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Palma e Moncado su Kremer & Johnson

Enrico Palma – Enrico Moncado
L’impero che illude

in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVI – numero 75 – luglio 2020
pagine 54-61

L’impero che illude è il titolo dell’analisi che Enrico Palma ed Enrico Moncado hanno dedicato all’arte fotografica di Kremer & Johnson, in particolare alle raccolte This is not Magritte Conceptual.
Nella prima «l’intento dei fotografi è di riformulare, pur con la massima fedeltà agli originali, alcuni quadri particolarmente fecondi di Magritte, e in seguito di aggiungervi alcuni oggetti che riflettano la realtà del mondo attuale».
Nella seconda «lo scatto fotografico costruisce la finzione dell’esistere e allo stesso tempo rivela la spaesante verità di ciò che sta sotto, di ciò che fonda e sfonda l’illusione: il fatto di essere nearing the end».
Il testo dei due studiosi conferma che lo sguardo teoretico è anche lo sguardo estetico più profondo.

K&J_Magritte

«Movimento, ritmo, spazio»

Inge Morath
La vita. La fotografia

A cura di Brigitte Blüml-Kaindl, Kurt Kaindl, Marco Minuz
Museo Diocesano – Milano
Sino al 1 novembre 2020

Un lungo video, un vero e proprio film di Sabine Eckard, racconta Inge Morath (1923-2002) tornata a New York nel 1991 insieme al marito Arthur Miller. Dalle parole, dai gesti, dalla narrazione emerge la personalità vivace di questa artista, per la quale la fotografia è veicolo di comprensione antropologica ed etnologica. Segnale evidente è il suo voler apprendere e parlare le lingue dei popoli e dei luoghi che fotografa, compreso il russo e il mandarino.
Dalla Venezia quotidiana e povera del 1955 al lama che si sporge in un taxi a New York, dalla stanza da letto che fu di Tolstoj ai beduini che danzano, gli spazi disegnano sempre un equilibrio che trasmette fiducia nelle società umane, nonostante tutto. I ritratti di Malraux, Giacometti, Monroe, Steinberg, Calder, Neruda, Stravinsky, Roth, Pinter e tanti altri, sono sempre intrisi di gioco oltre che di psiche e di mondo. Il bianco e nero dell’Agenzia Magnum, con la quale Morath collaborò a lungo, è parte della storia della fotografia come lavoro da artigiani a caccia dell’istante. Ma non è soltanto storia, società, persone. È anche e sempre forma. Morath consigliava infatti di capovolgere l’inquadratura dei negativi come modo per verificare l’equilibrio e la forza dell’immagine, che diventa così del tutto astratta, pura forma appunto.
Perché la fotografia, dice in un’intervista, è «una combinazione di movimento, ritmo e spazio». Il movimento senza fine degli eventi, il ritmo irreversibile del tempo, lo spazio come puro istante, ancora tempo

Materico e abissale

Graffi – Attilio Scimone
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVI – numero 75 – luglio 2020
pagine 42-49

È la potenza della vita, della storia, della terra, dell’amore, che il bianco e nero materico e abissale di Attilio Scimone ci fa toccare, sfiorare, afferrare, vedere. Come se l’arte fotografica si fosse trasformata in domanda metafisica, nel labirinto di uno sguardo che coglie il mondo mentre germina dalla densità delle zolle, dall’armonia delle chiese, dal limpillio delle fontane, da sentieri astratti e interrotti, da colline che diventano città, da città che tornano fango, dal fango che gorgoglia dentro il tempo, dal tempo che si fionda nelle zolle.

Epifania della luce

GE/19 Boiling Projects. Da Guarene all’Etna 19
Fondazione OELLE Mediterraneo Antico
A cura di Filippo Maggia
Ex Chiesa del Carmine  / Palazzo Duchi di Santo Stefano – Taormina
Sino al  31 luglio 2020

