Skip to content


Romolo il Grande

Friedrich Dürrenmatt
Romolo il Grande
(Romulus der Große, 1949, prima rappresentazione a Basilea 23.4.1949)
In «Teatro», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Aloiso Rendi
Einaudi-Gallimard, Torino 2002
Pagine 181-256

Romolo detto Augustolo divenne imperatore di Roma all’età di sedici anni nel 475. Dopo un anno di governo abdicò ritirandosi nella villa di Lucullo in Campania. Con lui finì l’Impero poiché Odoacre, capo dei Germani, non si proclamò imperatore a sua volta ma Re d’Italia. In questa sua commedia, Dürrenmatt dilata il regno di Romolo di vent’anni, ne fa quindi un adulto e soprattutto ne costruisce il personaggio su una ambiguità che emerge soltanto con lo svolgersi degli eventi.
Romolo appare infatti all’inizio come una sorta di cinico un po’ superficiale e un poco clownesco, interamente dedito alle sue galline, alle quali ha attribuito nomi di re e imperatori e che segue nella quotidiana emissione o meno dell’uovo. La moglie Giulia, la figlia Rea e alcuni ministri sono inorriditi da un simile atteggiamento. Il Prefetto della Cavalleria Spurio Tito Manna cerca di parlare con lui dopo aver cavalcato per giorni e notti allo scopo di recargli la notizia dell’arrivo dei Germani ma Romolo non lo ascolta neppure. Al che il Prefetto urla che «Roma ha un imperatore infame!» (p. 207). Anche il fidanzato della figlia, Emiliano, fuggito dalla prigionia e dalle torture dei Germani, si convince che non ci sarà futuro per Roma senza la morte dell’uomo che la sta tradendo. E in effetti l’imperatore è convinto, e lo dice, che «Roma è già morta da un pezzo» (ibidem), tanto che il suo obiettivo consiste nell’affrettare tale morte causando il minor sangue e dolore possibili. A questo scopo Romolo non fa nulla, semplicemente, «lasciando cadere ciò che è destinato ad andare a pezzi e calpestando ciò che merita la morte» (223).
Emerge in questo modo la natura politica del comportamento apparentemente bizzarro e irresponsabile di Romolo, fondato invece sull’«arte di guardare le cose senza paura» e su «quella di compiere senza paura ciò che è giusto» (232). E compierlo a qualunque costo. Per questo, anche per questo, in realtà si tratta di un personaggio, come commenta il suo creatore, «che agisce con estrema durezza e spietatezza […], un tipo pericoloso che ha puntato sulla propria morte» (1204) provocando, se risulta inevitabile, quella di altri.
L’azione giunge al culmine, e svela in che cosa consista la grandezza di Romolo, nella parte finale, nel confronto tra Romolo che vorrebbe essere ucciso da Odoacre e Odoacre che vorrebbe sottomettersi a lui. Il dialogo tra questi due politici delinea una vera e propria filosofia della storia, intrisa di disincanto e di disprezzo verso il potere. Alla fine, infatti, Odoacre accetta di essere nominato Re d’Italia come ultima decisione dell’imperatore e Romolo accetta di non essere ucciso e andare in pensione. I due concordano sul recitare la commedia del potere: «Facciamo finta che, a questo mondo, i conti tornino e che nell’uomo lo spirito possa vincere sulla materia» (254). Un’osservazione, quest’ultima, di natura antropologica e ontologica che conferma la trama interamente filosofica della narrativa e della drammaturgia di Dürrenmatt.
Di fronte ai capi germanici, convocati da Odoacre per rendere omaggio all’imperatore, Romolo dichiara che:

l’imperatore scioglie il suo Impero. Guardatela per l’ultima volta questa sfera multicolore, questo segno di un grande impero, sospesa nello spazio, sospinta dal lieve alito delle mie labbra; guardate le terre che si estendono intorno al mare azzurro in cui danzano i delfini, guardate le ricche provincie biondeggianti di messi, le città affollate traboccanti di vita: era un sole che riscaldava gli uomini, e che giunto al suo culmine, bruciò tutto il mondo, per poi divenire adesso, nelle mani dell’imperatore, un globo leggero, che si dissolve nel nulla (255).

