Catherine Balet / Navigare nella nostra solitudine
in
Gente di fotografia
Anno XIX, n. 57, inverno 2013
Pagine 8-15
Catherine Balet / Navigare nella nostra solitudine
in
Gente di fotografia
Anno XIX, n. 57, inverno 2013
Pagine 8-15
La quinta edizione del Med Photo Fest è dedicata ai Paesaggi dell’anima.
Mostre, incontri e seminari si svolgono in vari spazi, tra i quali il Monastero dei Benedettini di Catania, sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche.
In questo ambito si terranno quattro seminari dal titolo complessivo La fotografia come realtà mentale.
In uno di essi affronterò il tema del Paesaggio temporale della mente.
Luogo e orari sono questi:
Coro di Notte del Monastero
17 ottobre 2013
9.30 – 11.30
Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo
Palazzo Reale – Milano
A cura di Denis Curti
Sino all‘8 settembre 2013
180 fotografie scelte dall’autore tra un milione e mezzo di scatti. Immagini catalogate e divise in Gente di Milano, Morire di classe -sui manicomi che rinchiudevano i soggetti sociali più deboli-, Dentro le case, Venezia -amatissima dal fotografo-, Comunità romanì in Italia -la vita degli zingari nei loro campi-, I baci, Lavoro, Fede Religiosità Riti. Gli anni Settanta nella città lombarda sembrano sfilare davanti ai nostri occhi con tutta la loro ingenua radicalità; tra i ritratti sono assai espressivi quelli di Ugo Mulas e Gabriele Basilico, colleghi di Berengo Gardin; dappertutto, nei baci nelle automobili nei canti, si sente una profonda pietà per gli umani, per l’effimero triste che siamo.
In una conversazione con Giusy Randazzo (Gente di fotografia, numero 56, pp. 94-99) Berengo Gardin afferma che non si sente un artista ma un fotografo. Non per modestia ma, al contrario, perché convinto della specificità e forse della superiorità della fotografia sulle altre arti figurative. Tra i pittori, Berengo afferma di preferire gli astrattisti e in particolare Mondrian. In un’immagine della sezione della mostra dedicata al lavoro –Osaka del 1993- mi è parso di ritrovare la purezza formale di quell’artista. Di fronte alla convinzione di Berengo Gardin che «la macchina fotografica serve per fare foto di documentazione», per dare conto della “realtà”, gli si potrebbe obiettare che quando dei fotografi o non fotografi «guardano qualcosa non stanno riproducendo la realtà ma qualcosa che è sempre filtrato dalla loro mente» e che la cosiddetta realtà è a colori mentre la sua opera è rigorosamente in bianco e nero, affinché chi osserva non venga distratto da altro che non sia il contenuto dell’immagine. La verità è che il mondo è nell’occhio di chi guarda. La sensibilità di Berengo Gardin verso l’accadere è talmente alta che dal suo osservare il flusso -e fermarlo in un istante- non emerge alcuna “documentazione” ma splende, semmai, il significato delle relazioni umane. Non il dato ma proprio il significato.
Jeff Wall. Actuality
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Francesco Bonami
Sino al 9 giugno 2013
Gigantografie e Lightbox sono a questo artista necessarie. Non i soggetti, infatti, costituiscono l’elemento principale delle sue fotografie e neppure la tecnica che tende a riprodurre in scene contemporanee e apparentemente casuali le grandi opere della pittura. Essenziale è la misura gigantesca e illuminata, atta a restituire i dettagli delle scene e a rendere accesissimi i colori. In caso contrario l’effetto sarebbe o invisibile o banale. Come ogni artista, Wall opera «una meticolosa ricostruzione della realtà, talmente meticolosa da sembrare irreale. […] Il gesto dei protagonisti viene congelato, non colto fugacemente dallo scatto fotografico come nei lavori di reportage. […] Wall non coglie l’attimo, piuttosto lo costruisce, lo mette in scena, lo racconta» (F. Bonami). E si tratta, di solito, di un attimo di radicale solitudine, di normale disperazione, di tempo impietrito in un gesto o nello stare, sino a che paesaggi finalmente vuoti restituiscano all’immagine una misura geometrica che perviene ai suoi migliori risultati nella serie Diagonal composition. In queste foto lavelli sporchi e pavimenti scrostati assumono la fredda perfezione dei dipinti di Van Doesburg o di Mondrian. Nella misura ridotta di una pagina di catalogo o di un monitor tutto questo però in gran parte si perde.
Mente & cervello 101 – maggio 2013
La mente umana è un dispositivo semantico così potente, «è talmente portata a costruire significati che lo fa anche con materiali incongrui tra loro, un po’ come accade con il patchwork» (John Allan Hobson, intervistato da D. Ovadia, p. 48). È questa l’origine dell’attività onirica. I sogni «non hanno alcun significato misterioso» (M. Cattaneo, 3), non rivelano nulla né del futuro -come sostenevano indovini e aruspici del mondo antico- né del passato -come afferma la psicoanalisi. I sogni riflettono piuttosto, al pari di ogni altra attività della coscienza, quello che pensiamo del mondo e della vita. E lo fanno in modo particolarmente creativo, sino a presentare come possibile l’impossibile e come reale l’assurdo. Questo accade perché «i sogni sono prodotti della chimica cerebrale, generati casualmente nel corso di un’attività di consolidamento delle tracce acquisite durante l’attività cosciente. Non nascono con un significato: piuttosto possiamo dire che quando gli stimoli interni, le rievocazioni casuali di eventi e sensazioni occorse durante la veglia, arrivano alla corteccia in determinate fasi del sonno, questa tende a riorganizzarli dando loro un significato coerente. Il cervello umano è infatti costruito per dare un senso alla realtà, sia questa esteriore o interiore, e i sogni non sono altro che fenomeni biochimici reali che avvengono nel nostro cervello. Non c’è nulla di mistico in essi, né di magico […] La loro funzione è consolidare ciò che abbiamo vissuto o appreso durante la veglia» (Hobson, 46-48).
Un sogno è spesso il matrimonio. E i fotografi chiamati a rendere immortale l’effimero “sì” dell’illusione istituzionale sono sempre più indotti a trasformare il loro reportage in un vero e proprio spettacolo costruito a imitazione dello show televisivo. «Un cambiamento anche inquietante» -afferma la semiologa Maria Pia Pozzato, che sta studiando tali immagini- «perché molto narcisistico: queste spose non parlano dello sposo ma di se stesse, anche le valenze estetiche si perdono a favore di esperienze estesiche, fatte di sensazioni» (intervista di P.E. Cicerone, 72). Lo scopo è stare al centro della scena, “farsi vedere”, secondo quella modalità dell’Esse est percipi nella quale Christoph Türcke individua uno degli elementi fondamentali delle società contemporanee. La sensazione è diventata «una necessità vitale. Uno deve fare sensazione e aver sensazione se vuole esserci, se vuole avere un’esistenza sia in senso letterale, sia in senso metaforico» (C. Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri 2012, p. 87). La sensazione si è trasformata nel sensazionale.