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L’École des femmes

di Molière
Teatro Strehler – Milano
con Daniel Auteuil, Jean-Jacques Blanc, Bernard Bloch, Michèle Goddet, Pierre Gondard, David Gouhier, Charlie Nelson, Lyn Thibault
scene Jean-Paul Chambas
regia Jean-Pierre Vincent
produzione Studio Libre – Odéon Théâtre de l’Europe

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Una regia e delle scene molto sobrie bastano a rendere ancora una volta contemporaneo uno dei più profondi e feroci testi di Molière. La vicenda di Arnolphe e della sua pupilla appare, infatti, anche come una parodia demistificante del comportamentismo, di quella illusione di onnipotenza dell’educatore sull’educando che fece scrivere a Watson: «Datemi una dozzina di neonati di sana e robusta costituzione fisica e lasciate che li tiri su in un mondo scelto da me e garantisco che di qualunque di loro potrò fare qualunque cosa: medico, avvocato, artista, capovendite, e, sì, persino straccione o ladro, indipendentemente dalle sue capacità, tendenze, inclinazioni, abilità, vocazioni, e dalla razza dei suoi antenati» (Behaviorism, Norton, New York 1930, p. 104). Il tutore che pretende di fare di una ragazza la propria marionetta si merita la beffa ideata da Molière. E così la meriterebbero le frotte di pedagogisti e tecnologi della didattica che vanno ripetendo le litanie del “successo formativo” e della esclusiva responsabilità degli insegnanti sui risultati dei loro allievi…Le persone, infatti, sono vive, libere, diverse e fatte a modo proprio, come è libera l’Agnès di Molière.

A un regista abile e intelligente bastano pochi particolari per rendere comunque non banale la messinscena di un classico: un sacchetto di carta da grande magazzino, degli occhiali da sole, la pietra lanciata da Agnès e che da allora rimane sempre sul palco, a ricordare l’ambiguità di ogni gesto. E poi l’eccellente recitazione della Compagnia, con una Lyn Thibault naturalissima nella sua ottusa ma sempre più consapevole ingenuità e un Daniel Auteuil capace di toccare molte corde e di far ridere come il più navigato attor comico.
E su tutto, naturalmente, la bellezza del francese quotidiano e poetico di Jean-Baptiste Poquelin.

I pretendenti

Les Prétendants (1989)
di Jean-Luc Lagarce
Teatro Studio – Milano
Sino al 18 febbraio 2009
Traduzione di Gioia Costa
Regia di Carmelo Rifici

con: Paola Bacci, Francesca Ciocchetti, Francesco Colella, Pierluigi Corallo, Giovanni Crippa, Massimo De Francovich, Angelo De Maco, Gianluigi Fogacci, Alessandro Genovesi, Elena Ghiaurov, Melania Giglio, Giorgio Ginex, Marco Grossi, Sergio Leone, Michele Maccagno, Bianca Pesce, Bruna Rossi

Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

pretendenti

 

In una città di provincia arriva un funzionario del Ministero per presiedere la riunione del locale circolo culturale, convocata per scegliere il nuovo direttore. Sullo sfondo di una consolidata cortesia formale emergono aspirazioni, gelosie, scontri privati e professionali. La soluzione era stata individuata prima ancora che la riunione iniziasse…

Diciassette attori sulla scena. Un testo senza protagonisti, dalla struttura corale e cinematografica. L’attenzione si sposta da un punto all’altro senza mai sovrapporsi, le stesse scene vengono a volte ripetute con inversioni spaziali e quindi da punti di vista diversi. Un’impresa, insomma. Che il giovane regista Carmelo Rifici riesce a portare a termine con strumenti semplici e raffinati. A Jean-Luc Lagarce (1957-1995), Ronconi sta dedicando un progetto teso a far conoscere anche in Italia un drammaturgo capace di far risorgere la scrittura teatrale dall’afasia finale dei grandi autori dell’assurdo. I pretendenti è una potente metafora della lotta quotidiana, della sottigliezza astuta del potere, dell’infelicità alla quale l’ambizione conduce. Della miseria umana, insomma. Ma tutto questo detto con un linguaggio essenziale, tagliente, a volte divertito.

Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti

Milano – Palazzo Reale

Divisionismo e pointillisme hanno rappresentato la grande svolta nel passaggio dall’arte ottocentesca a quella contemporanea. Definiti anche come neoimpressionisti, Seurat, Lucienne Pissarro, Luce, van Rysselberghe, Cross, Delavallée, Angrand, Signac partono sì dai maestri dell’Impressionismo ma arrivano a esiti del tutto originali. È quest’ultimo -Paul Signac- l’artista principale della mostra. Nelle sue opere diventa chiarissimo come i punti di colore sparsi sulla tela con grande rispetto per le leggi della pittura -contrasto, mescolanza, gradazione- lascino ai processi cerebrali di chi guarda la formazione dei volumi e degli sfondi.

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Stella

di Sylvie Verheyde
Francia, 2008
Con Léora Barbara (Stella), Karole Rocher (la madre di Stella), Benjamin Biolay (il padre di Stella ), Melissa Rodriguez (Gladys), Laetitia Guerard (Geneviève).

stella

Stella è una bambina. Stella è una donna. Stella è sensuale e candida, ha paura di tante cose ma nessuno se ne accorge, è sola -molto sola- ma ha due amiche vere. Stella frequenta la prima media in una scuola parigina “per ricchi” ma vive in un bar gestito dai suoi genitori, che litigano sempre. Un bar frequentato da malviventi, disoccupati, giocatori, alcolizzati. Dice di se stessa che «sa tutto del calcio, dei cocktail, di come si fanno i bambini, di come si scopa, di chi fidarsi e di chi no; per il resto, sono una schiappa». Stella va molto male a scuola, soprattutto in francese, ma comincia a leggere Balzac e Duras e sa che quella particolare scuola è «un’occasione da non perdere». Stella è bella.

Stella è diventata la regista di questo film e sa raccontarsi senza sentimentalismi e senza giudicare. Sylvie Verheyde costruisce il film con una regia strepitosa che rende dinamiche e imprevedibili delle scene molto semplici e ripetitive, a scuola al bar in vacanza. Nessun campo lungo e molti primi piani, la cinepresa va dentro ciò che accade anche quando sembra non accadere nulla. Momenti chiave la corsa di Stella e il suo ascoltare e ripetere una canzone nella solitudine della propria camera. Un film autobiografico non per ciò che racconta ma per il modo -magistrale- in cui lo fa.

Nouveau Réalisme

Il Nouveau Réalisme dal 1970 ad oggi. Omaggio a Pierre Restany
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
Sino al 1 febbraio 2009

Pierre Restany (1930-2003) inventò la formula e quindi diede un nome collettivo all’opera di artisti come Arman, Niki de Saint Phalle, César, Rotella, Tinguely, Spoerri, Hains, Dufréne, Villeglé, Deschamps, Christo. Il gruppo fu attivissimo e si sciolse con un celebre autofunerale a Milano nel 1970. Ma quel modo di concepire l’evento artistico era troppo fecondo e infatti quasi tutti questi personaggi hanno continuato a operare nei modi del Nouveau Réalisme.

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Ironia, trionfo della merce come trionfo della morte, utilizzo di materiali di ogni genere, compressioni, accumulazioni, décollages, mescolanze tra l’arcaico e il contemporaneo. Si parte dal vecchio Duchamp ma si va oltre, molto oltre. L’arte si è dissolta, è vero -come ritengono tradizionalisti e benpensanti- ma non è morta. È diventata tutto. Basta isolare un frammento dell’essere, basta impacchettarlo o metterlo dentro una cornice e l’evento estetico accade. Ma se questo è possibile, è perché l’intero mondo è tale evento. L’arte è contaminazione, è la totalità espressiva del reale, è l’ibridazione dell’antroposfera con la teriosfera, la tecnosfera, la teosfera. Ques’ultimo elemento emerge assai chiaro nelle più rcenti creazioni di Daniel Spoerri: Gli Idoli di Prillwit sono proprio tali, e cioè forze della materia, enigmi potenti, totem da venerare. Opere quali Capra ermafrodita, Tamburo con macchina da scrivere, Morte falciante, possiedono la magia di antiche terre plasmata nella materia del presente.

