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Il sogno di un dio

Ferdinando Scianna. Ti ricordo Sicilia
Castello Ursino – Catania
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 20 ottobre 2023

Bagheria, il mare, le ragazze, i mostri di Villa Palagonia, la campagna, la bellezza conturbante e gelida di Marpessa, le processioni, la festa, i bambini, i vecchi, Leonardo Sciascia. E l’andare e venire dalla Sicilia verso l’altrove. Il dover fuggire ma poi sempre ritornare nel grembo dell’Isola di tripudi e di sfacelo, di cenere mista al sangue degli eroi, dove – nelle urne memori dei Padri – morire è acquietarsi nella luce.
La Sicilia appare fra lontane terre emerse come la sintesi semplice del mondo, una lucente antologia dell’universo. I suoi scrittori la disegnano, la scavano. I suoi fotografi – al Castello Ursino di Catania Ferdinando Scianna, in tante occasioni e luoghi Franco Carlisi – la illuminano, la raccontano. I suoi pittori ne restituiscono le tenebre e la luce. I suoi filosofi, Gorgia, Nicola Spedalieri, Giovanni Gentile, la rendono teoretica.
Ma forse la Sicilia non esiste. Forse l’Isola è il sogno inquieto di un dio e noi siamo parte di questo sogno.

Sottsass

Ettore Sottsass
Catania mia!
Museo Civico Castello Ursino – Catania
A cura di Barbara Radice, con Iskra Grisogono – Direzione artistica Christoph Radl
Promossa dalla Fondazione OELLE Mediterraneo Antico
Sino al 21 maggio 2023

Catania – Particolare della Porta Ferdinandea – Porta Garibaldi (‘u Furtinu)

Gli eclettici sono la ricchezza del mondo umano. Coloro che non si fermano a una iperspecializzazione esperta di un particolare e ignorante su tutto il resto. Coloro che sanno che la vita e il sapere sono la stessa cosa e che il sapere è unitario, è un’unica, fragile e magnifica onda nell’oceano dell’ignoranza. Praticare tutti i saperi era possibile quando i ‘libri’ (in ogni loro forma e argomento) si contavano a qualche migliaio. E forse era ancora possibile al tempo di Leonardo da Vinci e di Leibniz. Da quando la progressiva autonomia di molti saperi dal tronco della filosofia e l’ampliarsi delle università e delle scuole hanno prodotto, tra gli altri effetti, una sempre più marcata specializzazione, nessun singolo può più aspirare a una conoscenza totale. E tuttavia coloro che studiano, che pensano, che creano concetti, ipotesi, tesi e manufatti dovrebbero aspirare a una unitarietà del sapere che non riguarda la somma delle conoscenze ma una forma coerente con la quale guardare la pluralità sconfinata degli enti e degli eventi a partire da una prospettiva fondante.
L’architetto, designer, fotografo Ettore Sottsass (1917-2007) ha tentato questo sguardo, almeno nell’ambito che va sotto il nome di arte, di ποίησις, di plasmazione della densità materica nella leggerezza degli oggetti, nell’invenzione di architetture, nello sguardo fotografico. Viaggiatore appassionato, Sottsass visitava spesso anche Catania. Con la consueta curiosità ha fotografato la città nel passaggio dal XX al XXI secolo, con i suoi luoghi ed eventi tradizionali, con gli umani sempre uguali e disincantati, con il culto di Agata, con le rovine ben annidate dentro il tessuto urbano, con lo Ionio cha va da Catania a Cassibile, con il Monastero dei Benedettini e Piazza Dante che si avviavano a diventare la più bella sede universitaria d’Italia e una delle più suggestive d’Europa.
Il bianco e nero di quasi tutte le 111 fotografie esposte al Castello Ursino contrasta singolarmente con l’esperienza del colore che intride tutta l’opera di questo artista, con la sua concezione ontologica del colore come sostanza delle cose che sono. Ma forse il colore è la potenza degli oggetti inventati, il bianco e nero è il limite degli enti e degli eventi umani.
Un coinvolgente video con una lunga, vivace e disvelatrice intervista a Sottsass e ad alcuni suoi collaboratori, – intervista con interessanti risvolti politici sulla «capacità del potere di assorbire anche le novità più ribelli» –  completa la presenza a Catania di quest’uomo abile, saggio e malinconico.

