Skip to content


Solitudine

Vivian Maier. Una fotografa ritrovata
Catania – Fondazione Puglisi Cosentino
A cura di Anne Morin e Alessandra Mauro
Sino al 18 febbraio 2018

Gli umani, la loro costitutiva solitudine, che siano bambini, operai, madri, funzionari, giovani, anziani, commercianti, edicolanti, bianchi, neri, tutti pronti alla morte, ora, dopo. Una solitudine fatta di azioni, di flusso, di sguardi riempiti dello stupore d’esserci. Uno stupore che coinvolge le strade e le case, le contagia, le ferma nello spazio.
New York, Chicago, San Francisco sembrano il luogo di un’ovvia penitenza. Come se i frammenti di materia che le immagini riverberano venissero dall’improvvisa ma inevitabile interruzione della salvezza. L’utilizzo del colore, a partire dagli anni Settanta, banalizza un poco questo sguardo, lo rende più ‘realistico’, meno apparente e quindi meno vero. I video in 8mm restituiscono il movimento frammentario del mondo, la pena delle attività umane, la saturazione degli istanti. E spingono a migrare in qualche redento altrove. In questo altrove vivono e a questo altrove accennano i numerosi autoritratti di Vivian Maier (1926-2009). Realizzati guardandosi in una vetrina sulla strada o preparati in una fuga di specchi dentro casa.
Due di tali autoritratti svelano qualcosa del silenzio di questa fotografa che non espose mai finché fu viva, suggeriscono qualche ipotesi sui suoi pensieri.
Il primo (del 1955) è una compiuta dichiarazione di poetica. Un operaio di una ditta di traslochi solleva uno specchio. Lei, maestra del tempo, coglie l’istante e si eternizza in questo specchio diventando il suo centro, il centro della foto, il centro dello spazio isotropo che da lei si diparte. Un’immagine stupefacente.
Il secondo, a colori e senza data, raffigura poggiate a terra una camicia, un soprabito e un cappello. Dentro i quali non c’è nessuno. Questo è la solitudine. È il nostro non esserci per gli altri, non esserci nello spazio, non esserci. È rinchiudersi nelle stanze del proprio sé e da questo castello alto e desolato tentare di amministrare i feudi della disperazione.

Vivian Maier visse da sola ed è anche questa solitudine che proietta nello sguardo interiore, esatto e distante che posa sul mondo.

[Una mia più ampia analisi dell’opera di Vivian Maier è in preparazione per il prossimo numero della rivista Gente di fotografia]

Malevite

Milano e la Mala
Storia criminale della città dalla rapina di via Osoppo a Vallanzasca
Milano – Palazzo Morando
A cura di Stefano Galli
Sino all’11 febbraio 2018

Di fronte alla ferocia dei singoli e delle società, si potrebbe dire che ogni essere umano è un criminale sino a prova contraria. Siamo infatti animali astuti, tenaci e raffinati. Animali capaci di una violenza che nessun’altra specie conosce e pratica. Perché alle ragioni comuni a tutto il mondo animale -procurarsi il cibo, possedere le femmine, difendere il territorio- l’Homo sapiens aggiunge in non pochi dei suoi membri il piacere che si prova nel vedere la sofferenza, l’angoscia, la disperazione disegnarsi sui volti e nei corpi dei propri simili. Una specie tremenda, insomma, che gli altri animali fanno bene a temere, cercando di tenersene alla larga.
Se posti nelle condizioni sociali, educative e culturali opportune, esponenti di questa specie trasformano la pratica della violenza, del sopruso, dell’arroganza, del furto e dell’assassinio nell’unica pensabile e possibile forma di esistenza. E nascono le bande, le camorre, le mafie, le male, come quella che caratterizzò Milano dal Secondo dopoguerra alla metà degli anni Ottanta del Novecento.

