sottomissione ai vincitori? In realtà il punto non è questo, mai. Che ne siano o no consapevoli, i detrattori biografici di Heidegger – da distinguere dai critici teoretici più rigorosi – esercitano la loro moralità non sui «silenzi» e neppure sul «rettorato» ma su altro: sul fatto che per un filosofo di questa grandezza l’etica sia succedanea, secondaria, non necessaria. E invece io credo che anche qui, forse soprattutto qui, sta la grandezza di Heidegger: nell’aver tolto autonomia all’etica e nell’averne fatto la conseguenza dell’ontologia. Ci si comporta per come si è e non si cambia se non nei particolari; «operari sequitur esse», come ricorda anche Schopenhauer riprendendo Pomponazzi.
Secondariatà dell’etica rispetto all’ontologia che con altro linguaggio anche Carlo Emilio Gadda esprime con chiarezza: «Dopo rotto il déclic della molla organica interna, non c’è diti di Vescovo né virtù ed unzione di Sacramento che valga a rimontarne il tic-tac. Il gioco multiplo e avaro degli infinitesimi, delle minime elezioni accumulatrici, della dura disciplina selettrice, s’è scombinato in un blando desiderio di requie, s’è rilassato in un abbandono (alla lubido), o ne’ pisoli della vanità soddisfatta, s’è sdraiato in una eutanasia: l’essere è, da dentro, un morente: per cui la tromba la può suonare a perdifiato, ma suona invano» (L’Adalgisa, Garzanti,  2007, p. 280).
Heidegger ha rifiutato il primato etico della modernità e questo sembra ossessionare e nello stesso tempo affascinare molti interpreti. Ossessiona e affascina anche due artisti come Wenders e Kiefer capaci di cogliere, plasmare ed esprimere il male del mondo. Ancora un passo e capiranno che non c’è niente da chiedere a Heidegger ma c’è soltanto da capire, da conoscere, da sapere. 

Logos

Metto qui a disposizione il file audio della relazione che ho svolto a Chieti il 12.10.2023 in occasione del III Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica (l’audio dura 27 minuti).

Il titolo della relazione fa riferimento a un’esperienza teoretica e didattica vissuta in questi anni insieme all’Associazione Studenti di Filosofia Unict. Ho cercato di descrivere le motivazioni, le modalità e gli obiettivi che dal 2018 al 2023 ci hanno stimolato a leggere (e discutere) Proust, Dürrenmatt, Gadda, Céline, Manzoni, D’Arrigo.
Il titolo Logos fa riferimento in particolare a una risposta che ho dato durante la discussione seguìta alla relazione. Mi è stato chiesto infatti quale fosse l’elemento unificante di questa esperienza, che cosa gli scrittori studiati avessero in comune. Questi elementi sono naturalmente molti ma centrale è la gloria della parola, la capacità che i grandi narratori e poeti hanno di fare dell’esperienza dolorosa e tenace della vita uno strumento di comprensione e un’espressione di bellezza, il λόγος appunto.

Filosofia e Letteratura

Giovedì 12 ottobre 2023 terrò una relazione per il III Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica che si svolgerà a Chieti e a Pescara dal 12 al 14 ottobre.

Il tema del Convegno è Pensare (con) la letteratura. Temi e modelli di ‘filosofia della letteratura’ in prospettiva teoretica. Il mio intervento sarà incentrato sull’esperienza didattica e scientifica che dal 2018 organizzo con gli studenti di Unict e in particolare con i soci dell’ASFU. Il titolo è infatti Filosofia e letteratura. Un’esperienza teoretica e didattica e questo è l’abstract:

Su proposta dell’Associazione Studenti di Filosofia di UniCt (ASFU), da alcuni anni svolgo un ciclo di lezioni intitolato Filosofia e letteratura. Dal 2018 al 2023 le lezioni sono state dedicate a Proust, Dürrenmatt, Gadda, Céline, Manzoni, D’Arrigo. Si tratta di un’esperienza didattica assai proficua, nella quale i confini disciplinari mostrano ancora una volta la loro funzione utile sì ma limitata e strumentale. Come ambiti e luoghi dell’ermeneutica esistenziale, infatti, se praticate sul corpo vivo del testo, filosofia e letteratura mostrano l’identità della parola umana nella sua potenza disvelatrice e la differenza di modi espressivi che cercano di intuire e comunicare in forme diverse la complessità delle società dalle quali le opere scaturiscono, la potenza dei mondi che incarnano e manifestano, la costanza della condizione umana e la fecondità del pensiero che la indaga.

Noto, il Barocco, i palazzi

Il Barocco è Noto
Convitto delle Arti – Noto
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 29 ottobre 2023

Sale della mostra

Le ombre, i corpi che da esse emergono, il rosso e lo scuro, le forme circolari ed ellittiche, gli spazi densi di oggetti, le nature morte, gli strumenti musicali, i santi, i teschi, il desiderio, l’amore, gli sguardi, la luce.
Questi alcuni degli elementi del Barocco, pervasivi e presenti anche a Noto, nelle tre sale del Convitto delle Arti che ospitano una sola tela di Caravaggio – la Maddalena in estasi – e poi opere di italiani (Luca Giordano, Guido Reni, Mattia Preti, Guercino, Bernini, Pietro da Cortona), spagnoli (Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto), nordici (Rubens, van Dyck, Rombouts [è suo il Suonatore di Liuto dell’immagine di apertura]). Da queste opere spira come una potenza, la forza della vita che vuole essere felice nel preciso senso che vuole trovare un significato a se stessa, qualunque senso purché ci sia; forza unita al dramma dell’esistenza che una volta nata precipita ogni giorno verso il suo finire. Questa tensione, irrisolvibile se non nel nulla, crea l’enigma barocco, il suo fascino e la sua inquietudine nella pittura e in tutte le arti, scultura, musica, teatro, poesia, architettura. 

