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Parigi inventata

Robert Doisneau. Paris en liberté
Spazio Oberdan – Milano
Sino al 5 maggio 2013

Parigi tra il 1934 e il 1991. Questa città, che vive di un’identità esatta e di una differenza che la rende sempre nuova, oggi non è più quella che gli occhi di Doisneau hanno inventato. Inventato, sì, perché di se stesso il fotografo diceva di essere un «falso testimone». Basta infatti fermare in un’immagine il fluire senza posa delle vite per creare un falso che dei luoghi e degli umani dice assai più della piatta verità di ogni ingenuo empirismo cronachistico. La celebre fotografia del Bacio dell’Hotel de Ville (1950) sembra rubata al fiume della gente parigina e invece venne costruita -racconta l’artista- in modo meticoloso e consapevole poiché «vedere, a volte, significa costruirsi, con i mezzi a disposizione, un teatrino e aspettare gli attori» (Doisneau, 23.10.1984). 
Recitano dunque in questa bella mostra i pedoni che corrono in Place de la Concorde per sfuggire alla muta delle automobili; recitano i venditori delle Halles prima che nel 1971 venissero demolite; recitano personaggi noti come Buñuel, Giacometti, de Beauvoir, Simenon, Greco, Binoche e numerosi altri; recitano centinaia di sconosciuti: ragazzini, turisti, prostitute, pescatori, ballerine, passanti. Recita la città -i suoi spazi, i suoi umani- sempre viva, vivace, vitale. Una Parigi quotidiana e insieme turistica, radicalmente finta e profondamente vera. Una città che il suo amante, Doisneau, ha messo in posa e dalla cui immagine ha tratto per sé e per noi una semplice felicità, una testarda tenerezza. 

Assenze

Absence of  Subject
August Sander e Michael Somoroff

A cura di Diana Edkins e Julian Sander
Palazzo delle Stelline – Milano
Sino al 7 aprile 2013

Un fotografo crea dei ritratti: corpi, volti, figure intere, sfondi. Un altro fotografo conserva di queste immagini gli oggetti, le cose, gli alberi, la campagna, il cielo, i mobili,  le pareti, le porte. E toglie gli umani, li cancella. A sei di questi ritratti aggiunge poi il vento. Le fotografie diventano così dei video nei quali lo spazio si anima lentamente, scompaginando le pagine dei libri, carezzando i prati, aprendo e socchiudendo una porta, muovendo le tende. Intensa e straniante azione di risemantizzazione del già esistente, il cui senso è certo molteplice -estetico, tecnico, filosofico- e che intende soprattutto raffigurare la morte.
Quando infatti August Sander (1876-1964) fotografa l’umanità tedesca tra gli anni Dieci e Trenta del Novecento, non soltanto compone dei magnifici ritratti individuali e collettivi ma sa di aver consegnato quelle persone al loro tramonto, di aver lasciato traccia di una comunità e di alcune singole esistenze che in un quando più o meno lontano non saranno.
Michael Somoroff (1957) ha colto alla radice questa intenzione e l’ha portata a compimento. Il vuoto che le sue immagini comunicano è qualcosa di doloroso e insieme oggettivo, di inevitabile. Nell’assenza del Soggetto rimangono a dominare il tempo, lo spazio, le morte cose alle quali soltanto l’arte e il concetto restituiscono vita.

Angelo Anzalone. Gli umani, la luce

Ex Monastero dei Benedettini – Corridoio dell’Orologio – Catania
Il Tempo della Vita
Sino al 20 dicembre 2012

 

[Inserisco qui il testo critico che ho scritto per la mostra, che spero aiuti ad apprezzare l’opera di questo giovane fotografo]

L’immagine fotografica è luce diventata geometria. Sono quei tagli che feriscono lo spazio dandogli visibilità. È l’esistenza che si fa forma, idea, visione. Tre parole che nel greco di Platone sono una soltanto: Eîdos. Per il filosofo ateniese l’immagine fotografica sarebbe, naturalmente, l’ultimo e fragile riflesso della verità. E tuttavia è di questo riflesso che la filosofia vive, è questo debole bagliore di una luce assai più densa che millenni di pensiero, di scienza, di arte hanno indagato.
E dentro questo barlume gli umani. Essi appaiono nelle immagini di Angelo Anzalone come se fossero una sostanza sola con la luce che li esplora, li ferma, li conosce. Immobile per sempre è l’istante ebbro nel quale un’anziana donna ride soddisfatta e compiaciuta di ciò che ha davanti, una bambina scompigliata scruta l’enigma del mondo, un’altra emerge da uno spazio oscuro e circolare.
La luce intesse i singoli e i gruppi nel loro divenire quotidiano, nella pagnotta afferrata dalla fame, nel riposo su una panca, nell’acqua che scorre a dare frescura all’estate, nel ritorno dal mare o nel correre in bicicletta verso di esso. E soprattutto nella luminosità che invade un gruppo di anziani mentre gioca a carte, due muratori tra le loro porte, dei ragazzini con un pallone in un cortile assolato e desolato. Si tratta di tre foto impressionanti per nitidezza, potenza, simbolismo. Come se nel gesto dello svago e in quello del lavoro si fosse finalmente raggrumato il senso dell’esserci, dell’andare e dello stare al mondo.
Altre immagini descrivono linee, diagonali, cerchi, nei quali tre soggetti avanzano in prospettiva lungo una via, un uomo incontra due cani che si incrociano su una strada che procede a perdita di sguardo, un pastore diventa gioco di ombre mentre i suoi animali svaniscono sullo sfondo.
E poi le orme della polvere che siamo, lo scambio di due vite che da tanto stanno insieme ma che hanno ancora da dirsi guardandosi nei volti, l’immancabile santa e i suoi devoti. E i bambini, tanti bambini. Candidi e insieme violenti nelle azioni e negli sguardi. Sineddoche degli umani di Sicilia.
La realtà sta nell’occhio di chi guarda. E Anzalone imparerà a guardare sempre meglio e a restituirci con arte ciò che ha visto. Ma, intanto, le opere qui esposte disegnano una geometria in bianco e nero che sa fare del mondo pura luce. E, in essa, la speranza degli umani.

