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Simbiosi

Steve McCurry – “Animals” 
Milano – Museo delle Culture
A cura di Biba Giacchetti
Sino al 14 aprile 2019

La simbiosi con l’altro animale è l’identità dell’umano. Una simbiosi fatta di archetipi -il bambino/toro; di paure -lo sguardo della scimmia-; di strumentalità e condivisione –la bella ragazza etiope con il suo gallo-; di ferocia -il cormorano morente nel petrolio e i cammelli in fuga dall’apocalisse petrolifera nella guerra scatenata dagli USA in Kuwait.
Durante la presentazione della mostra al Museo delle Culture, Steve McCurry ha riferito di aver visto crudeli combattimenti tra cani e altre specie di animali in Afghanistan, di aver assistito al rogo di animali vivi da parte di soldati negli zoo durante la guerra del Golfo. Ma di quei combattimenti nelle sue foto non c’è traccia. Non c’è traccia di animali diventati torce, non c’è traccia dei lager -allevamenti, macelli, stabulari e laboratori di vivisezione– dove gli altri animali subiscono torture senza fine da parte degli umani. Su questi luoghi vige un tabù fortissimo, domina un’invisibilità che soltanto pochi sono disposti a rendere manifesta (lo hanno fatto di recente Stefano Belacchi e Benedetta Piazzesi lavorando sul fotoreportage animalista).
Ma Steve McCurry rende ugualmente testimonianza all’animale con la sua magnifica arte fotografica. Da queste immagini infatti il silenzio dell’animale emerge come una parola potente, enigmatica, ancestrale, cosmica. Lo sguardo animale descrive il mondo, il limite del quale è intriso, il sempre che diviene e che va, sino alla fine, sino a «quelle profondità spumose dove più niente esiste…», come scrisse Céline a conclusione del suo ultimo romanzo, la cui dedica suona: «Agli animali».
Le immagini di McCurry disegnano i colori splendenti della materia, dello sguardo, della vita che diviene, della vita che va.

Una lettura

Ringrazio l’équipe del fotografo Franco Carlisi che ha ripreso e montato con rigore ed empatia la lettura del racconto Di stelle e di buio, in occasione della presentazione del volume di Carlisi ll valzer di un giorno al Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania il 9 novembre 2018. L’elemento per me più interessante è costituito -oltre che dalle immagini iniziali dello splendido Monastero dove lavoro- dai volti degli ascoltatori, con le loro espressioni sorprese, attonite, divertite, attente. Tra questi volti, numerosi miei studenti che ringrazio ancora una volta per la presenza affettuosa e partecipe.

 

Le mura, gli dèi

Le mura di Roma. Fotografie di Andrea Jemolo
Roma – Ara Pacis

Dentro uno dei veri spazi sacri di Roma, che non sono la miriade di luoghi cristiani ma è l’Ara Pacis di Augusto. Un monumento perfetto nel suo equilibrio di storia e vegetazione, di forme e di politica, di pieni e di vuoto. Qui Andrea Jemolo ha esposto 77 fotografie che raffigurano i dodici chilometri che rimangono degli originari diciannove con i quali l’imperatore Aureliano (270-275) volle rafforzare le difese di Roma.
Immagini nelle quali la potenza del tempo emerge dal trionfo del presente, nelle quali l’architettura diventa una forza naturale, nelle quali il consueto delle mura che percorrono la città in ogni sua parte si fa finalmente visibile. La luce che attraversa tali immagini è esatta, avvolgente, costruita su proporzioni rinascimentali che inglobano l’umano e la natura dentro un riverbero affilato di nuvole e di pietre. In esse la storia si stratifica nelle sue resistenze e nelle svolte, nei millenni dentro cui muoiono gli umani e le generazioni ma i volumi rimangono a battere il ritmo degli eventi oltre la carne, dentro il segreto del tempo che scorre e che resiste, che dura.
A questa calma magnificenza Jemolo dedica «lo sguardo lento che ci insegnava Gabriele Basilico» (Catalogo della mostra, Treccani 2018, p. 38), uno sguardo assorbito da Mantegna, Piero della Francesca, Carpaccio, capace di penetrare la distanza lasciandola distante. Roma entra in dialogo con le sue mura attraverso la tecnica e l’arte del fotografo. Perché, dice ancora Jemolo, «la fotografia non è la documentazione del reale ma semmai una delle possibili rappresentazioni della realtà» (Ivi, p. 45).
Le mura aureliane non hanno impedito che i templi di Roma venissero «distrutti e le loro statue fatte a pezzi da criminali armati di martelli» (Catherine Nixey, Nel nome della Croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018, p.  32) perché quella distruzione, nata dalla periferia dell’Impero, si era installata dentro quelle mura, corrodendole dall’interno. E tuttavia mentre i pontefici cristiani continuano a usurpare il luogo dei pagani, le mura qui fotografate nella loro perenne plenitudine ricordano che essi, gli dèi, mai se ne sono andati.

