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Scuola del crimine

Sul numero di maggio 2010 del mensile Nuova Secondaria leggo un breve articolo dedicato agli insegnanti francesi che a Vitry-sur-Seine hanno compiuto un vero e proprio “ammutinamento”, sospendendo i corsi a causa del clima di assoluta insicurezza personale in cui sono costretti a lavorare: «All’ombra di compassate pedagogie imperversano allievi alla soglia del crimine. (…) Passate in corridoio, e vi lanciano insulti e gesti di minaccia. State spiegando, spalancano la porta, succede tre volte, quattro volte al giorno, un ragazzo mette la testa dentro, parla con qualcuno, senza badarvi. Ormai molti di noi si chiudono dentro a chiave. Dobbiamo fare i poliziotti, perché nei corridoi si urla, ci si scontra, ci si batte, le porte delle aule vengono prese a calci» (pp. 16-17).
Nel pieno della pratica sessantottina, Pasolini scriveva che gli studenti «sono regrediti -sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita- a una rozzezza primitiva (…) lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare» (Lettere luterane, Einaudi 1976, pp. 8-9).

Viziati e protetti in modo osceno dai loro genitori, blanditi dal mercato e dalla pubblicità, decerebrati da dosi massicce di televisione e videogiochi, coccolati a ogni lacrimuccia e giustificati a ogni aggressione da professori-amici e da professoresse-mamme, adulati da tecniche pedagogiche alle quali si può ben applicare l’ironia di Schopenhauer -«nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante» (Parerga e Paralipomena, Adelphi 1981, tomo I, p. 647)-, innumerevoli studenti rappresentano un settore della società fra i più violenti e conformisti, pervaso da una crudeltà gratuita e giocosa, da un’arroganza teppistica. A queste persone è sempre più difficile rivolgersi con parole che abbiano un qualche significato. I ragazzi vi sostituiscono il puro niente del significante, dell’urlo onomatopeico e idiota.

Troppi professori (dei pedagogisti non mette conto di parlare) hanno dimenticato le sagge riflessioni di Antonio Gramsci: «il ragazzo che si arrabatta con la storia e la matematica si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. (…) La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”». (Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117). Sta qui la vera radice della fine della scuola. Un’istituzione che regala diplomi e lauree a dei sostanziali analfabeti merita davvero di scomparire.

Lire Proust

LIRE, Marcel Proust
Hors-Serie n. 8
Paris, 2009
Pagine 98

«En fait, Proust est un auteur simple, c’est la réalité qui est complexe», afferma Jean-Yves Tadié nell’intervista rilasciata per questo numero monografico di Lire (pag. 19). Numero bellissimo per le splendide fotografie, per le tante notizie e soprattutto per la ricchezza delle analisi.

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La matematica del silenzio

La matematica del silenzio
di Federico Bertozzi
Spazio Teatro 89 – Milano
con Debora Migliavacca Bossi
Musiche originali di Stefano Scarani
Sino al 23 ottobre 2009

Quanto è grande Domrémy, il paese dove nacque Giovanna d’Arco? Oggi ha 167 abitanti; quanti erano nel 1412, anno di nascita della ragazza? Il silenzio avvolgeva i faggi, i boschi, i luoghi. In quel silenzio Jehanne Darc sentiva le voci delle sante e dell’arcangelo Michele che la esortavano, costringevano, alla guerra. Tali voci si intrecciarono alle ambizioni della famiglia, all’influenza di monache potenti e dell’ordine francescano, al ricordo di profezie riguardanti una vergine che avrebbe salvato la Chiesa e la Francia. E importante strumento delle vittorie di Giovanna fu Gilles de Rais, uno degli uomini più crudeli di ogni tempo, uno stupratore e massacratore di bambini. Mentre viene processata, la ragazza si addolora delle «tre frecce» che la uccidono: l’odio degli inglesi, l’ambigua debolezza del Delfino ma soprattutto il tradimento della Chiesa.
L’«ipotesi inconsueta sul trionfo e sull’ombra di Giovanna d’Arco» -questo il sottotitolo dello spettacolo- è dunque che parola e silenzio, luce e ombra, esaltato misticismo e indicibile ferocia, esattezza ed entropia, si coniughino in una delle vicende più singolari e insieme più emblematiche della storia dell’Europa cristiana. Ai due personaggi -Jehanne e Gilles- dà voce e corpo Debora Migliavacca Bossi, capace di accordare gesti, suoni, tensione nella dolce durezza di questa storia estrema.

