Come la narrativa di Morselli, la fotografia di Luca Gilli mette in atto una epochè metafisica e insieme del tutto pratica, ponendo tra parentesi la presenza umana dentro il mondo e mostrando che il mondo senza gli umani continua. La potenza degli oggetti diventa simile a quella degli enti naturali. Come le nuvole, infatti, o le rocce, o gli alberi, o le aquile, o i serpenti, o le querce, e così via e così via nella innumerabile densità del mondo, come tutti questi enti non prodotti dall’opera degli uomini esistevano prima dell’avvento della nostra specie, esistono insieme a essa e continueranno a esserci dopo che gli umani saranno scomparsi, così gli oggetti artefatti, vale a dire frutto della presenza umana, sono più duraturi del loro facitore.
Da vari anni Ragusa dedica all’arte fotografica un festival fatto di eventi che durano un fine settimana e di mostre che invece si prolungano per un mese. L’edizione del 2024 ha selezionato le immagini di 13 fotografi. Qui parlerò di quelle che mi sono sembrate più coinvolgenti. I luoghi che ospitano queste immagini sono due antichi e bei palazzi di Ragusa Ibla: Palazzo Cosentini e Palazzo La Rocca, ai quali si aggiungono l’Auditorium dell’ex-chiesa di San Vincenzo Ferreri e, a Ragusa superiore (la città moderna), il Palazzo Garofalo.
Quest’ultimo ospita le opere di Mario Cresci, uno degli artisti più coinvolgenti con il suo portfolio Limen, soglia di passaggio, nel quale le architetture rurali, i muretti a secco, l’archeologia industriale del ragusano – e poi dell’intera Sicilia – diventano una riflessione direi luminosa, al confine tra invenzione, geografia, antropologia.
Una forte ispirazione antropologica guida anche le immagini che Umberto Coa (a Palazzo Cosentini) ha dedicato agli stadi di calcio di varie piccole città siciliane. Luoghi e strutture che, o vuoti o riempiti da gruppi di ultras di squadre dilettanti, si inseriscono perfettamente nei paesaggi splendidi o nei brutti contesti che fanno loro da sfondo e da contenitore, regalando un significato che va al di là di edifici sportivia volte ben tenuti e altre fatiscenti.
Di un’antropologia tragica sono testimonianza le immagini di Claire Power (sempre a Palazzo Cosentini). Il titolo è The Mountain e la montagna è il Vesuvio, in particolare la zona di Somma Vesuviana. Gli umani e gli altri animali che la abitano sembrano in qualche modo degradati, dolorosi, spenti. E non a causa di miserie economiche o di disagi sociali ma proprio per la loro insignificanza e abbrutimento rispetto alla selvatichezza e disumanità dello spazio.
Allo spazio, alle strade, agli edifici di molti luoghi del pianeta sono dedicate le foto di Marco Zanta a Palazzo La Rocca. Si intitolano This is the Way it is, occupano soltanto una parete perché stampate in piccolo formato, costituendo in tal modo una antologia e una sinossi di città e luoghi molto diversi tra di loro e accomunati ogni volta dalla particolarissima relazione che nasce tra gli umani e ciò che Heidegger definisce Umsicht «visione ambientale preveggente» e non semplice Sicht, ambiente puramente fisico.
Esperimento molto interessante è infine quello di Viola Pantano (anche lei a Palazzo La Rocca). Si intitola Anemos ed è composto dai ‘ritratti’ scattati a dei soggetti subito dopo che sono emersi da una apnea in acqua più o meno lunga (dai 13 secondi al minuto e mezzo circa). Ai volti deformati, liberati, allegri, inquieti che emergono dall’immersione, la fotografa ha attribuito dei titoli che fanno riferimento a sentimenti, sensazioni e ancora una volta a stati d’animo. Quello che vedete qui sotto (emerso dopo 23 secondi) lo ha intitolato Vuoto. A me sembra invece il ritratto di una pienezza. Di una terribile pienezza, il ritratto della Gorgone,
al quale affianco – anche per un confronto – quello assai bello che Viola Pantano ha intitolato Ascolto.
L’immagine di apertura raffigura un affresco che si trova sul soffitto di una delle sale di Palazzo Cosentini; visitare il Ragusa Foto Festival è infatti l’occasione anche per godere degli spazi di Ibla, città splendida.
La moda va bene, se funziona si diventa ricchi e famosi. Vale anche per i fotografi specializzati nelle immagini sulla moda. Ma se non si è soltanto dei bravi mestieranti dell’apparire si cerca sempre di rompere i confini delle gonne, del trucco, delle scarpe e dei lustrini.