Finalmente negli spazi, finalmente nel tempo reale e non in quello fantasmatico, narcisistico, delirante, del solo digitale. Le visite telematiche alle mostre e ai musei – pubblicizzate con grancassa negli scorsi mesi – sono state un fallimento. Ottimo segno dell’intelligenza delle persone, le quali comprendono che vedere un quadro o un’installazione in video può costituire soltanto il ripasso di una mostra e di un museo già visitati, non può certo sostituire la visita alla mostra o al museo.
Il 2 luglio 2020 ci siamo dunque ritrovati in uno dei luoghi più belli d’Europa, in compagnia del curatore Filippo Maggia, del fotografo Carmelo Nicosia (sua l’immagine qui sopra), del sindaco di Taormina Mario Bolognari e del suo assessore alla cultura Francesca Gullotta. Sin dall’inizio qualcosa di strano. Il sindaco Bolognari è infatti anche un antropologo che ha svolto una breve presentazione nella quale ha colto le relazioni profonde che intercorrono fra Taormina e la fotografia. L’assessore Gullotta ha continuato parlando della natura filosofica della fotografia e citando Martin Heidegger. Non credevo ai miei occhi, al fatto che un sindaco possa essere una persona colta e un assessore possa dirsi convinta della centralità della filosofia nella vita individuale e collettiva. Prima e dopo questi interventi il curatore Filippo Maggia ha parlato dei legami tra la mostra in corso e quelle che si sono succedute negli anni, a partire dal 1999.
Maggia ha sottolineato la varietà dell’agire fotografico in Italia, nel quale non esistono tendenze unitarie ma una molteplicità di percorsi, tematiche e sguardi. Questo vale in generale e anche per la fotografia definita ‘di paesaggio’ e ‘urbana’. Se il Viaggio in Italia  di Luigi Ghirri è stato in qualche modo fondativo, se l’opera di Gabriele Basilico è sempre al centro dell’orizzonte urbano, i fotografi presenti a Taormina «non dialogano tra di loro» ma forse dialogano con il mondo ed è questo che conta. E infatti Maggia scrive che «in questa nuova selezione di venticinque autori, la più numerosa dalla nascita di GE (sigla che negli anni ha sostituito il titolo originario Da Guarene all’Etna e venendo ogni volta accompagnata da un sottotitolo), si aggregano altri interpreti che, pur partendo da una riflessione esistenziale personale, proiettano la propria esperienza attraverso la fotografia come fosse una dichiarazione d’intenti, un manifesto, con una pregnanza e una forza che la rendono unica e inimitabile» (pp. 13-14 del catalogo edito da Skira)
E allora il diario di un bambino nelle scuole di Bolzano (De Giorgis) sta accanto alla lussureggiante vegetazione dell’isola di Kos (Fortugno); le rovine di oggetti d’uso quotidiano (Spranzi) si coniugano ai percorsi di guerra nel Trentino (De Pietri); mozzarelle che fluttuano nel loro liquido diventando astratte forme nello spazio (Biasiucci) sono contigue a frutti di mango che appaiono e sono antiche sculture apotropaiche (Mangano); montagne e rocce tra la Lucania (Rossano Mainieri) e la Lombardia (Andreoni) si confrontano con costruzioni contemporanee in cemento e in rovina, come quelle che costellano il Belice (Severini). Pur se con mezzi tecnici e con intenti ancor più metafisici, le immagini di Pino Musi sembrano le più vicine al vuoto urbano di Basilico. Luca Pozzi entra invece con il proprio corpo, e in un modo tutto particolare, in grandi dipinti come le Nozze di Cana di Paolo Veronese. L’artista, infatti, «salta dalla superficie calpestabile del museo – e solamente su di essa una visita può dirsi veramente tale – e attraverso l’artificio della macchina la sua sospensione viene catturata e il suo corpo impresso sulla tela di un grande maestro. L’artista salta in modo fotografico dentro l’opera» (Enrico Palma).
E poi video che documentano eventi e installazioni, nei quali il silenzio della forma diventa più espressivo di tante parole. Sull’Europa e sulla sua fragilità, ad esempio (Di Giovanni).
L’Etna di Carmelo Nicosia è un luogo arcaico, genetico, oscuro, pagano e incalmabile. Non a caso scelsi, anni fa, una fotografia di questo artista (che soltanto dopo avrei avuto il piacere di conoscere) per introdurre la Teogonia di Esiodo. E a Taormina Nicosia ha confermato che l’enigma del vulcano è ai suoi occhi anche apertura, passaggio, meta: «un’epifania della luce».
Ho avuto la soddisfazione di vivere e vedere tutto questo in compagnia di alcuni miei laureati e laureandi del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict. Una compagnia reale e dunque feconda, come si sente anche da queste parole di Daria Baglieri: «Quel che mi ha colpita è che in queste foto saltava fuori l’essenza stessa della fotografia, cioè il fare arte con la luce. Ognuna delle foto che abbiamo visto sarebbe inevitabilmente stata diversa se scattata, per esempio, in un altro momento del giorno o della notte, o all’alba o al tramonto, soprattutto la foto della trincea, per quanto dirlo sia addirittura banale, ma mi è parso che negli scatti delle semplici mozzarelle questo emergesse prepotentemente: nient’altro le avrebbe rese una forma d’arte se non il modo in cui la luce attraversa il loro liquido e le fa apparire per come sono state poi fotografate. Così anche le lucciole e il mango che non sarebbero nemmeno esistiti senza la luce. Penso sia questa la meraviglia della fotografia, ed è il motivo per cui non ne ho fotografata nemmeno una: Platone ci ha insegnato che sarebbe stato praticamente inutile fotografare delle foto; magari avrei avuto un’intuizione dei loro soggetti, ma non avrei conservato la stessa foto perché la luce sarebbe stata inevitabilmente artefatta. Mi pare sia saltato fuori Benjamin a cena, e non ricordo più perché ma credo che qui calzerebbe a pennello: le mie sarebbero state inutili ‘riproduzioni tecniche’, mentre quelle degli artisti sono forme linguistiche, come diceva l’assessore, che comunicano un’esistenza, un vissuto e un’emozione semplicemente cogliendo la luce nel tempo opportuno».
Il tempo opportuno, il καιρός è ciò che la fotografia ai suoi massimi livelli sa cogliere. Anche per questo è luce.