Catania – Il mercato del pesce

Il corpo nello spazio

Carlo Traini. Il corpo nello spazio
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXIX – numero 80 – marzo 2023
pagine 62-67

‘Fèrmati dunque, sei così bello!’ sembra dire Carlo Traini al corpo umano. Corpo non sempre bello, anzi a volte sgraziato, obeso, anziano. Più spesso, certo, è un corpo giovane, muscoloso, desiderabile, forte. In ogni caso il fotografo lo osserva a lungo e con cura e poi lo ferma nell’istante in cui il corpo parla senza bisogno di proferire parola. A esprimersi è infatti il dinamismo dei corpi, il loro muoversi rapido nello spazio, il loro capovolgersi in verticale scattanti o in attesa di un pallone che arriva dal cielo, nelle capriole dentro le onde del mare, scrutando l’orizzonte nella luce, persino in un abbraccio sulla sdraio che sembra disegnare un ibrido, un androgino dalla testa di maschio e dal flessuoso e attraente corpo di femmina.
Un gesto d’intelligenza del fotografo è aver tradotto tutto questo in un limpido bianco e nero che ha depurato i corpi dall’eccesso di luce dell’estate, mantenendo in questo modo l’εἶδος, la loro essenza.

Robert Capa / La guerra

Robert Capa. Nella storia
Museo della Culture (Mudec) – Milano
A cura di  Sara Rizzo, in collaborazione con Magnum Photo
Sino al 19 marzo 2023

«Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino». A dirlo è Endre Ernő Friedmann, che da fotografo prese il nome di Robert Capa. E infatti finì la sua breve vita (era nato a Budapest nel 1913), durante l’ennesimo reportage di guerra, nel 1954, in Indocina/Vietnam, saltando su una mina antiuomo.
La guerra è il tema principe della sua arte, ma non è l’unico. E soprattutto la guerra non sono i morti e le distruzioni ma l’umanità viva davanti ai morti, immersa nella distruzione, nel tentativo di scampare, nella festa per la guerra che si conclude. La guerra non è decisa da nessuno ma sono gli umani – e tra loro soprattutto i potenti – a essere decisi da essa.
La guerra è una passione mortale, la cui natura suggerì ai Greci di trasformare in amanti Ares e Afrodite. La costanza della guerra nonostante la sua devastante irrazionalità è essa stessa prova e indizio di una razionalità ben espressa dall’ironia di Euripide. In Ὀρέστης, infatti, Apollo spiega la ragione antropodecentrica per la quale gli dèi permettono, organizzano, assistono, vogliono la guerra tra gli umani: «θανάτους τ᾽ ἔθηκαν, ὡς ἀπαντλοῖεν χθονὸς / ὕβρισμα θνητῶν ἀφθόνου πληρώματος», «tante morti vollero, per sgravare la terra dall’insolenza d’una ciurma d’uomini sterminata» (vv. 1641-1642). Comprendere dunque «la fusione tra bellezza e violenza, tra terrore e amore – il terribile amore per la guerra» (Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2005, p. 133) significa riconoscere la ferocia della guerra riuscendo tuttavia a spiegare perché essa sia così costante e così coinvolgente.
Questo terribile amore per la guerra percorre le opere di Capa.
I profughi tedeschi che il 24 marzo 1945 lasciano le loro case e i campi ridotti in cenere.

 

I bambini cinesi di Hankou che giocano nella neve durante la guerra Cino-giapponese nel 1938.

CHINA. Hankou. March, 1938. Children playing in the snow

Le donne di Mosca che ballano tra di loro nel 1947 anche perché molti uomini sono morti al fronte (immagine di apertura)

Lev Trotsky che a Copenhagen il 27 novembre 1932 esercita tutto il proprio fascino e forza retorica per sostenere «la rivoluzione permanente», vale a dire la guerra permanente.
DENMARK. Copenhagen. November 27th, 1932. Leon Trotsky lecturing

Come si vede, non ci sono cadaveri qui. C’è la vita umana prima, durante e dopo la guerra. La vita umana sempre.