Dürrenmatt riafferma così il suo anarchismo, seppure moderato, dichiarandosi non contro lo Stato in quanto tale ma contro lo Stato che commette crimini e soprattutto lo Stato di grandi dimensioni. In ogni caso, «nei confronti dello Stato bisogna essere astuti come serpenti ma mai, per carità, miti come colombe» (1205). Un consiglio di grande fecondità anche per il presente, come sempre.

La Valle del Caos

Friedrich Dürrenmatt
La Valle del Caos
(Durcheinandertal, 1989)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Giovanna Agabio
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 587-681

Sfrenata, imprevedibile, feconda, allucinata, implacabile è la fantasia che in questo libro si scatena. Credo di non aver mai letto un testo nel quale a ogni pagina, in qualunque momento, a ogni riga può succedere di tutto come in questo romanzo dove accade veramente qualsiasi cosa. Ne vengono coinvolti, descritti e travolti i contadini di una irraggiungibile vallata svizzera, la Valle del Caos appunto il cui titolo originale potrebbe essere più letteralmente tradotto come valle del guazzabuglio, del disordine, della confusione.
E la confusione regna infatti dappertutto. Confusione tra gli ambienti, che passano dalla costa atlantica degli Stati Uniti d’America – con i suoi gangster più famosi, più gelidi e più rozzi – alle crociere sul Nilo; dalle sedi senza patria delle grandi multinazionali alla Svizzera, «il paese più impenetrabile della terra. Nessuno sa chi è padrone di qualcosa, chi gioca con chi, chi ha le carte in tavola e chi le ha mescolate» (p. 635).
Confusione tra i personaggi, che cambiano volto, alla lettera, attraverso la chirurgia estetica ma anche e specialmente nella sostanza delle loro identità, del loro numero, della loro funzione.
Confusione tra quadri perfettamente falsi venduti come autentici e dipinti autentici spacciati per falsi.
Confusione tra le forze dell’ordine – vigili urbani, polizia, esercito – che dispiegano un enorme apparato di repressione con il solo intento di giustiziare un cane.
Confusione tra la morale e il crimine che appaiono quali sono, vale a dire due aspetti della stessa ferocia, com’è evidente nella Boston Society for Morality che dà vita alla Swiss Society for Morality, entrambe «qualcosa di vago, esattamente come la maggior parte delle associazioni con nobili scopi» (603). Associazioni che edificano in uno sperduto villaggio svizzero una casa di riposo stagionale chiamata Casa della povertà, riservata a gente ricchissima che per alcuni mesi vive in estrema povertà, salvo poi tornare al proprio lusso: «Una vera e propria fissazione di vivere poveramente colse i milionari e le vedove dei milionari, c’erano direttori generali che facevano i letti, banchieri privati che passavano l’aspirapolvere, grossi industriali che apparecchiavano i tavoli in sala da pranzo, manager di prim’ordine che pelavano patate, vedove di multimilionari che cucinavano e si occupavano della lavanderia, sceicchi e magnati del petrolio che falciavano l’erba, sarchiavano, vangavano, segavano, martellavano, piallavano, verniciavano e per questo pagavano prezzi favolosi» (618).

A dare redenzione e conforto a tali milionari è un pastore di nome Moses Melker, uomo di rara bruttezza, «uno schiavo negro fuggiasco grasso e di pelle bianca, con un abito da cresimando e una valigetta in mano»  (664), una specie di parente dei neandertaliani e anche assassino seriale delle sue mogli, ma ora dedito alla missione di convertire i ricchi e che per questo elabora una teologia il cui testo fondatore (in fieri) ha per titolo Prezzo della grazia (Preis der Gnade). Melker costruisce una teologia per la quale i poveri sono di per sé meritevoli della salvezza mentre i ricchi devono tutto alla misericordia del «Grande Vecchio» e per questo i ricchi sono i veri destinatari del perdono e della Grazia. E non soltanto i ricchi ma anche gli umani più crudeli, i delinquenti più accaniti, i farabutti, i sadici, i criminali. In loro e soltanto in loro splende la potenza del Signore.