Monet. Il tempo delle ninfee

Milano – Palazzo Reale
Sino al 27 settembre 2009

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Il giardino di Claude Monet a Giverny, le stampe giapponesi delle quali fu appassionato collezionista, le fotografie quasi indistinguibili dalle stampe, la foto di Nadar che ritrae lo sguardo dell’artista come fosse scolpito, un filmato che lo vede al lavoro. E ovunque, nelle sale di Palazzo Reale, la vibrazione delle forme e dei colori, le ninfee come segno e promessa di un segreto che sta nella luce e nell’occhio che la assorbe. L’artista scrisse che «tutti i miei sforzi sono volti a realizzare il maggior numero possibile di immagini intimamente collegate a realtà sconosciute». Un dipinto dal titolo Glicine (1919-20) sembra finalmente cogliere e restituire le sfumature più intime della realtà e dello sguardo, della sintesi attiva che la mente compie sul mondo.

E sono soprattutto le quattro versioni qui presenti del Ponte giapponese a esprimere l’identità profonda della materia con la percezione/visione. In questi dipinti la figura si frantuma e si dissolve progressivamente in impressione pura del colore. A proposito delle sue ninfee, Monet disse una volta a Thiébault-Sisson che «l’effet, d’ailleurs, varie incessamment. Non seulement d’une saison à l’autre, mais d’une minute a l’autre, car ces fleurs d’eau sont loin d’être tout le spectacle; elles n’en sont, à vrai dire, que l’accompagnement. L’essentiel du motif est le miroir d’eau dont l’aspect, à tout instant, se modifie grâce aux pans de ciel qui s’y reflètent, et qui y répandent la vie et le mouvement. Le nuage qui passe, la brise qui fraîchit, le grain qui menace et qui tombe, le vent qui souffle et s’abat brusquement, la lumière qui décroît et qui renaît, autant de causes, insaisissables pour l’œil des profanes, qui transforment la teinte et défigurent les plans d’eau» («Les Nymphéas de Claude Monet», Revue de l’Art, luglio 1927, p. 44).





Coco avant Chanel – L`amore prima del mito

di Anne Fontaine
Francia, 2008
Con: Audrey Tautou (Coco Chanel), Benoît Poelvoorde (Étienne Balsan), Alessandro Nivola (Arthur Capel), Marie Gillain (Adrienne Chanel), Emmanuelle Devos (Emilienne d’Alençon)
Trailer del film

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Orfana, sarta, cantante, amica e mantenuta di un ricco proprietario terriero, innamorata una sola volta nella sua vita. E soprattutto capace di liberare il corpo delle donne da stecche, corpetti, “tende”, fronzoli, piume, ammennicoli di varia natura, per restituirlo alla grazia naturale delle forme.

Questo fu Gabrielle “Coco” Chanel (1883-1971) e il film racconta il tempo più difficile della sua vita. Audrey Tautou presta occhi e sorriso all’intelligenza, all’ambizione, alla tenacia e al talento di un personaggio cresciuto in un mondo nel quale le donne erano dei soprammobili e che lei cercò invece di trasformare in persone. Anne Fontaine attinge molto al modello e all’iconografia proustiane -abiti, dimore, cavalli, le prime automobili, un tragico incidente stradale…- per un’opera certo convenzionale ma anche piacevole da seguire.

Ultimi rimorsi prima dell’oblio

Derniers remords avant l’oubli
(1987)
di Jean-Luc Lagarce
Teatro Out Off – Milano
Traduzione di Franco Quadri
Regia di Lorenzo Loris
Con: Gigio Alberti, Giovanni Franzoni, Sara Bertelà, Sabrina Colle, Alessandro Quattro, Paola Campaner
Teatro Out Off, in collaborazione con Face à Face – Parole di Francia per scene d’Italia
Sino al 5 luglio 2009

Una casa è da vendere. È abitata da un professore -Pierre-, rimasto solo dopo che Paul e Helène sono andati via anni prima. Avevano condiviso tutto, ora gli altri due hanno delle nuove famiglie. Arrivano, infatti, coi rispettivi coniugi e con una figlia. La tensione è profonda. Le parole emergono come iceberg da un oceano di risentimenti, di desideri, di nostalgie, di concentrazione sull’io. Ciascuno si dice pronto ad assecondare le volontà degli altri e tuttavia i rapporti sono guerra. Scorrono sullo sfondo le immagini di quando i tre erano giovani e bohèmiens ma l’illusione di fermare il tempo può solo moltiplicare il conflitto.

