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Colore / Artificio

Juergen Teller. The Girl with the Broken Nose
Palazzo Reale – Milano
Sino al 4 novembre 2012

Non c’è niente da fare: anche quando si impegnano a elevarsi un po’, i fotografi di moda (nel senso di quelli che fotografano i vestiti e chi li porta) ricascano sempre nel patinato. Un’eccezione è forse David LaChapelle proprio per la sua evidente esagerazione cromatica e la parodistica tragicità della serie Deluge. Teller, invece, è un bravo fotografo manierista. L’uso che fa del flash immerge lo spazio e i soggetti in un’atmosfera di chiara finzione. Gli oggetti vanno diventando umani -come la statua dal naso rotto alla quale è dedicato il titolo della mostra- e gli umani sono oggettivati nella natura/artificio.
Delle nove grandi fotografie (quasi tre metri x due) in mostra a Palazzo Reale, le più interessanti sono forse quelle che non presentano figure umane -di carne o di pietra- e capaci di descrivere le sfumature dell’autunno in una scala cromatica che sembra musica.

La tristezza della storia

Fabio Mauri. The End
Palazzo Reale – Milano
A cura di Francesca Alfano Miglietti
Sino al 23 settembre 2012

L’oltrepassamento delle specializzazioni è uno dei caratteri dell’arte contemporanea. Un elemento che va in controtendenza rispetto a quanto accade invece nell’ambito dei saperi, dove la specializzazione è sempre più richiesta sino a rendere spesso asfittica la ricerca.
Anche Fabio Mauri (1926-2009) è stato dunque pittore, fotografo, scultore, drammaturgo, critico e ha sperimentato una serie di linguaggi molto diversi, contaminandoli tutti fra di loro. In questa mostra che si inserisce nel contesto dell’attenzione che Milano sta rivolgendo agli anni Settanta (con il capolavoro dedicato da Enrico Baj a Pinelli e con una deludente mega rassegna su quel decennio) si conferma il grande interesse di Mauri verso la storia del Novecento. Le installazioni  dell’artista documentano e interpretano il cinema, le città, le persone, gli oggetti della Germania nazionalsocialista, dell’Italia sotto il fascismo, della Cina al tempo di Mao. Tra le opere più riuscite Il muro occidentale o del pianto (1993) composto tutto di vecchie valigie. Le valigie che furono degli ebrei, ad esempio, e che adesso sono dei palestinesi cacciati dalla loro terra da uno Stato usurpatore come quello israeliano.
Interessanti i frutti dell’amicizia con Pier Paolo Pasolini, col quale Mauri collaborò più volte. Qui viene ripresa l’installazione che nel 1975 a Bologna proiettava Il Vangelo secondo Matteo sul corpo del suo autore, una vera incarnazione della Passione. E poi questa scritta The End ripetuta tante, tante volte, nelle forme e sui supporti più diversi. Uno degli ultimi esempi -proprio del 2009- è la parola incisa a fondo su un muro bianco. Fine di che cosa? Forse della speranza. Qualcosa di triste aleggia infatti in tutta l’opera di Mauri. Un sentimento che sembra riscattarsi nella bellissima fotografia che costituisce il manifesto della mostra ma in una forma, per dir così, “castigata”. La foto infatti ritrae una ragazza il cui viso immobile e assorto poggia sulle proprie mani, le quali formano il lato di un triangolo che nella foto intera si apre sulle sue cosce spalancate. L’immagine si intitola Ideologia e natura (1973) e nel suo erotismo freddo dice molto del nostro tempo.

Scultura / Fotografia

Elad Lassry. Verso una nuova immagine
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Alessandro Rabottini
Sino al 16 settembre 2012

«Sculture cui capita di essere fotografie», così Elad Lassry definisce le proprie opere. L’immagine fotografica, infatti, viene conservata nella sua propria struttura e nella funzione immediatamente espressiva ma viene anche trasformata attraverso l’accostamento -dentro e fuori una cornice- con altri materiali artistici, con sfondi pittorici, con elementi esterni che trasformano la bidimensionalità dell’immagine in movimento plastico.
Nella loro apparente semplicità, queste opere nutrono l’ambizione di riassumere la storia dell’arte europea. In esse è infatti evidente il richiamo all’ordine rinascimentale del ritratto, al figurativismo ottocentesco, alla classicità delle avanguardie che vanno da Duchamp alla Pop Art. Cromatismi in stile Mondrian si affiancano al fumetto. Varietà dei soggetti e serialità delle forme rendono piacevole e calma la visione. Si ha la sensazione di ritrovarsi in un mondo ludico, infantile e silenzioso. Un mondo un po’ troppo ammiccante verso il gusto dei collezionisti per essere davvero all’altezza delle proprie ambizioni.