Infatti, se la grazia fosse meritata non sarebbe più grazia bensì ricompensa. La grazia era la cruna dell’ago attraverso la quale non soltanto un cammello, bensì tutti loro potevano passare, loro che erano riuniti lì a lamentarsi della maledizione della ricchezza. Davanti al Grande Vecchio gli ultimi erano i primi e i poveri erano i ricchi, i poveri erano in possesso della grazia e i ricchi maledetti. Ma chi possedeva la grazia non ne aveva bisogno poiché la grazia era già in lui, e quindi la grazia era riservata a loro, i ricchi, i maledetti, i sazi, la grazia con cui venivano incoronati come la sola feccia dell’umanità che ne aveva bisogno (617).

La Grazia essendo del tutto arbitraria, il cuore della teologia di Melker consiste pertanto «nel riconoscimento che nulla potesse giustificare la grazia» (595-596).
Come si vede, si tratta di una teologia anch’essa sfrenata; insieme evangelica e machiavellica, gesuitica e luterana. Teologia di un Dio talmente onnipotente e universale da includere nella propria stessa identità la miseria e il male, un Dio del tutto volontaristico (al modo di Ockham e oltre Ockham), che «avrebbe saputo creare una pietra che non riusciva a sollevare, oppure ritrasformare le cose accadute in non accadute» (590), che poteva fabbricare orologi «con quindici ore, in cui ogni ora durava trecento minuti e ogni minuto quarantacinque secondi, ma anche i secondi non erano uguali; alcuni secondi duravano tre quarti di secondo, altri sette minuti» (608). Un Dio il quale riusciva dunque certamente anche a conciliare la propria essenza di Grazia con quella di «Dio senza barba» vale a dire del più infame tra i malviventi.
Se chiediamo infatti «perché il buon Dio è così ingiusto, se appunto è un buon Dio […] se tutto è così ingiusto con gli uomini e con la natura» (656) è perché «il Grande Vecchio è pensabile solo come criminale» (676), il quale nella sua versione cristiana è «ancora più astratto del padre, ma anche qualcosa di lezioso, un redentore di marzapane sulla croce. […] Un Dio che si lascia crocifiggere fa la commedia» (679).
Un romanzo teologico e grottesco, un romanzo dunque barocco e gaddiano nei contenuti anche se non nella lingua, che è sempre classica e ironicamente perfetta. Il finale è epico; davvero ‘una risata vi estinguerà’ sembra dire il Grande Vecchio alla nostra specie.

Il giudice e il suo boia

Friedrich Dürrenmatt
Il giudice e il suo boia
(Der Richter und sein Henker, 1952)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 7-91

