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Carne


Sul numero dell’inverno 2015 della rivista Gli Altri Animali il medico Alessandra Gallana commenta lo studio sul rapporto tra cancro e alimentazione carnea diffuso dalla IARC (International Agency for Research on Cancer) e dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Nell’articolo (pp. 6-7) si legge, tra le altre cose, questo:
«Quale medico consiglierebbe mai il fumo, sia pur in quantità ridotte, sapendo con certezza scientifica che provoca uno dei peggiori tumori nell’uomo? Facendo un conto molto cinico, ma molto serio perché basato sulla percentuale indicata dalla IARC, su 110.000 nuovi malati all’anno in Italia, quasi 20.000 persone potrebbero evitare di ammalarsi semplicemente eliminando le carni rosse lavorate dalla loro tavola. Non è forse una buona ragione per smettere di consumarle?
[…]
Non a caso l’OMS e l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano affermano che una percentuale tra il 35 e il 40% dei tumori in generale sarebbe evitabile adottando un’alimentazione composta prevalentemente da cereali integrali, frutta, verdura e legumi, e che tale percentuale arriva al 70% nel caso del cancro all’esofago, dello stomaco e del colon-retto»

Mente & cervello 89 – Maggio 2012

Partiamo da una questione che ho più volte affrontato: il rapporto tra determinismo neuronale e libero arbitrio. Se ne parla in una delle recensioni di questo numero di Mente & cervello. Sempre più, infatti, diventa chiara l’importanza dei fattori cerebrali che rendono inevitabili dei comportamenti che di solito riteniamo liberi. Quando tali comportamenti sono criminali si pone il problema della punizione dei colpevoli di fronte alla loro “incapacità di intendere e di volere”. È così pervicace la psicologia della colpa da nascondere il fatto che la punizione dovrebbe essere relativa al danno che si produce -che è un fatto più oggettivo- e non, appunto, alla colpa che rappresenta invece un dato più ideologico, frutto di una specifica e relativa visione del mondo. Edipo era naturalmente innocente dal punto di vista della colpa -ignorava che Giocasta fosse sua madre e Laio fosse suo padre- ma viene giustamente punito per il danno arrecato alla città. Se non si abbandona il paradigma ebraico-cristiano della colpa il problema della punibilità giuridica diventerà sempre più spinoso e, di fatto, irrisolvibile.
Anche sulle questioni cosiddette “morali” dovremmo imparare da altre specie. È quanto suggeriscono i risultati della ricerca del primatologo Frans de Waal, il quale sostiene giustamente che non è corretto dire di una persona che si comporta male che ‘è un animale’, «e che dovremmo usare questa espressione per descrivere qualcuno che si comporta bene» (Intervista di D. Ovadia, p. 58). In generale questo etologo ha dimostrato che altre specie -quali gli scimpanzé, ma non solo- sono capaci di comportamenti pianificati e intelligenti, che nutrono un assai spiccato senso della giustizia distributiva, che provano «le stesse emozioni che proviamo noi, almeno quelli più vicini a noi. Ma anche i ratti, quando si stimolano con elettrodi le aree cerebrali che negli esseri umani sono attive in condizioni di paura, mostrano espressioni facciali congruenti con questo sentimento. I neuroscienziati non hanno alcun problema ad ammettere questo dato, mentre per alcuni psicologi comportamentisti è ancora un tabù. Per loro le emozioni animali non esistono. Eppure sappiamo che le femmine di babbuino emettono gemiti strazianti per settimane dopo la perdita della prole, e che nelle feci delle scimmie che hanno perso un congiunto si trovano elevati livelli di cortisolo, l’ormone dello stress» (60).

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Mente & cervello 79 – Luglio 2011

La relazione che intercorre tra il cervello umano e il linguaggio è uno degli eventi più affascinanti e complessi della natura. Infatti «la nostra capacità di svolgere compiti come quello di individuare il significato di una parola ambigua è frutto di milioni di anni di evoluzione», tanto da rendere la struttura del linguaggio «misteriosa persino per noi esseri umani, che pure ne padroneggiamo l’uso» (J.K. Hartshorne, p. 68). È anche per questo che ogni tentativo di realizzare robot dotati di parola, delle intelligenze artificiali capaci di parlare, è sempre miseramente naufragato. A metà del Novecento Alan Turing e dopo di lui altri studiosi pronosticarono che entro pochi anni il linguaggio dei robot sarebbe stato indistinguibile da quello degli umani. Ma «in realtà stiamo ancora aspettando. […] Un robot veramente dotato della facoltà della parola non sembra essere più vicino a realizzarsi rispetto ad altre fantasie tecnologiche tipiche del secolo scorso, come le città sottomarine o le colonie marziane» (Ivi, 66).

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