L’infanzia, la morte

L’infanzia, la morte – Pierluigi Ciambra
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVIII – numero 79 – dicembre 2022
pagine 16-21

Queste bambine non sono solo bambine. Queste figlie non sono soltanto figlie. Queste creature hanno qualcosa di sacro, come divinità incarnate in forma infante ma che annunciano quello che la fotografia sempre dice, testimonia, mostra: la morte.
Tre bambine (tre come le Parche, tre come le Moire) sono immerse fino al busto dentro il mare. Un mare grigio che soltanto sullo sfondo assume la tinta rosa del Sole al suo tramonto. Le tre creature sono silenziose, intense, padrone dello sguardo dentro il mare, dentro la vita, dentro la sua fine.

Sulla Cina

Henri Cartier-Bresson
Cina 1948-49 / 1958

Museo delle Culture (Mudec) – Milano
Sino al 3 luglio 2022

In Cina nel 1948 l’esercito e il governo nazionalisti si dissolvono e l’esercito comunista occupa Pechino, le altre grandi città, le campagne. Tutto sembra crollare in pochi giorni. La moneta torna a diventare la carta che è. Le persone si accalcano davanti alle banche sperando di trasformare quella carta in oro reale. La fame riappare ma la vita quotidiana in qualche modo continua. Il passato millenario si trova di fronte alla durezza del presente e all’incertezza del futuro. Nei templi continua a vivere indistruttibile il sacro, mescolato alle superstizioni, alla fede. Il tifone che colpisce Shangai a fine luglio 1949 ricorda a tutti che il tempo non è soltanto storia umana ma è anche materia e cielo che continuano indifferenti a essere ciò che da milioni di anni sono.
Cartier-Bresson osserva e fotografa tutto questo con una grande oggettività dello sguardo unita a una profonda pietà.
Oggettività, pietà e curiosità che esercita dieci anni dopo, quando torna in Cina per documentare la nuova vita, il nuovo potere, le nuove fedi che muovono quel Paese immenso. E vede volontari che costruiscono una diga con l’ebbrezza dell’essere massa, di un progetto e di un fare che somigliano a quelli di un formicaio. Vede parate e manifestazioni celebrative con giovani che danzano, saltellano, sorridono. In ogni caso una festa, qualunque ne sia stato e ne sarà il prezzo. Vede il paesaggio sconfinato e i manufatti millenari che lo abitano, per i quali la storia umana rimane in ogni caso una piccola parte della vera storia, quella degli elementi.
Storia che per Cartier-Bresson è inseparabile dalla geometria dello sguardo, dalla capacità del suo occhio e della sua macchina fotografica di inserire i corpi viventi e i loro movimenti dentro le strutture formali che i corpi attraversano e con i quali si armonizzano. Per lui sono queste e soltanto queste le immagini che valgono, che sceglie, che vuole. Immagini nelle quali l’elemento umano, quello architettonico/spaziale e quello naturale convivono sino a diventare una cosa sola.
Tutto ciò conferma la natura ermeneutica della fotografia. L’artista lo afferma apertamente: a contare non sono i fatti ma il punto di vista che li coglie, l’interpretazione che se ne dà. Tra i due viaggi in Cina, nel 1952, scrisse infatti questo: «Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e di una precisa organizzazione di forme che danno a quell’evento la sua giusta espressione» (Images à la sauvette, Verve).
L’imprendibilità della storia è colta tramite l’invenzione geometrica dell’istante, del tempo.
Che cosa è la Cina adesso? Che cosa è diventata la Cina rivoluzionaria e dispotica fotografata da Cartier-Bresson? Che cosa potrà diventare? Lo racconta e lo spiega bene Simone Pieranni, parlando di WeChat, l’analogo cinese di Facebook ma ancora più pervasivo, se possibile. E sembra possibile. Leggete questo breve articolo, assai istruttivo: Cos’è WeChat? (17.6.2022). Leggetelo alla luce di un’affermazione che nel testo di Pieranni non c’è e che sembra entrarci poco e invece a me sembra centrale: l’Europa che sta morendo perché diventata colonia della potenza anglosassone sarà pronta -al momento opportuno- a diventare colonia della Cina. Perché in entrambi i casi non c’è e non ci sarà più la filosofia greca a difenderne le libertà. 

 

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