Lagarce ha l’immenso talento di trasformare le parole più ovvie e le situazioni più stantie in uno scavo dentro l’umano, i suoi movimenti, le memorie, le attese. «Non ho detto niente», è la formula spesso pronunciata dai protagonisti, come se il linguaggio fosse un’arma da nascondere («A lingua n’avi ossa e ruppi l’ossa» dicono in Sicilia), come se parlare fosse il vuoto della comunicazione, l’inquietudine dell’incompreso, l’ambiguità del taciuto, l’infinitezza dell’interpretato. Lagarce costruisce dei testi potentemente corali (come I pretendenti ) nei quali ciascuno dei personaggi sembra di volta in volta il centro della rappresentazione. Una splendida qualità.
Gli attori e la regia di questa messa in scena assecondano il testo nella sue pieghe, nell’implicito e nella forza. Il risultato è uno spettacolo che pensa alla radice le relazioni umane. Tra di esse, quella di un professore coi propri allievi; Pierre ritiene che l’insegnare sia un «parlare nel vuoto ai terribili eredi degli altri». Trasformare tale orrore in incontro è il compito -esaltante e duro- di chi educa.

Bouvard e Pécuchet

di Gustave Flaubert
(Bouvard et Pécuchet, 1881)
Trad. di Camillo Sbarbaro
Con un saggio di Lionel Trilling
Einaudi, Torino 1982
Pagine XXXIII-243

I due protagonisti di questa parabola non possono esser dimenticati facilmente. Da un lato sono dei personaggi reali, con le loro inconfondibili fisionomie, con il perfetto delinearsi dei caratteri. Dall’altro costituiscono una sferzante allegoria. Pur se ingenui, precipitosi, superficiali, imprudenti, i due impiegati che, ricevuta una cospicua eredità, decidono di apprendere tutto ciò che possa essere appreso -scienze agrarie, pedagogia, letteratura, medicina, archeologia, chimica, ingegneria, astronomia…- rimangono i più autentici tra gli esseri che costellano il romanzo. Composto insieme al Dictionnaire des idées reçues, e a esso strettamente legato, questo singolare capolavoro rappresenta infatti un’antologia della stupidità universale.

Dalle sue pagine emerge con una chiarezza persino dolorosa ciò che nega un autentico sapere: i pregiudizi privati e collettivi, l’apologia della consuetudine, la consacrazione delle norme, il provincialismo, la grettezza dello spazio interiore, l’invidia verso chi nell’apprendere è felice, l’acritica chiusura della mente. Nei confronti di tutto questo, Bouvard e Pécuchet si comportano da inconsapevoli ma implacabili demistificatori. E anche quando sembrano cadere nel colmo del non pensiero, il bigottismo biblico, portano il loro atteggiamento al punto estremo in cui la scempiaggine di una fede che «ha per punto di partenza una mela» (p. 211) si illumina da sé del proprio grottesco splendore.

Ai loro occhi «il mondo si trasformava in simbolo» (98), «aristocrazia e popolo si equivalevano» (133), «i socialisti invocano sempre la tirannia» (140), «la metafisica non serve a niente» (176), «ammanendo con la massima serietà queste fandonie al pubblico, la stampa ne coltivava la credulità» (155). È il “progresso”, quindi, il nome che l’imbecillità assume nel XIX secolo, quel pregiudizio sul quale Céline scriverà: «L’ho pur visto arrivare il Progresso…ma sempre senza trovare un posto…Tornavo ogni volta a casa bischero come prima…» (Morte a credito, Corbaccio, 2000, p. 271).

Non geniali ma neppure idioti, fratelli di Emma Bovary, i due uomini comuni nei quali Flaubert ricapitola il suo disprezzo per l’inutile mondo di mediocri che popola la specie costituiscono la paradossale luce di un mondo spento. Essi «mettevano in dubbio la probità degli uomini, la castità delle donne, l’intelligenza dei governanti, il buonsenso del popolo: minavano, in una parola, le basi. […] Nei due amici maturò allora una disposizione d’animo destinata a renderli infelici: quella di vedere la stupidità umana e di non poter più tollerarla» (182).
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