«Che cos’è l’uomo? Che cos’è l’uomo?» (p. 55) si chiede il Commissario Bärlach (e con lui Dürrenmatt). Le possibili risposte sono assai numerose, diverse, anche molto diverse. L’uomo è un enigma semplice. I movimenti che lo agitano sono infatti sempre gli stessi e ormai sono ben conosciuti. Le passioni che lo intridono sono antiche e anche un poco ripetitive. La gelosia, ad esempio. Una delle passioni più diffuse nelle relazioni umane, insieme all’invidia. Invidia e gelosia sono passioni che hanno una legittima funzione anche etologica ma che non per questo, almeno al livello di consapevolezza e di civiltà al quale siamo arrivati, sono meno meschine.
Un uomo diventa talmente «geloso delle capacità, del successo, della cultura, della ragazza» (88) di un altro uomo da non vedere più davanti a sé che l’eliminazione dell’oggetto della sua gelosia.
Un altro uomo è così convinto della propria legittimità al dominio da cominciare a uccidere soltanto per vincere «la scommessa» di «commettere un delitto in tua presenza senza che tu fossi in grado di provarlo» (53).
Le diverse passioni di questi umani deflagrano quando in un piccolo perimetro della Svizzera intorno al Giura e a Berna un tenente di polizia viene trovato ucciso nella propria auto con un colpo alla tempia, in una stradina vicina a un bosco. Comincia allora l’opera del Commissario Bärlach, intramata e intessuta del «male [che] l’aveva sempre ripreso nel suo cerchio, il grande enigma, una fascinosa tentazione di risolverlo» (29).
Di fronte alle persone che del male si fanno veicolo e sostanza, davanti al loro agitarsi o al loro autocontrollo, al loro freddo sudore o a una fragorosa risata, gli occhi di Bärlach diventano «come pietre» (36), si fanno «calma sovrumana, una tigre che giuoca con la vittima» (87), si erigono a giudice che condanna il colpevole e conduce alla morte anche il suo boia: «Ti ho già giudicato, ti ho condannato a morte. Tu non vivrai oltre questa sera. Il boia che ho scelto per te verrà oggi a cercarti» (77).
Nell’apparenza di un vecchio commissario malato, al quale i medici non danno più di un anno di vita, Bärlach è un demone guidato dall’ossessione della vendetta e della giustizia, di una vendetta che è giustizia; è un antropologo che sa come nell’umano «sono sempre possibili due cose, il bene e il male, è il caso che decide» (63); è un’entità che sta «al centro della stanza, in una solitudine gelida e remota, immobile e impassibile» (69); è «un cuore lacerato da un fuoco feroce», la cui «unica grazia» è dimenticare (84).
Molto al di là del ‘poliziesco’ e tuttavia in esso perfettamente a suo agio, lo sguardo e la scrittura di Dürrenmatt hanno disegnato in Bärlach la luce e il silenzio della materia, luce e silenzio protagoniste dell’incontro con il cadavere del suo nemico: «La luce era comune a tutti, anche a loro due, era stata creta per loro, ora li riconciliava. Il silenzio del morto penetrò in Bärlach, gli si insinuò nel sangue, ma non gli dava pace, come invece l’aveva data all’altro. I morti hanno sempre ragione» (83). Perché i morti sono il nostro destino. L’esistenza stessa è il giudice e il suo boia.

I fisici

Friedrich Dürrenmatt
I Fisici
(Die Physiker, 1962-1985)
A cura di Aloisio Rendi
Einaudi, 1988
Pagine 87

Insieme alle matematiche la fisica è espressione di un supremo ordine nelle scienze e nel mondo. E tuttavia l’esistenza è anche e soprattutto una forma di disordine, come la termodinamica (che è parte della fisica) efficacemente mostra. Tale ambiguità interna al mondo e dunque anche alla fisica appare manifesta nella vicenda di tre fisici pazzi chiusi in un manicomio di lusso, dei quali due si credono rispettivamente Newton e Einstein e il terzo dichiara di ricevere le sue formule, conoscenze e leggi dal Re Salomone che sempre gli appare.
Si chiama Möbius, quest’ultimo, e le carte che Salomone gli ispira costituiscono la soluzione nuova e del tutto sconvolgente della teoria del campo come teoria unitaria delle particelle elementari, della legge di gravitazione, del sistema di tutte le invenzioni possibili. I tre fisici uccidono, strangolandole, le infermiere che li hanno in cura. Durante il serrato dialogo che accompagna una cena emergono in realtà le ragioni di questi assassini, il cui «scopo è il progresso della fisica» (p. 68). Nessuno di loro sembra quindi realmente folle. Ai due colleghi che si trovano in quel luogo perché hanno il compito di carpire i segreti di Möbius, quest’ultimo dichiara che ha dovuto fingersi pazzo per evitare che le sue scoperte e teorie offrissero all’umanità, agli Stati, ai governi una potenza distruttiva senza pari. «La nostra scienza», infatti, «è divenuta terribile, la nostra ricerca pericolosa, le nostre scoperte, letali. […] Solo nel manicomio siamo ancora liberi. Solo nel manicomio ci è ancora permesso di pensare. In libertà, i nostri pensieri sono dinamite» (70). Finta è dunque questa follia? Forse. Ma la direttrice del manicomio, la dottoressa Mathilde von Zahnd – una vergine gobba -, appare più folle di loro e si appropria delle conoscenze di Möbius, credendo forse davvero che gliele abbia rivelate il Re Salomone.
Questo vortice di razionalità paradossale e di ordinata follia è sotto il segno del grottesco e del caso ma la sua scrittura da parte di Dürrenmatt è motivata nel sedicesimo dei «21 punti su ‘I fisici’», il quale recita: «Il contenuto della fisica riguarda solo i fisici, i suoi effetti riguardano tutti» (83). Effetti che nascono dalla follia non dei fisici ma del mondo. È infatti «nel paradosso [che] si rivela la realtà» (punto 19, p. 84).
Ancora una volta scintillante e tragico, Dürrenmatt.

