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Gianni Berengo Gardin

Orta San Giulio
(Novara)
Gianni Berengo Gardin – Reportrait
Palazzo Penotti Ubertini
Sino al 18 ottobre 2009

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Città di lago, borgo medioevale e rinascimentale, alture che si ampliano a paesaggio, specchio della bellezza d’Italia. E di fronte la piccola isola colma di edifici, balconi, viottoli e chiese. Nel settecentesco Palazzo Penotti Ubertini di Orta San Giulio sono stati raccolti alcuni dei ritratti che Gianni Berengo Gardin ha realizzato e che nell’istante dello scatto riassumono il senso della vita di un uomo e delle situazioni nelle quali è immerso.
Vite come quella di Ungaretti, colto in due fotografie: la prima lo raffigura da vecchio in un suo intabarrato cappotto, l’altra nel saluto che dava a Venezia a dei manifestanti. E insieme a lui tanti altri tra gli artisti della seconda metà del Novecento. Immagini di fronte alla quali vengono in mente le parole di Elias Canetti sulla salvezza che l’arte rappresenta: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (Massa e potere, Adelphi, p. 336).

Robert Wilson. WOOM Portraits

Milano – Palazzo Reale
Sino al 4 ottobre 2009

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Ritratti di attori, coreografi, cantanti, uccelli, porcospini, cani. Nelle forme più diverse che vanno dalle citazioni (Rembrandt, Beckett, vari film) alle pose più surreali, ironiche, sospese, intime, truci, solenni. Ma non è questo ciò che conta. È che le foto di grande formato a guardarle bene prendono vita, si muovono, respirano. Il genio di Bob Wilson ha prodotto ancora una volta qualcosa di semplice e di unico, che utilizza la strumentazione video per unire in un solo oggetto fotografia, cinema, musica, teatro.

Davanti al grande schermo che riproduce Winona Ryder nei panni della Winnie di Giorni felici e dove tutto è immobile ancor più che nel dramma perché tutto è silenzioso, le luci e le ombre che girano intorno alla protagonista, al mucchio di sabbia dentro cui è immersa, alla borsa, allo spazzolino da denti e alla pistola, scandiscono una vera storia. Ed è proprio l’uso magistrale dell’illuminazione e del corpo immobile dei soggetti a rendere questi Portraits una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale.

Camera Work

Camera Work. L’opera fotografica di Stieglitz, Steichen e Strand tra Europa e America
Milano – Palazzo della Ragione
Sino al 13 settembre 2009

Parafrasando una celebre frase di Flaubert (riferita agli dèi) ricordata da Yourcenar nei suoi Taccuini per Adriano, si potrebbe dire -a proposito di questa mostra- «Quando la pittura non c’era più e la fotografia non c’era ancora, c’è stato un momento unico in cui è esistita l’immagine, sola».
I cinquanta numeri della rivista Camera Work, pubblicati tra il 1903 e il 1917, costituiscono infatti una forma d’arte del tutto originale, che mediante lo strumento della photogravure riproduce luoghi, paesaggi, ritratti e quadri trasformando ogni cosa nella potenza della forma.
Custodite e mostrate nelle teche e riprodotte in grande sulle pareti del Palazzo della Ragione, le opere dei 21 artisti che lavorarono per Camera Work sono fotografie, a tutti gli effetti fotografie, libere dall’intenzione di imitare altre espressioni, compresa la pittura, e tuttavia in quella tecnica che esalta ombre, sfumature e contrasti, diventano e sono pura poesia. Espressionismo, Secessione, Impressionismo, Razionalismo architettonico, documentazione di contesti sociali e antropologici, si fondono in immagini calate nello spazio e tuttavia fuori dal tempo, con qualcosa di eterno, come -appunto- gli dèi.