La fotografia, gli umani, l’istante

Ugo Mulas. Esposizioni. Dalle Biennali alla vitalità del negativo
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Giuliano Sergio e Archivio Ugo Mulas
Sino al 9 settembre 2012

I luoghi, gli eventi, gli umani. Questi sono i soggetti ai quali Ugo Mulas dedica lo sguardo della propria macchina fotografica. Soggetti quindi universali, per i quali lo scopo del fotografo è una resa quanto più oggettiva possibile. Come se le foto si fossero fatte da sé, anzi fossero emerse dal divenire stesso delle cose/situazioni per imprimere il loro bianco e nero sulla carta.
La bella città di Spoleto (1962) diventa l’armonioso stridore che sale dai vicoli e delle case medioevali contaminate con sculture contemporanee fatte d’ascesi. Le numerose edizioni della Biennale di Venezia tra gli anni Cinquanta e Sessanta iniziano con eleganti sorrisi e finiscono con i poliziotti che manganellano gli artisti. Nel mezzo svettano lo sguardo di Pomodoro e l’eleganza di Melotti, entrambi colti tra le loro opere.
Il Pergamon di Berlino e la Nike del Louvre danno l’impressione che i visitatori neppure ci siano dentro i musei che li ospitano, tale è la potenza con la quale l’architettura e la scultura ellenistiche vengono colte da Mulas. E invece nella visita a un museo russo è evidente che al fotografo non importano i quadri ma l’umanità che li guarda. In un gruppo di visitatori tutti stanno col naso in su ad ammirare qualcosa. Tutti tranne una bambina, che fissa dritto dritto il fotografo negli occhi. Questo bellissimo e dislocante gioco spaziale degli sguardi diventa esplicita riflessione sul tempo nella serie intitolata Verifiche: l’installazione di Jannis Kounellis -un uomo che suona un pianoforte- viene fotografata in rapida successione. In questo modo, afferma Mulas, «il tempo acquista una dimensione astratta, nella fotografia [il tempo] non scorre naturalmente, come accade nel cinema e nella letteratura. Sullo stesso foglio, nello stesso istante  coesistono tempi diversi, al di fuori di ogni constatazione reale». Mentre dunque le parole appaiono una dopo l’altra nel foglio o sul monitor, mentre i fotogrammi devono scorrere a una ben precisa velocità affinché un film esista, la fotografia può cogliere l’identità dell’istante e la differenza del suo fluire. Può cogliere quindi molto dell’enigma che il tempo è.
Assai altro c‘è in questa mostra. Che cosa, lo spiega Giusy Randazzo in un’erudita recensione alla quale rimando.

Luoghi/Percezione

1984. Fotografie da Viaggio in Italia. Omaggio a Luigi Ghirri
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Roberta Valtorta
Sino al 26 agosto 2012

Anni dentro gli anni, opere dentro le opere. Nel 1984 Luigi Ghirri inventa e costruisce il paesaggio italiano contemporaneo chiedendo a venti fotografi di posare il loro sguardo sui luoghi che fanno l’Italia. Nel 2004 Maurizio Magri e Vittore Fossati girano un film che ricostruisce e fa rivivere la mostra realizzata vent’anni prima. Nel 2012 la Triennale di Milano ripropone quel film e cento delle fotografie esposte a Bari nel 1984.
Dalle parole degli artisti e dalle loro opere emerge ancora una volta la verità fenomenologica per la quale gli oggetti, i luoghi, le situazioni che vediamo sono anche il frutto dello sguardo con il quale osserviamo le cose, attraversiamo gli spazi, costruiamo i paesaggi. Il cosiddetto “realismo” è un pregiudizio, lo sguardo “puro” è un’interpretazione. L’oggetto del fotografo non è un dato empirico ma è uno stile, lo stile del suo sguardo. Lo confermano i tanti modi, i diversi approcci, i differenti risultati che questa mostra testimonia (dei quali dà conto un’ampia recensione di Giusy Randazzo). Il mondo è la sua percezione. In questo senso -gnoseologico e non ontologico- aveva proprio ragione il vescovo George Berkeley. L’esse della fotografia è la sua attiva percezione del mondo. Esemplari, in questo senso, sono le opere di Gabriele Basilico e di Olivo Barbieri. Basilico trasforma lo spazio in una forma nitida, in una geometria del silenzio. Barbieri mediante un raffinato utilizzo di luci artificiali trasfigura i luoghi anche più abituali nella gloria di pure immagini.