HP del sito del Palazzo del Castelluccio

Uscendo dalla mostra questa felicità e tale inquietudine diventano il «giardino di pietra» del quale parlava Cesare Brandi, diventano Noto, la città, i suoi palazzi, le chiese, le piazze, i teatri, i monumenti. Troppo noti e troppo belli per parlarne ancora qui.
Ma c’è un luogo che non è ancora così celebre e che invece è splendido: il Palazzo Di Lorenzo del Castelluccio edificato per una potente famiglia nel 1782, mantenuto sino alla morte dell’ultimo marchese, Corrado Di Lorenzo, avvenuta nel 1981, donato all’Ordine dei Cavalieri di Malta, istituzione religioso-militare assai ricca ma che lo ha lasciato nel più completo degrado. Dopo trent’anni, nel 2011, un francese, Jean Louis Remilleux, lo ha acquistato, restaurato, reso visitabile in quasi tutti i suoi ambienti: il piano nobile con la sua infilata di saloni, salotti, studioli, camere da letto, biblioteche; la piccola ma eloquente scuderia che poteva ospitare sino a otto cavalli in quattro spazi; le cucine al piano basso, buie e ricche di stanze, dove la servitù consumava i suoi pasti. E poi l’armonioso cortile e al di sopra un terrazzo che induce a sedersi, rimanere, studiare, godere come da una finestra il cielo turchese e le nuvole che sovrastano la città. Remilleux e i suoi architetti hanno conservato quanto più possibile gli ambienti, le pareti, i pavimenti di ceramica; hanno riempito le stanze di quadri, poltrone, tavoli, una panoplia di testimonianze di cultura materiale. E soprattutto e tramite tutto questo si ha la sensazione di attraversare un luogo reale non un museo, un luogo vissuto non un’icona, un luogo rispettato e amato da chi lo abita. Il palazzo è infatti la dimora quotidiana di Jean Louis Remilleux.
I secoli sembrano convergere, il tempo diventare un vortice, altra costitutiva metafora barocca. E infatti la mostra al Convitto delle Arti non si compone soltanto di opere e artisti del Seicento. La accompagnano le sculture di Giuseppe Agnello (1962) che tentano di coniugare l’umano e la Terra con una serie di figure antropomorfe impastate di alabastro, sale, gesso. Il titolo è Terra e cielo tra uomo e natura. Un terzo spazio espositivo si chiama Pop Garden ed è un’immersione negli anni Settanta con fiori, specchi, ridondanze, musiche di quel tempo, riflessi.

Il barocco risiede dunque nelle cose; come afferma Carlo Emilio Gadda, «barocco è il mondo, e il G.[adda] ne ha percepito e ritratto la baroccaggine» (La cognizione del dolore, Garzanti 1994 , p. 198).
In via Matteo Raeli, vicino a piazza XVI maggio e alla cosiddetta Villa d’Ercole, c’è una gelateria che si chiama L’artigianale. Gustare i gelati di Stefano Baglieri significa capire con i sensi (il gusto ma anche la vista) perché mai i dolci, alcuni dolci, sprigionino un sorriso. Un altro elemento della sensualità barocca.

Noto – il Municipio

 

 

«Così va spesso il mondo…»

Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021), avrò il piacere di dialogare su uno scrittore che leggo e amo sin da bambino, Alessandro Manzoni.
L’Associazione Studenti di Filosofia Unict dedica infatti quest’anno un ciclo a Manzoni contemporaneo. La sede è il Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania. Il primo appuntamento è per lunedì 21 marzo 2022 alle 16.
Parleremo di un romanzo che narra la vicenda umana come un susseguirsi di «legali, orribili, non interrotte carnificine» (cap. 32); descrive la logica profonda del potere, la corruzione capillare dei funzionari, dei sindaci, degli avvocati, la continuità e la collaborazione tra l’autorità legale e quella illegale; racconta la «svisceratezza servile» da parte della “gente comune” (cap. 22) che è una delle ragioni più profonde del dominio arbitrario, della tirannide, del conformismo.
E su tutto il vero motore del testo: quel prete con il quale l’opera si apre e si chiude; l’anima nera il cui orizzonte è limitato al proprio infimo ego in mondo pervicace, irredimibile, assoluto: Don Abbondio, così vile e dunque così cattivo perché così intellettualmente ottuso, così ferocemente legato a qualcosa che Carlo Emilio Gadda -lettore e ammiratore di Manzoni- definisce «l’io minchia».
E le guerre, le epidemie, gli innamoramenti, un’ironia disincantata, insieme calorosa e distante.
Insomma, Manzoni.

[Ho rilasciato un’intervista alla radio di Ateneo –Radio Zammù– a cura di Gloria Vincenti. La registrazione audio dura 8 minuti e la si può ascoltare sul sito della radio:
La “storia” raccontata da Manzoni rivive nel XXI secolo.]

 

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