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Robert Frank

Lo straniero americano
Milano – Palazzo Reale
Sino al 18 gennaio 2009

Un bianco e nero feroce e raffinato. Capace di svelare la pienezza del non senso. «All present in front of always changing fog», come scrive lo stesso Robert Frank (nato in Svizzera nel 1924). Nebbia che avvolge un’umanità silenziosa, profonda. Le foto mostrano il battito del suo cuore. Luoghi e città esistono solo come proiezione degli umani che le abitano e le edificano E tuttavia lo sguardo è fuori dal tempo, come se fossero tutti morti. Specialmente nella serie dedicata al 4 luglio 1958 a Coney Island -con i soggetti che dormono soli sulla spiaggia umida- e nelle opere più recenti, degli anni Novanta. Infatti, «you know, photographs immediately make everything old» e «now doesn’t really exist in photography. It’s always the past». Un’America senza retorica, un’umanità fatta di individui che cercano una qualche luce «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, p. 459).

Gregory Crewdson – Dream House

Gregory Crewdson
Milano – Galleria Photology
Sino al 22 novembre 2008

La casa è abitata dall’inquietudine e dall’immobilità. Come se le esistenze si fossero fermate su un interrogativo, in un istante di dolore, di meraviglia, di svelamento. Gli umani sono circondati da oggetti, mobili, vegetali. Le scene sono accuratissime. Il crepuscolo o la notte avvolge l’aria e la rende densa di un accadere che sappiamo sarà ma non sapremo come sarà. Il sogno sembra virare a ogni istante verso l’incubo senza però mai toccarlo. È dunque un asintotico sognare, quello di Gregory Crewdson.

Non avevo mai visto la fotografia avvicinarsi sino a questo punto alla pittura. Al di là della presenza nelle scene di noti attori hollywoodiani, al di là dei riferimenti all’arte documentaristica o anche alle solitudini e ai silenzi di Hopper, mi sembra che uno dei segreti di queste immagini così difficili e così potenti sia la luce caravaggesca che si sprigiona dai protagonisti umani e lambisce di sé le cose trasformandosi in tenebra.

Palermo Shooting

di Wim Wenders
Con: Campino (Finn), Dennis Hopper (Frank), Giovanna Mezzogiorno (Flavia), Patti Smith (Se stessa) Milla Jovovich (Se stessa)
Germania-Italia 2008

Düsseldorf. Finn è un celebre fotografo che si divide tra gallerie d’arte, foto di moda, ascolto di musica e profonda solitudine. Da quando è morta sua madre, fa sogni nei quali il tempo diventa liquido, gli orologi si piegano, gli spazi si dilatano o contraggono. Abituato a fotografare ovunque -anche mentre guida- evita per poco uno scontro frontale. La foto scattata in quell’istante raffigura una persona che gli sembrerà di incontrare anche a Palermo, dove si reca per un servizio fotografico. Qui conosce Flavia, pittrice che sta restaurando il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis. Con lei cercherà di capire che cosa davvero gli stia accadendo, chi veramente stia sognando…

Wim Wenders continua il suo personale periplo del mondo. Dopo Tokyo, Lisbona, Berlino, il Texas, immerge questa vicenda tra la sua città natale e Palermo. Senza concedere nulla a promozioni turistiche ma cogliendo l’inquietudine dei luoghi. Palermo Shooting affronta in modo diretto il tema chiave, la morte, e lo fa con espliciti riferimenti a Bergman (Il posto delle fragole, Il settimo sigillo), a Escher e -più nascosti- a David Lynch. L’opera comincia con le mummie della cripta del Cappuccini e ruota intorno al carattere, al corpo, agli incubi del protagonista, presente in ogni scena. Nel ruolo più difficile, un Dennis Hopper misurato ma sempre inquietante. Il film è rischioso perché oscilla di continuo tra il sublime e il ridicolo ma il risultato è di una certa suggestione, soprattutto nell’analisi dell’affresco quattrocentesco e nel modo in cui viene legato all’intera trama

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