Questa interessantissima mostra racconta il lato oscuro della città mediante molte fotografie, documenti della questura, prime pagine dei giornali milanesi, oggetti e armi utilizzate dai criminali. I quali hanno subìto destini diversi ma tutti accomunati da un profondo squallore. Alcuni sono morti in carcere, come Luciano Liggio; altri in povertà, come Franco Restelli; alcuni uccisi per le strade, come Otello Onofri e Carlo D’Argento; altri trucidati in carcere, come Francis Turatello; qualcuno si è anche rassegnato, come Renato Vallanzasca che sconta i suoi ergastoli e lavora fuori dal carcere. Gli ultimi due compaiono nella foto qui sopra. Turatello fu massacrato nel carcere di Nuoro dal camorrista Pasquale Barra -autore di 67 omicidi- che per sfregio azzannò parte delle sue viscere. Esistenze inutili per chi le ha vissute e dannose per chi le ha incontrate.
A questi banditi, pullulati per lo più dal degrado culturale e dalla miseria economica, si aggiungono i criminali della finanza e i loro protettori politici, responsabili in vario modo della rovina e della morte di tante persone, tra le quali l’avvocato Giorgio Ambrosoli, che cercò di resistere alle lusinghe e alle minacce del banchiere Michele Sindona (poi avvelenato in carcere), personaggio che rappresentò il vero cuore nero dell’Italia di quei decenni. Sindona fu protetto dal Vaticano e da Giulio Andreotti. Entrò in competizione con Roberto Calvi (assassinato a Londra), Guido Carli (a lungo governatore della Banca d’Italia) ed Enrico Cuccia (regista di molte operazioni politiche e finanziarie del dopoguerra).

Tra le fonti di guadagno della mala milanese c’erano le bische clandestine e lo spaccio della droga.
Le bische non hanno più ragion d’essere, visto che lo Stato in prima persona è diventato il grande biscazziere che concede migliaia di licenze per le «macchine mangiasoldi» (Slot machines) e per i vari «gratta e vinci», il cui utilizzo frenetico e diffuso va rovinando moltissimi cittadini. Giocando con queste macchinette -legali e diffusissime- si possono perdere 1000 euro in meno di dieci minuti. Viva la legalità, verrebbe da dire.
Per quanto riguarda le droghe, dopo decenni di utilizzo e di spaccio (mi ricordo che su questo argomento scrissi un tema alle elementari, un po’ di tempo fa…) i loro effetti sono talmente noti a tutti che iniziare a farne uso è indice di pura -direi distillata- stupidità. Nessuna comprensione, quindi, per i tossici. Drogarsi significa elevare la demenza a padrona della propria vita. Sembra interessante, sulla questione, il recente saggio di Afshin Kaveh Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga  (Sensibili alle foglie, 2017), dal quale -secondo la sintesi che ne fa Gianpaolo Cherchi- si evince che «la droga è una sostanza intimamente fascista, una ‘Istituzione totale’ in cui la ‘cultura dello sballo’ è in grado di articolarsi e differenziarsi a seconda delle esigenze del mercato» (il manifesto, 1.2.2018)
Nella mostra si può anche leggere un dettagliato dizionario della Mala, il cui gergo è davvero efficace e mostra la pervasiva potenza del linguaggio in qualunque gruppo umano. Qualche esempio: Balordista, spacciatore di banconote false; Batteria, squadra di malviventi organizzati; Bidonista, truffatore; Boga, spia, confidente; Cabriolet, assegno scoperto utilizzato per delle truffe; Cantamessa, mitra; Caramba, carabiniere; Casché, furto con destrezza; Dannato, la persona rapinata; Dura, la rapina; Grattà, rubare; Lasagna, il portafogli; Madama, la polizia; Polenta, l’oro; Soffia, informatore della polizia; Volada, una rapina compiuta assai velocemente.

Dissonanze

Jennifer Thoreson / Dissonanza e proliferazione
in
Gente di fotografia
Anno XXIII, n. 69, novembre 2017
Pagine 8-17

«Gorgoglia la materia nella morte, come se tutti fossimo sogno di un demone cattivo, fossimo l’ironia delle Madri, fossimo dentro il loro implacabile destino. […] ‘The failure of faith’ è anche una ‘disclosure’, è la rivelazione del nostro essere stati gettati in un mondo incomprensibile e nemico, fatto di sporgenze tumorali, di arcaiche intumescenze, di inaudite proliferazioni. C’è qui, evidente, tutto il fascino e il timore che alcuni antichi gnostici nutrivano verso la materia, verso un mondo di carne e dissoluzione, nel quale i più sono stupidi e ignoranti e la massa è costituita da cose in forma umana».

