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Un racconto

Di stelle e di buio
in Il valzer di un giorno
di Franco Carlisi
Seconda edizione rinnovata nei testi e nelle fotografie
Gente di Fotografia Edizioni, 2018
Pagine 191-195

Vivere significa anche essere aperti al nuovo. Ho voluto quindi provare una per me inedita modalità di scrittura: il racconto. Un testo di completa fantasia, dove non ci fosse nulla di saggistico e nulla di personale.
L’occasione è stata uno splendido libro di Franco Carlisi, al quale il fotografo mi ha chiesto di collaborare. Un fotografo tra i più importanti del presente, che raffigura i corpi, la festa, la tensione, il sorriso, la carne, le luci, le chiese e le strade, i curiosi e le madri, i suoni e i silenzi, il battito pronto a dire di sì, il distacco da ciò che fu, l’attesa dell’avvenire, gli abbracci per sempre e la potenza dell’adesso, il καιρός. E tutto questo nell’istante di uno scatto, in una foto. 

 

 

Chimica

Frank Horvart – Fabio Miguel Roque 
Catania – Cucine del Monastero dei Benedettini
Med Photo Fest 2018
Sino al 20 maggio 2018

Ancora una volta la fotografia contemporanea si dispiega in uno dei luoghi più suggestivi del Monastero benedettino di Catania. Frank Horvart fotografa come dipingesse. Un realismo magico che genera ritratti, nudi, scenari urbani, figure vegetali, paesaggi naturali. Tutto soffuso e come immerso in un sogno antico, nel quale la donna è grazia, la città è sospesa, gli alberi sono sculture. Fabio Miguel Roque disegna un bianco e nero sporco, barocco e sensuale, con il quale racconta uccelli, muri, volti spezzati, angoli, automobili, redenzioni e condanne. Il bene e il male sono ombre. Qualunque cosa ne pensino romantici e sognatori, il mondo è fatto di una sottile ma tenace geometria. La vita è materia, è chimica allo stato puro, desiderio che attraversa cellule e molecole, ed è anche il luogo nel quale cause ed effetti, premesse e conseguenze, condizioni e risultati, accadono in un modo che una buona intelligenza spinoziana saprebbe descrivere e prevedere. E tuttavia il colore è lo scarto e le forme sono enigma. Dentro questo enigma abitano le diverse solitudini di Horvart e di Roque.

Algocrazia

Mercoledì 9 maggio 2018 alle 17,30 nel Coro di Notte del Monastero dei Benedettini di Catania parlerò di Tecnologie del vedere. Infosfera e social network.
L’incontro fa parte del Med Photo Fest 2018.
Pubblico il programma completo delle iniziative che si svolgeranno in Dipartimento e l’abstract del mio intervento.

 

Abstract

Nel XXI secolo individui e collettività si muovono dentro una infosfera che è diventata parte fondamentale dei luoghi e delle relazioni concettuali e politiche. La comunicazione va progressivamente perdendo il proprio corpo, con la conseguenza di generare interazioni sociali di forma radicalmente nuova. Sino a che punto le menti umane sono padrone di questo spazio inedito e complesso? Social network, strumenti informatici, cellulari, costituiscono il campo d’azione e lo strumento di un controllo pervasivo il cui fine è coincidere con il soggetto e con il suo tempo di vita. Monitor di tutte le dimensioni trasformano l’atto del guardare nelle tecnologie dell’essere visti, scrutati, profilati, controllati, venduti. Siamo diventati l’immagine dietro e dentro la quale non ci sono più corpi ma algoritmi. Qual è e quale può essere la funzione della fotografia all’interno di questa algocrazia?

 

Volti

Fermo-immagine della crudeltà.
Il grido degli animali non umani diventati merce

il manifesto
18 aprile 2018
pagina 11

Ci guardano da una distanza interminabile. Guardano nel vuoto di un destino che non hanno avuto poiché la nascita li ha rinchiusi in un intervallo di tempo miserabile, quello necessario a farne carne da mangiare o pelliccia da indossare. Stanno rinchiusi nelle gabbie, stretti l’uno all’altro in un fitto labirinto di dolore senza senso.