Un’inquietudine che si autocelebra

Addio anni 70. Arte a Milano 1969-1980
A cura di Francesco Bonami e Paola Nicolin
Milano – Palazzo Reale
Sino al 2 settembre 2012

Ad accogliere è una semplice cornice dentro la quale è inscritta la parola Gliannisettanta (Alighiero Boetti) . Nella stessa stanza sta la Bariestesia (Gianni Colombo), una serie di scale asimmetriche che vanno percorse per comprendere quanto straniante possa essere lo spazio. Un incipit nel quale l’ordine della parola racconta il disordine dei luoghi e degli eventi. Da qui ci si inoltra in un vero e proprio catalogo, a volte bulimico, degli anni Settanta.
Copie delle edizioni L’erba voglio e di Alfabeta. La dinamica classicità delle sculture di Fausto Melotti. Il Nuovo Realismo nella varietà delle sue forme, tra le quali i piatti e i tavoli sporchi del Restaurant Spoerri. I funerali delle vittime di Piazza Fontana fotografati da Ugo Mulas. Christo che impacchetta il monumento a Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo. I ritratti fotografici di Carla Cerati che descrivono altri funerali, i processi più celebri, i personaggi più paradigmatici. L’Orlando Furioso messo in scena da Ronconi in mezzo al pubblico assiepato in piedi. Le superfici acriliche e asettiche di Enrico Castellani. Bernd e Hilla Becher che fotografando gasometri, torri d’acqua e fornaci mostrano tutta la bellezza urbana del paesaggio industriale, da Sironi in poi. John Cage al Teatro Lirico il 2 dicembre 1977. Cesare Colombo e Gianni Berengo Gardin che colgono Milano negli angoli e nei modi di esistere più suoi, mentre Gabriele Basilico si concentra sul proletariato giovanile che la abita. I raduni di questo proletariato, e di chi a proletario si atteggiava, documentati con le immagini e il sonoro. Il tardo e sterile surrealismo di Sergio Dangelo. L’intuizione della Révolution informatique di Simon Nora e Alain Minc. Il narcisismo di Emilio Isgrò che si celebra nella serie di attestati, firmati da lui e da altri, nei quali dichiara di non essere Emilio Isgrò. Le grandi tele colorate di Valerio Adami. Il grigio brechtiano di Emilio Tadini. I meravigliosi Segmenti in bronzo di Arnaldo Pomodoro. Gli Studi di anatomia di Giovanni Testori, espliciti sino al porno. Le metafore materiche di Alik Cavaliere.

Un’inquietudine che si autocelebra, questo è la mostra che Milano ha dedicato a se stessa nel tempo in cui pensava di cambiare il mondo mentre poi fu essa a cambiare, diventando la craxiana capitale della corruzione politica. E questo avvenne -triste a dirlo ma così fu- con la complicità attiva o rassegnata di non pochi fra coloro che volevano, o immaginavano di volere, la Rivoluzione.
Sorpresa-Scandalo-Normalità-Museizzazione. L’inevitabile ciclo di ogni avanguardia e sperimentazione ha in questa mostra una conferma quasi didascalica. La storia (il tempo) davvero tutto tritura, tutto immobilizza. Un Addio malinconico a un decennio che è fallito nelle sue speranze ma che ha vinto nella sua rassegnazione alla legge del più forte. Poiché la città non è riuscita a essere più forte delle banche, ha riconosciuto la loro forza e vi si è sottomessa. Eppure in questo suo quasi funebre autoricordare, Milano mostra di essere ancora la città più critica d’Italia. E questo è parte della sua grandezza, del suo dramma.

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