La festa, il dolore

Venerdì 9 novembre 2018 alle 17,30 nel Coro di Notte del mio Dipartimento parlerò del magnifico libro di Franco Carlisi  Il valzer di un giorno (Seconda edizione rinnovata nei testi e nelle immagini, Gente di Fotografia Edizioni 2018).
Qualche mese fa avevo già scritto che questo libro raffigura i corpi, la festa, la tensione, il sorriso, la carne, le luci, le chiese e le strade, i curiosi e le madri, i suoni e i silenzi, il battito pronto a dire di sì, il distacco da ciò che fu, l’attesa dell’avvenire, gli abbracci per sempre e la potenza dell’adesso, il καιρός. E tutto questo nell’istante di uno scatto, in una foto.
Insieme a me e all’autore interverrà Maria Rizzarelli, con la sua consueta capacità di decifrare le immagini e restituirle in parole.

 
 

Architettura / Tempo

Luigi Ghirri. Il paesaggio dell’architettura 
Triennale di Milano
A cura di Michele Nastasi
Allestimento di Sonia Calzoni
Grafica di Pierluigi Cerri
Sino al 9 settembre 2018

In un lungo corridoio centrale le fotografie di Luigi Ghirri somigliano ai libri di Bergotte, che vegliano sul loro autore come angeli dalle ali spiegate, pronti a restituire vita a colui che li ha creati e non è più. Sul lato destro della sala, le stesse e altre immagini si susseguono raccolte in alcuni nuclei tematici e trasformate in grandi diapositive che battono il tempo della visione. Ecco: il tempo. Per Ghirri esso è fondamentale poiché il problema della rappresentazione dello spazio è per lui sempre «anche un problema che si lega al concetto di tempo. Fotografare una piazza all’imbrunire è diverso che fotografarla con la luce giusta per mettere in evidenza la struttura architettonica della piazza stessa». Nei suoi paesaggi non esiste distinzione netta tra naturale e artificiale e anche questo è dovuto al tempo: «Il paesaggio non è là dove finisce la natura ed inizia l’artificiale, ma una zona di passaggio, non delimitatile geograficamente, ma più un luogo del nostro tempo, la nostra cifra epocale».
Per questo fotografo l’architettura è un modo di abitare il mondo. La centralità della prospettiva scandisce il ritmo dei manufatti architettonici creando immagini nelle quali l’antico e il contemporaneo delineano uno spazio di senso, nelle quali i luoghi vengono descritti in ore diverse e il fotografare diventa esso stesso un’architettura temporale. Acque, terre, cieli si susseguono quasi come una fuga musicale. Tra le tante, si possono vedere le immagini scattate dal fotografo nello stesso luogo che ospita la mostra, il Palazzo della Triennale, immerso nel silenzio e nei secoli di Milano, come si vede anche dall’immagine di apertura di questa pagina.
Luigi Ghirri ha fotografato soggetti assai diversi: teatri, giostre, spiagge, cimiteri, castelli, ponti, strade, giardini, campi, fattorie, musei, templi, città, colline. Una fotografia intima, cosmica e concettuale. Immersa nell’«aria di inquietante tranquillità che abita luoghi e paesaggi, che sembrano essere abitati di nuovo dal mistero e dai segreti che ancora possiedono».

ὕβϱις

Claudius Schulze / ὕβϱις
in
Gente di Fotografia
Anno XXIV, n. 71, luglio 2018
Pagine 62-69

Il peggiore dei mali è la dismisura, è la ὕβϱις che smarrisce senso, proporzione, mezzi e obiettivi, che tutto confonde nel coacervo di una grandezza pronta a spezzarsi, che si spezzerà. Il primo dei beni è dunque -come concludono gli interlocutori del platonico Filebo (66a)- ciò che è misurato nello spazio, τὸ μέτριον, e opportuno nel tempo, τὸ καίριον. L’epoca presente è invece dismisura. Ed è questo State of Nature che l’opera di Claudius Schulze descrive con l’esattezza di un architetto, di un entomologo, di un filosofo.
Nelle sue immagini l’enormità degli spazi e delle costruzioni umane diventa exemplum di una sproporzione che emerge dentro i fenomeni più diversi come il gigantismo nell’architettura, la bulimia didattica, l’ultraliberismo, la democrazia colonialista, la negazione del genere, lo spettacolo televisivo, i Social Network, il culto per la ‘vita’ a ogni costo, il multiculturalismo e il mondialismo, il dominio della crematistica, e soprattutto la dismisura demografica, l’esponenziale crescita in pochi decenni degli umani in ogni parte del globo.
L’umano non è fatto per vivere da solo e non è fatto per raggrumarsi in termitai. In entrambe le modalità non può che perire. Sta qui il vero cuore di tenebra della questione ambientale, quello dal quale deriva ogni altro rischio, ogni altra distruzione. Siamo già 6 miliardi e mezzo di persone e il nostro numero si accresce di un milione di individui ogni quattro giorni. Numeri e percentuali talmente enormi da non riuscire davvero a intenderle, sino a quando sarà troppo tardi. Le risorse del pianeta, come quelle di ogni altro ente, sono finite.
Di fronte a un’intelligenza così scadente e autodistruttiva, quando non ci sarà più vita sulla Terra -e sembra che non mancherà molto-, quando la morte nucleare avrà reso il pianeta una nebbia indistinta e avvelenata, in attesa di essere inglobata dal Sole e sparire, chi dovesse osservarla da lontano non potrebbe certo immaginare che questa distruzione è frutto delle capacità e della pervicacia di una specie che definiva se stessa Sapiens e si credeva più intelligente di ogni altro animale. Ma così sarà stato.

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