Marasciuttati

Nan Goldin. The Ballad of Sexual Dependency
Milano – Palazzo della Triennale
a cura di François Hébel
sino al 26 novembre 2017

Un video di 42 minuti composto da fotografie che si susseguono su uno sfondo musicale che va dall’opera lirica al funk, dal blues all’elettronica. Immagini di corpi che dormono, urinano, fumano, bevono, si abbracciano, si bucano. Dentro appartamenti sporchi, strade rivoltanti, solitudini profonde. Corpi abbigliati in modo malfatto e grottesco, nei cui capelli, camicie, trucco si esprimono una disperazione istintiva e un perenne infantilismo.
Che da alcuni decenni un’opera come questa venga rappresentata nei musei d’arte e di fotografia è un fatto significativo non del superamento dei tradizionali canoni di bellezza ma della sottomissione profonda del corpo sociale al puro presente, a una rassegnazione che non ha alcuna fiducia nel futuro collettivo ma si abbarbica al sonno del presente. Di fronte a un’umanità così marasciuttata (sicilianismo per: penosa, triste, sfortunata, derelitta) anche il potere può dormire sonni tranquilli. Nessuna coscienza politica esiste infatti in tali corpi.
Qualunque cosa sia la bellezza, Nan Goldin sembra avere un talento istintivo a far emergere il brutto degli umani, dei luoghi, degli eventi. Non una fotografia «senza mediazione alcuna», oggettiva -come afferma il curatore della mostra/installazione- ma una fotografia tesa a deformare ciò che già di per sé è privo di ogni grazia.
Questa Ballad è opera estremamente significativa di un’intera cultura, di una comunità umana -come quella statunitense- che è immonda non soltanto nei suoi capi, nel suo gigantismo urbanistico e militare, nella sua distruttiva volontà di potenza ma nell’intero corpo collettivo che la compone.

Dal lutto e dalla gloria

Attilio Scimone / La memoria della terra
in
Gente di fotografia
Anno XXIII, n. 68, agosto 2017
Pagine 56-61

«Tra le erbe, i silenzi, i graffi e le onde si staglia finalmente la bellezza. La bellezza per antonomasia, la bellezza paradigma, la bellezza che ci turba, ci avvolge, ci vince e fa felici. La bellezza della donna. Multiverso le raccoglie, queste donne. Le raccoglie mentre sinuose avanzano coi tacchi dentro il grano o elegantissime sembrano supplicare la loro stessa pacata gloria. Le raccoglie mentre posano distanti dallo sguardo e dal desiderio del fotografo e mentre avvolte nel nero arcaico di Sicilia si accingono a riempire di sé i luoghi, la pellicola, le voglie, la memoria»

Pdf del testo
English version

Ultima Sicilia

Ultima Sicilia
Fotografie di Giovanni Chiaramonte
Catania – Castello Ursino
Sino al 23 luglio 2017

Il cuore immobile e pulsante della Sicilia. Sempre uguale e sempre cangiante. Assolato e solitario. Fuorilegge e implacabile. Orgoglioso e morente. La vita. La vita che scorre sempre, che mai si ferma. La vita mirabile e orrenda degli umani. La vita dei bambini. Una calda geometria emerge da questi luoghi: Gela, Licata, Ragusa, Chiaramonte Gulfi, Dirillo, Butera, Modica, Ponte Olivo, Manfria.
Ultima Sicilia perché posta al limitare di una ‘modernità’ che ha tentato di omologarla all’Impero, riuscendoci in alcune esteriori manifestazioni ma fallendo nella sua sostanza, la quale non ammette metamorfosi che non sgorghino dalla propria ironia. La Sicilia è ancora fuori dalla storia, per fortuna. L’Isola è ancora dentro la propria mortale grazia. Le immagini di Giovanni Chiaramonte colgono questo καιρός. Per ciò sono così desolate, per questo sono così belle.