Da Rousseau all'ingegneria genetica

Hanna
di Joe Wright
Con: Saoirse Ronan (Hanna), Cate Blanchett (Marissa Wiegler), Eric Bana (Erik Heller), Tom Hollander (Isaacs), Jessica Barden (Sophie)
Sceneggiatura di  Seth Lochhead e David Farr
Usa, Gran Bretagna, Germania, 2011
Trailer del film

Hanna e suo padre Erik vivono a un centinaio di chilometri dal Circolo polare artico. Abitano in una casa di legno priva di elettricità. Si nutrono degli animali che catturano con le frecce. Leggono enciclopedie e favole. Studiano molte lingue. La ragazzina non ha conosciuto altro. Arriva il momento nel quale Hanna è pronta a entrare nel mondo, dove l’attende un’agente della CIA, Marissa, che farà di tutto per ucciderla. Lei lo sa e si è ben preparata, anche se ignora le vere ragioni per le quali Marissa la vuole morta. L’inseguimento si snoda tra le foreste polari, il deserto del Marocco, la Spagna. Per concludersi a Berlino, nel parco dedicato ai personaggi dei fratelli Grimm.

In un breve e magnifico racconto di Friedrich Dürrenmatt -intitolato Il figlio– si narra di un bambino allevato dal padre alla maniera dell’Emilio con un esito catastrofico. Un bel film di Luc Besson -dal titolo Léon– descrive il rapporto tra un killer di professione e una ragazzina, entrambi alla ricerca di giustizia e di affetto. Le favole dei fratelli Grimm sono delle potenti metafore il cui tema è l’attraversamento dell’enigma, dell’oscurità, dell’inquietudine in cui consiste il crescere degli umani. Queste fiabe tornano di continuo in Hanna, insieme alla furia, al gelo, alla tenerezza. La spettacolarità degli scontri fisici e l’intensa recitazione  della sedicenne Saoirse Ronan –un insieme di dolcezza e di forza quasi sovrumana, di determinazione assoluta e di tenerezza infantile- non salvano però il film dalla superficialità dell’insieme. Come già in Espiazione, Joe Wright mostra ambizioni superiori ai risultati. Alcune scene sono tuttavia assai dense: il momento in cui Hanna scopre l’elettricità e non riesce a fermare gli infernali elettrodomestici; l’interrogatorio nel bunker della CIA; la battuta con la quale il film inizia e si chiude: «Ti ho mancato il cuore».

 

Romolo il Grande

di Friedrich Dürrenmatt
Teatro Carcano – Milano
Con Mariano Rigillo, Roberto Pappalardo, Anna Teresa Rossini, Antonio Fornari, Francesco Frangipane, Luciano D’Amico, Alfredo Troiano, Francesco Sala, Martino Duane
Regia Roberto Guicciardini
Produzione Doppiaeffe
Sino al 15 marzo 2009

romolo_grande_310

Idi di marzo del 476. Nella sua villa di Sorrento, Romolo imperatore non si preoccupa delle notizie che arrivano prima da Pavia e poi da Roma e che annunciano l’arrivo dei Germani vincitori. Piuttosto, cura il suo pollaio -alle cui galline ha dato i nomi dei suoi predecessori- e cerca di tenere a bada sia i traditori che passano al nemico (e sono tanti) sia gli ultimi eroi di Roma. Quando finalmente arriva Odoacre, è pronto a morire ma il capo dei barbari desidera solo essere nominato da lui Re d’Italia. Con la corte ormai in fuga -e annegata nel tentativo di fuggire in Sicilia- Romolo accetta la pensione e proclama la fine dell’Impero.

«Una commedia storica che non si attiene alla storia», la definì il suo autore.

leggi di più
Vai alla barra degli strumenti