[L’immagine è di  Stefano Belacchi. Raffigura i volti di visoni che adesso stanno appesi in qualche armadio]

Giappone

Carmelo Nicosia “Japan, Flight Maps”
Catania – Fondazione Brodbeck arte contemporanea
A cura di Gianluca Collica
Sino all’8 aprile 2018

Il Giappone. Un luogo esotico, fatto di samurai, di impero, di pagode. Un po’ come la Sicilia è fatta di coppole e carrettini. Oppure un luogo ipertecnologico, ultraoccidentalizzato, invaso di merci, ilare e angosciante. O ancora, un luogo antico, immobile, incomprensibile.
Carmelo Nicosia è andato oltre questi paradigmi. Ha guardato e ha lasciato testimonianza del suo sguardo in immagini che coniugano la geometria dei luoghi, il colore della mente -specialmente il blu-, la disperazione delle strade e degli edifici, che intride soprattutto il video digitale Travel Architectures. E poi quattro opere nelle quali Nicosia riprende lo sguardo di altri, lo moltiplica, lo rende seriale, lo intride di storia e di natura, dai vulcani al fungo atomico.
Giuseppe Frazzetto, con il quale ho avuto il piacere e il privilegio di condividere la visita, ha giustamente osservato che Nicosia cerca di ricomporre per quanto è possibile la frammentazione postmoderna di Wim Wenders che, in Tokyo-Ga (1985), moltiplicava lacerti di vita, esaltandone la dissolvenza. Le fotografie di Nicosia costituiscono invece una metonimia che tramite la parte/frammento cerca di comprendere il tutto, anche nel senso di ricomporlo, di coglierne e restituirne un significato.
Poche immagini nel suggestivo spazio della Fondazione Brodbeck di Catania ma sufficienti ad andare oltre il saputo e l’ignoto di una civiltà come quella nipponica, per osservarne il divenire, per fermarne il flusso e trasformarlo in arte. La fotografia, la sua potenza.

Solitudine

Vivian Maier. Una fotografa ritrovata
Catania – Fondazione Puglisi Cosentino
A cura di Anne Morin e Alessandra Mauro
Sino al 18 febbraio 2018

Gli umani, la loro costitutiva solitudine, che siano bambini, operai, madri, funzionari, giovani, anziani, commercianti, edicolanti, bianchi, neri, tutti pronti alla morte, ora, dopo. Una solitudine fatta di azioni, di flusso, di sguardi riempiti dello stupore d’esserci. Uno stupore che coinvolge le strade e le case, le contagia, le ferma nello spazio.
New York, Chicago, San Francisco sembrano il luogo di un’ovvia penitenza. Come se i frammenti di materia che le immagini riverberano venissero dall’improvvisa ma inevitabile interruzione della salvezza. L’utilizzo del colore, a partire dagli anni Settanta, banalizza un poco questo sguardo, lo rende più ‘realistico’, meno apparente e quindi meno vero. I video in 8mm restituiscono il movimento frammentario del mondo, la pena delle attività umane, la saturazione degli istanti. E spingono a migrare in qualche redento altrove. In questo altrove vivono e a questo altrove accennano i numerosi autoritratti di Vivian Maier (1926-2009). Realizzati guardandosi in una vetrina sulla strada o preparati in una fuga di specchi dentro casa.
Due di tali autoritratti svelano qualcosa del silenzio di questa fotografa che non espose mai finché fu viva, suggeriscono qualche ipotesi sui suoi pensieri.
Il primo (del 1955) è una compiuta dichiarazione di poetica. Un operaio di una ditta di traslochi solleva uno specchio. Lei, maestra del tempo, coglie l’istante e si eternizza in questo specchio diventando il suo centro, il centro della foto, il centro dello spazio isotropo che da lei si diparte. Un’immagine stupefacente.
Il secondo, a colori e senza data, raffigura poggiate a terra una camicia, un soprabito e un cappello. Dentro i quali non c’è nessuno. Questo è la solitudine. È il nostro non esserci per gli altri, non esserci nello spazio, non esserci. È rinchiudersi nelle stanze del proprio sé e da questo castello alto e desolato tentare di amministrare i feudi della disperazione.

Vivian Maier visse da sola ed è anche questa solitudine che proietta nello sguardo interiore, esatto e distante che posa sul mondo.

[Una mia più ampia analisi dell’opera di Vivian Maier è in preparazione per il prossimo numero della rivista Gente di fotografia]

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