Al collega Francesco Coniglione si devono molte approfondite analisi della politica universitaria italiana. L’editoriale pubblicato su Historia Magistra. Rivista di storia critica (numero 20-2016) rappresenta un’eccellente sintesi di quanto sta accadendo all’Università italiana e dunque al presente più avanzato e al futuro del nostro popolo.
Ne riporto qui alcuni brani, invitando a leggere l’intero articolo su Roars: Primavera o autunno dell’Università italiana?
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Nel mondo universitario e della ricerca scientifica sono in corso – ormai da più di un decennio – mutamenti strutturali che mirano a cambiarne nello spazio di qualche anno la fisionomia, in direzione di un nuovo assetto strutturale i cui lineamenti sono ancora tutti da decifrare. L’università è alle prese con vincoli sempre più oppressivi che ne dirottano tempi ed energie da un lato verso un sempre maggiore ingabbiamento della ricerca e della didattica in adempimenti amministrativi e burocratici che assai difficilmente ne miglioreranno la qualità, dall’altro verso una conflittualità con l’Agenzia di Valutazione (ANVUR) e il Ministero, che ha avuto nella campagna Stop-VQR – innescata dalla protesta per il mancato recupero del blocco degli scatti stipendiali – una sua plastica raffigurazione.
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Eppure non mancano gli elementi che possono essere interpretati come una inquietante spia del futuro prossimo venturo. Non ci riferiamo tanto alle dichiarazioni di qualche anno fa del premier italiano, in cui si sosteneva che per l’Italia sarebbero bastati per la ricerca 5-6 hub “di eccellenza”, quanto a più recenti fatti e opinioni espressi da autorevoli personaggi, che indicano un futuro che si inserisce in piena continuità sulla strada dell’iniziativa promossa circa 10 anni fa dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti con la creazione dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova. Questo istituto, infatti, è un ente di ricerca di diritto privato, ma finanziato pubblicamente con 100 milioni di euro l’anno.
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Il quadro sembra chiaro: il problema non è quello del finanziamento della ricerca e della mancata volontà ad investire. Il fatto è che questi investimenti non devono transitare dall’università, la quale – dopo decenni di campagne di stampa volte a demonizzarla per il suo (accertato) nepotismo e le sue (verificate) inefficienze – sembra essere scomparsa dall’orizzonte degli interessi dell’opinione pubblica e della classe dirigente. Ormai ritenuta un corpo morto, nella quale immettere denaro equivale a buttarlo nel forno – come si sente continuamente ripetere – essa viene abbandonata a un destino di progressivo decadimento, di centro di istruzione di serie inferiore, in cui non si fa più ricerca, ma semmai si prepara alle professioni. E a nulla valgono le argomentazioni e le prove del fatto che l’università italiana regge benissimo la concorrenza della qualità con le università di altre nazioni e che forma ricercatori in grado di competere al meglio in campo internazionale (come è stato ad abundantiam documentato nel sito ROARS).
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Insomma, non solo una polarizzazione della ricerca in pochi centri identificati non si sa in base a quali criteri e insigniti della medaglia dell’“eccellenza” – con l’emarginazione delle università – ma anche l’idea di trasformare queste ultime in enti di diritto privato, con l’inevitabile conseguenza di un maggiore centralismo nella loro gestione, di una maggiore discrezionalità nella gestione di fondi e personale e quindi della fine di quella “democrazia” universitaria che sinora ne ha caratterizzato la storia. E la conseguenza che sarebbe l’ovvio corollario di queste premesse potrebbe includere la soppressione della cosiddetta “tenure”, cioè il posto fisso per i docenti universitari, a favore di contratti a tempo determinato di volta in volta rinnovabili: la fine della sicurezza del posto in favore del “libero mercato” verrebbe così a far cadere il presupposto indispensabile del libero pensiero e della autonomia, con ricercatori sempre ricattabili e quindi del tutto proni ai vertici accademici e ai loro datori di lavoro. Viene così a maturazione il disegno già prefigurato nella legge Gelmini, che oggi viene con coerenza perseguito dall’attuale governo (e qui l’etichetta di sinistra, centro-sinistra o destra, è irrilevante). È il sogno di sempre del capitalismo italiano, nel quale si è dimostrato storicamente più versato: gestire privatamente i soldi pubblici e disporre liberamente della propria forza-lavoro, grazie a una sua sempre più accentuata precarizzazione.
L’università è stata sinora un centro di residua resistenza democratica alle sempre più accentuate volontà autoritarie che, nel nome dell’efficienza, si implementano sul piano istituzionale e nel mondo del lavoro; essa non è stata ancora pienamente colonizzata dalla politica, in quanto il tanto vituperato “potere baronale” ha cercato di difendere la propria autonomia e si è mosso con logiche trasversali rispetto a quelle dell’appartenenza partitica. Con le prospettive che per essa si vanno disegnando, l’università – così come è avvenuto per le strutture sanitarie – diventerà quel luogo di vassalli e valvassori, assoggettati al potere politico, paventato dalla senatrice Cattaneo. E gli atenei non saranno più il luogo in cui si farà ricerca “curiosity driven”, per amore della cultura, portando avanti il lavoro fondamentale senza il quale non sarebbe possibile alcuna ricaduta applicativa e imprenditoriale. E non parliamo dell’evidente destino cui sono destinate tutte le discipline di carattere umanistico, ritenute “inutili” e incapaci di “stare sul mercato”.
In queste condizioni, l’università non va incontro a quella “primavera” lanciata flebilmente dalla CRUI in risposta alla protesta contro la VQR, ma a un lento autunno. Verrà, dopo, l’inverno di una cultura asservita ai due padroni che oggi si spartiscono la ricchezza: il “mercato” che succhia il denaro dalle tasche dei cittadini, la politica che saccheggia indisturbata la ricchezza sociale e che non vede l’ora di mettere le mani sull’università senza i “lacciuoli” del diritto amministrativo.
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L’analisi di Coniglione è pienamente confermata dalla recente dichiarazione del ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda, il quale ha annunciato che il governo finanzierà solo 4 o 5 università d’eccellenza e che non rispetterà più il criterio geografico: «Noi non ci possiamo permettere di dire che finanziamo tutti con bandi aperti, qualunque università, qualunque cosa faccia eccetera… dobbiamo scegliere 4 o 5 università di eccellenza sul tema della manifattura innovativa, dargli i soldi, costruire un meccanismo per il quale queste 4-5 università e solo queste 4-5 università costruiscono competence center dove le aziende possono lavorare insieme, e chi vuole entrare in questo gruppo, beh, scali i ranking e ci entra dentro, ma non è che riceve denaro semplicemente per la distribuzione geografica degli atenei».
L’intenzione è quindi cancellare l’università, in particolare in quelle zone -come il meridione d’Italia- che più hanno bisogno di una istituzione scientifica e didattica che dia possibilità di formazione e di crescita. È il trionfo dell’ignoranza e dell’ingiustizia.