La materia fotografica

Nino Migliori. La materia dei sogni
Milano – Fondazione Forma per la fotografia
Sino al 6 gennaio 2013

Si comincia con delle fotografie tradizionali e molto belle che descrivono Gente dell’Emilia e Gente del Sud negli anni Cinquanta. Un’Italia dissolta dallo sviluppo economico e che Migliori coglie nelle Mani che parlano di antiche donne meridionali come nella metafisica solitudine di un vigile urbano a un incrocio milanese dove non c’è nessuno. E poi i frati con la tonaca che giocano a pallavolo o discutono su un divano; i maschi che aspettano le loro consorti sulla porta di Renato. Parrucchiere per signora; un tuffatore perfettamente orizzontale che somiglia a quello degli affreschi di Pompei. E molta altra umanità.
Poi -«Mi piace lasciare la strada vecchia per la nuova», dichiara Migliori- la figura si dissolve e la fotografia diventa sempre più una profonda e attiva interrogazione della materia. Graffi e incisioni sulla pellicola (cliché-verre) producono forme astratte, così come i pirogrammi con i quali delle fiamme impressionano i negativi, gli idrogrammi che fanno cadere su di essi delle gocce d’acqua, le ossidazioni che trasformano le immagini in colori densi, nell’acciaio/ruggine che divora ogni forma consolidata. Persino delle comuni carte per caramelle assumono la valenza e la forza della pittura senza forma e proprio per questo ricca di pienezza. Migliori afferma infatti che la vera materia è quella della mente, perché è là che i ricordi, gli eventi, gli oggetti trovano il loro senso. Ha naturalmente ragione.

Colore / Artificio

Juergen Teller. The Girl with the Broken Nose
Palazzo Reale – Milano
Sino al 4 novembre 2012

Non c’è niente da fare: anche quando si impegnano a elevarsi un po’, i fotografi di moda (nel senso di quelli che fotografano i vestiti e chi li porta) ricascano sempre nel patinato. Un’eccezione è forse David LaChapelle proprio per la sua evidente esagerazione cromatica e la parodistica tragicità della serie Deluge. Teller, invece, è un bravo fotografo manierista. L’uso che fa del flash immerge lo spazio e i soggetti in un’atmosfera di chiara finzione. Gli oggetti vanno diventando umani -come la statua dal naso rotto alla quale è dedicato il titolo della mostra- e gli umani sono oggettivati nella natura/artificio.
Delle nove grandi fotografie (quasi tre metri x due) in mostra a Palazzo Reale, le più interessanti sono forse quelle che non presentano figure umane -di carne o di pietra- e capaci di descrivere le sfumature dell’autunno in una scala cromatica che sembra musica.

La tristezza della storia

Fabio Mauri. The End
Palazzo Reale – Milano
A cura di Francesca Alfano Miglietti
Sino al 23 settembre 2012

L’oltrepassamento delle specializzazioni è uno dei caratteri dell’arte contemporanea. Un elemento che va in controtendenza rispetto a quanto accade invece nell’ambito dei saperi, dove la specializzazione è sempre più richiesta sino a rendere spesso asfittica la ricerca.
Anche Fabio Mauri (1926-2009) è stato dunque pittore, fotografo, scultore, drammaturgo, critico e ha sperimentato una serie di linguaggi molto diversi, contaminandoli tutti fra di loro. In questa mostra che si inserisce nel contesto dell’attenzione che Milano sta rivolgendo agli anni Settanta (con il capolavoro dedicato da Enrico Baj a Pinelli e con una deludente mega rassegna su quel decennio) si conferma il grande interesse di Mauri verso la storia del Novecento. Le installazioni  dell’artista documentano e interpretano il cinema, le città, le persone, gli oggetti della Germania nazionalsocialista, dell’Italia sotto il fascismo, della Cina al tempo di Mao. Tra le opere più riuscite Il muro occidentale o del pianto (1993) composto tutto di vecchie valigie. Le valigie che furono degli ebrei, ad esempio, e che adesso sono dei palestinesi cacciati dalla loro terra da uno Stato usurpatore come quello israeliano.
Interessanti i frutti dell’amicizia con Pier Paolo Pasolini, col quale Mauri collaborò più volte. Qui viene ripresa l’installazione che nel 1975 a Bologna proiettava Il Vangelo secondo Matteo sul corpo del suo autore, una vera incarnazione della Passione. E poi questa scritta The End ripetuta tante, tante volte, nelle forme e sui supporti più diversi. Uno degli ultimi esempi -proprio del 2009- è la parola incisa a fondo su un muro bianco. Fine di che cosa? Forse della speranza. Qualcosa di triste aleggia infatti in tutta l’opera di Mauri. Un sentimento che sembra riscattarsi nella bellissima fotografia che costituisce il manifesto della mostra ma in una forma, per dir così, “castigata”. La foto infatti ritrae una ragazza il cui viso immobile e assorto poggia sulle proprie mani, le quali formano il lato di un triangolo che nella foto intera si apre sulle sue cosce spalancate. L’immagine si intitola Ideologia e natura (1973) e nel suo erotismo freddo dice molto del nostro tempo.

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