Schiavitù

Libya: A Human Marketplace -­ Narciso Contreras
Milano – Palazzo Reale
Sino  al 13 maggio 2017

31 fotografie di grande formato, distribuite in tre spazi e intervallate da pannelli/didascalie. È sufficiente osservarle e leggere. È sufficiente ascoltare e guardare la testimonianza di Narciso Contreras. Non sarebbero state necessarie le denunce di alcuni parlamentari o la notizia di inchieste da parte della Procura di Catania. Le immagini e le informazioni di questo reportage dalla Libia rendono chiara la condizione di schiavitù di milioni di esseri umani; rendono chiaro il fatto che tale schiavitù è stata creata e viene alimentata da una varietà di istituzioni e di soggetti.
Il primo di essi è la potenza che volle e realizzò la distruzione della Libia e la morte di Gheddafi, vale a dire l’amministrazione Obama con il suo Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, che si impegnò personalmente e con tenacia affinché Gheddafi venisse assassinato. In nome della Democrazia, of course. Da allora la Libia non esiste più, si è dissolta dando inizio a una infinita guerra fra le tribù che si contendono il controllo del territorio posto tra il Niger, il Ciad e il Mediterraneo. In questo conflitto senza posa i migranti sono utilizzati come una preziosa risorsa, come una preda di guerra, come  merce di scambio.
Contreras_Lybia
Il secondo soggetto sono le cosiddette ‘autorità libiche’ le quali -scrive Contreras- «invece di cercare di risolvere il problema, dirigono e approfittano di questo traffico di esseri umani»; «Piuttosto che una tappa di transito per i migranti e i rifugiati, la Libia è un luogo propizio di traffico di esseri umani e di commercio di schiavi, organizzati per le milizie al potere e legati alle reti mafiose».
Il terzo soggetto sono i trafficanti africani e il loro corrispettivo criminale in Sicilia, vale a dire la mafia. Trafficanti che hanno fatto della ferocia, degli stupri, della schiavizzazione, la loro normale attività quotidiana. Contreras ha visitato e fotografato le carceri e i campi gestiti da questi gruppi e sostiene che «qui non c’è dignità, regna un tanfo misto di sudore, urina ed escrementi che toglie il fiato».
Il quarto soggetto sono le «Organizzazioni non governative» (ONG), le quali costituiscono l’ultimo anello della catena. Al di là della evidente buona fede di molti loro membri, le ONG sono indispensabili ai trafficanti africani, ai mafiosi europei, alle autorità libiche, ai loro finanziatori (come il miliardario magiaro-statunitense George Soros) per raggiungere l’obiettivo di praticare affari sulla pelle, la vita, i corpi di milioni di schiavi.
Che dietro tutto questo possa esserci un progetto di impoverimento e di scontro sociale a danno dell’Europa è soltanto un’ipotesi. Certo è invece il fatto che quando -a conclusione di un viaggio che comincia dall’Africa profonda, attraversa il Sahara, si ferma nei lager libici, rischia la morte nel Mediterraneo- una percentuale di questi schiavi sopravvive e arriva in Sicilia, in Italia, in Europa, l’effetto lucidamente analizzato da Marx è di ingrossare «l’esercito industriale di riserva», a tutto vantaggio delle imprese e del Capitale.
Che le ONG siano o meno in accordo con i trafficanti è una questione giudiziaria  che non ho strumenti per poter valutare. Ciò che invece è del tutto evidente è la funzione politico-economica del loro umanitarismo, che si pone come una delle condizioni di prosperità dell’ultraliberismo finanziario e della sottomissione sociale.
La schiavitù greca e romana costituiva una struttura misurata e regolamentata, se posta a confronto con lo schiavismo bianco degli Stati Uniti d’America e con il sadismo e l’ipocrisia che caratterizzano la pratica della schiavitù contemporanea, della quale le Organizzazioni umanitarie sono oggettivamente parte.
La mostra di Narciso Contreras alza il velo su tale orrore.

Vai alla barra degli strumenti