Una mostra nella quale si sente battere il cuore dell’arte diventata ciò che è: puro e molteplice significante.

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Le relazioni pericolose

Teatro Litta – Milano
Le relazioni pericolose
da Pierre Choderlos De Laclos (Les Liaisons dangereuses, 1782)
Adattamento e regia di Silvia Giulia Mendola
Con: Paolo Andreoni, Andrea Dezi, Lorenza Pisano, Cinzia Spanò, Greta Zamparini
Coproduzione Litta – Compagnia PianoinBilico
Sino al 31 dicembre 2008

La vanità conta più del piacere, poiché essa si spinge fino all’assurdo di negare a se stessa il piacere se quest’ultimo sembra mettere a rischio uno smisurato amor di sé. La marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont sono due divinità in lotta fra di loro per il possesso del cuore dei mortali. Due divinità non di pari livello, però. Il visconte vive quasi sempre di riflesso rispetto all’energia, alla determinazione, alla prudenza e al gelo della marchesa, la quale arriva esplicitamente a descriversi coi tratti del divino: «eccomi diventata una Divinità, che riceve le opposte suppliche dei ciechi mortali e non cambia nulla dei suoi decreti immutabili» (lettera LXIII).
Si costruiscono senza posa relazioni, si ordiscono intrecci e rapporti con l’obiettivo di possedere il tempo e il corpo dell’oggetto bramato ma tutto ciò si realizza a danno del sentimento. L’idea stessa di innamorarsi suscita terrore coincidendo essa con il ridicolo, suprema offesa alla vanità. Quando la passione compare, nella Signora di Tourvel, non può che assumere i tratti dell’idolatria, della rinuncia totale al sé in favore di un dio: «io l’amo fino all’idolatria e non l’amo ancora quanto merita» (let.CXXXII).
Il romanzo di Choderlos De Laclos è intessuto di una psicologia penetrante e capace di smascherare la genealogia dei sentimenti morali, à la Nietzsche. Quando, ad esempio, Valmont benefica una famiglia contadina allo scopo di apparire in una luce migliore davanti a Madame di Tourvel, osserva di essere stato stupito dal «piacere che si prova a fare il bene; e sarei tentato di credere che quelle che noi chiamiamo persone virtuose non hanno poi tutto quel merito che tutti si compiacciono di metterci davanti agli occhi» (let. XXI). La gratificazione del sé, inevitabile in ogni azione virtuosa, mette quindi in discussione la virtuosità dell’agire. Allo stesso modo, la bontà viene fatta scaturire dalla debolezza; chi non ha artigli si vanta d’essere mite quando la vera magnanimità implica la capacità di colpire e l’astenersi dal farlo: «Ecco gli uomini: tutti uguali, nella scelleratezza dei loro piani, chiamano probità la debolezza nel portarli all’attuazione» (let. LXVI).

L’amore che c’è, l’amore che manca, l’amore irriso, l’amore idolatrato, l’amore cercato, l’amore temuto…ma cos’è per Laclos questo sentimento? Esattamente quello che è per Proust, il riflesso della nostra tenerezza: «l’incanto che crediamo di trovar negli altri esiste solo in noi; e soltanto l’amore fa apparire così bello l’oggetto amato»; a dirlo è, naturalmente, la marchesa di Merteuil (let. CXXXIV).
Di questo tessuto di passioni e di gelo, la messinscena del Litta coglie le geometrie inevitabili, a partire dalla scacchiera nella quale i personaggi si muovono con meccanicità da burattini: davvero, come ripete Valmont nel suo tragico mantra, «trascende ogni mio controllo» (let. CXLI). Impressione rafforzata dai balli. I cinque personaggi, infatti, danzano i tanghi di Astor Piazzolla, movimenti che più di ogni altro coniugano ardore e geometria.
Efficace anche l’idea di far diventare parte della scena brani delle lettere, a sottolineare come questi uomini e queste donne siano fatti di parole e dunque quanto potente la parola sia.
Siamo naturalmente su un livello molto diverso dal magnifico Quartett di Heiner Müller messo in scena da Wilson qualche anno fa ma lo spettacolo di Silvia Mendola ha tutta la freschezza del desiderio.

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