Divenire

Il corpotempo
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXV – numero 74 – dicembre 2019
pagine 28-33

Sono gesti sospesi nello spazio, franti nel tempo, quelli che Montserrat Diaz Mora inventa, scolpisce e ricorda mediante lo sguardo profondo con il quale osserva il divenire e lo ferma. La fotografia è per lei flusso, è lo scorrere del tempo del quale e dentro il quale l’immagine svolge il ruolo inesorabile di testimone dell’andare che nulla può fermare, nulla.
Yo era e Tempus fugit si intitolano le serie dentro le quali lo spazio, gli abiti e gli oggetti non sembrano essere cambiati e invece tutto è mutato dentro i corpi vivi e le loro metamorfosi.
Ogni ente è soglia materica dello spaziotempo infinito che consiste e che diviene: anche il pesce rosso, anche la creatura che si specchia nelle mani, anche il piccolo merlo sulla spalla. L’opera di Montserrat Diaz Mora è questo percepire il divenire, è conoscere l’intervallo, è muoversi nella memoria, è vivere nel flusso il cui delta è da sempre noto a noi βροτοί, a noi mortali. 

Teoresi fotografica

Sul numero 74 di Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini (Anno XXV – Dicembre 2019) i miei allievi Enrico Moncado ed Enrico Palma leggono con raffinata profondità l’opera di due importanti fotografi.
Moncado scrive che «Elkaim sembra conoscere questa saggezza fotografica, questo limite che si rivela essere il senso e il significato più profondo del portare in atto la scrittura della luce, la foto-grafia. La luce di cui si sono nutriti i greci conosce la tenebra, il volto negativo di ciò che appare».
Palma afferma che «tentando di prelevare l’invisibile che vi si annida, Berger provoca il negativo della quiete, il divenire che sempre accade, che non è solo mare, né cielo, ma anche i corpi che vi dimorano. Il mare, una lamina di pause equilibrate, ospita i riflessi di questi placidi naufragi, di cui la macchina mostra il trasmutare».
Invito a leggere queste analisi teoretiche della τέχνη fotografica e a osservare alcune delle immagini alle quali si riferiscono.

[La foto in alto è di Elkaim, tratta dalla serie Sleeping with the Devil. L’immagine, splendida, non compare sulla rivista ma ha contribuito all’analisi svolta da Moncado]

Cile, bianco sangue

Blanco en Blanco
di Théo Court
Con: Alfredo Castro (Pedro, il fotografo), Lars Rudolph, Danny Huston (L’amico), Lola Rubio, Esther Vega
Spagna, Cile, Francia, Germania, 2019
Trailer del film

Agli inizi del Novecento parte del Cile era ancora terra di conquista di proprietari terrieri simili a quelli che agli inizi del XXI secolo vanno distruggendo l’Amazzonia, allo scopo soprattutto di creare pascoli e rifornire di carne le mense statunitensi ed europee.
Porter è uno di questi ricchi proprietari, le sue terre sono molto a Sud. Pedro è un fotografo che viene incaricato di immortalare il matrimonio di Porter e Sara, la sua giovane sposa. Sara è in realtà poco più che una bambina e Pedro ne viene affascinato. Porter non si presenta nella propria tenuta, il matrimonio viene rinviato, Pedro è coinvolto dagli sgherri di Porter nella strage delle popolazioni che abitano la Terra del Fuoco, i Selknam, che da questa conquista vennero sterminati sino a estinguersi. È uno dei tanti genocidi che sono accaduti e vengono dimenticati, concentrati come siamo a ricordarne incessantemente uno solo.
La prima parte del film narra l’arrivo di Pedro, il suo lavoro sul corpo e sull’immagine della sposa, il gelo che soffia tra le case e sulla terra. La seconda parte descrive il cedimento del fotografo/artista alla violenza perpetrata da coloni che non rispettano nulla, che massacrano e si fanno poi immortalare in queste loro imprese. Pedro organizza le foto della caccia grossa contro altri umani con la stessa meticolosità con la quale ha fotografato la sposa bambina. Due stupri, uno storico e l’altro allegorico, dai quali è nato il Cile moderno, come le altre nazioni frutto dei conquistadores, dei mercanti, dei missionari cristiani. Il luogotenente di Porter, infatti, sostiene che il primo edificio da costruire in un nuovo villaggio deve essere la chiesa.
I ritmi sono analoghi a quelli delle fotografie che emergono a poco a poco dalla camera oscura di Pedro; le inquadrature somigliano a dei dipinti solitari e lontani; non ci sono infatti primi piani in questo film ma immagini che rinviano agli spazi sconfinati e a una altrettanto grande solitudine. La fragilità di Pedro di fronte alla violenza degli umani, all’indifferenza del vento, al bianco della neve, disegna la disperazione della storia.

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