Gian Paolo Barbieri non è, appunto, un semplice raffiguratore di maschi sistemati come femminee di anoressiche abbigliate come regine. Non è, insomma, soltanto quel mondo che René Girard ha descritto con esattezza e ironia: «Se i nostri avi vedessero i cadaveri gesticolanti delle riviste di moda contemporanea, li interpreterebbero probabilmente come un memento mori, un promemoria di morte, equivalente forse alle danze macabre dipinte sui muri delle chiese del tardo Medioevo; se dicessimo loro che, per noi, questi scheletri disarticolati significano piacere, felicità, lusso, successo, è probabile che fuggirebbero in preda al panico, pensando che siamo posseduti da un demone particolarmente ripugnante» (Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore 1999, p. 188).
Barbieri inventa quindi un portfolio dedicato alle opere e ai personaggi di William Shakespeare. Una quindicina di immagini in bianco e nero e una a colori raffigurano la Bisbetica domata, Amleto e sua madre Gertrude, Falstaff, Calibano, Romeo e Giulietta, Macbeth e Lady Macbeth, Prospero, le Streghe di Macbeth.
Mi soffermo un poco sul personaggio raffigurato da Barbieri nel modo forse più originale: Coriolano. Shakespeare ha avuto infatti l’intuizione di Roma, l’intuizione di una forza storica capace non solo di conquistare popoli, sottomettere terre, pacificare il Mediterraneo ma in grado soprattutto di vincere se stessa, le proprie discordie, le debolezze, di essere più forte dei propri eroi. Coriolanus è l’eroe della Repubblica: intransigente con se stesso e con i suoi, legato a Roma e più legato alla potenza bellica che Roma rappresenta, incapace di adattarsi alla nuova presenza del popolo nel cuore del potere mediante i tribuni della plebe. Eroe vittorioso e scacciato a causa della sua ambizione e durezza, eroe dal coraggio senza posa e dallo sconfinato orgoglio aristocratico, che muore per la città di cui pure disprezza gli abitanti. Dai drammi shakespeariani Roma emerge in un’altra delle sue dimensioni di fondo: una civiltà del suicidio che antepone l’onore alla vita, la vittoria su se stessi al desiderio di esserci ancora, consapevole che il nulla infinito è il rifugio ultimo contro ogni male.
Al di là della sapienza tecnica, da ritrattista navigato, colpisce in Barbieri la profonda fedeltà al testo di Shakespeare, a come il poeta ha presentato, descritto e vissuto questi suoi personaggi. Una fedeltà coniugata però a una coinvolgente personalizzazione. Questa piccola mostra nel cuore di Milano, a due passi dal Cordusio e dal Duomo, costituisce una riuscita unione di Glamour/Moda e di Classicità/Parola. Edunque è da gustare.
Di fronte all’orgia di distruzione che dappertutto causano gli Stati Uniti d’America, vedere per due ore vittima della dissoluzione la potenza che continua a infliggere ovunque morte mi ha fatto pensare: ‘Peccato che sia soltanto un film’. E questo per la semplice ragione – documentata dalla sistematica violenza che gli USA esercitano da ottanta anni sul mondo – che una prospettiva di pace ha come condizione il ridimensionamento dell’imperialismo statunitense. Data la potenza militare degli Stati Uniti, soltanto una implosione interna, una guerra civile appunto, potrà rendere realtà questo auspicio.
Nelle immagini di Nicola Buonomo non appaiono umani. Se ne scorgono tracce, si vedono i loro manufatti, le automobili, le antenne, le sedie, le ciminiere, i panni stesi, ma essi, gli autori di tali artefatti, sono evaporati, dissolti, dissipati. Si vedono il legno, il cemento, le pietre, a volte sullo sfondo di colline, alberi, cieli. Ma nessuna persona umana abita questi luoghi né li attraversa. Sono luoghi che sembrano cantare da sé – non con voci umane – il significato del loro esserci. E anche per questo sono luoghi colmi di senso. I quali a chi in particolare è cresciuto in una Sicilia analoga, antica e freneticamente volta al ‘moderno’, trasmettono una profonda familiarità con ogni angolo dello spazio da Buonomo raffigurato. Un panificio, ad esempio, è semplicemente «Panificio», senza altre specificazioni e formule da marketing. Un panificio archetipico. E in questi luoghi i frutti della terra e le opere dell’animale umano sono inestricabilmente connessi, intrecciati, formanti un solo mondo, lo spazio.
Brassaï, pseudonimo dell’ungherese Gyula Halász (1899-1984), è stato uno dei grandi fotografi che in Francia hanno documentato la pienezza della vita, dell’eros, degli spazi, di Paris città-mondo, e in tutto questo hanno percepito con lucidità, rassegnazione, forza, malinconia, che stavano fotografando e descrivendo «le ultime vestigia un mondo che stava scomparendo», come Brassaï sinceramente dirà. Il suo metodo per scoprire, alla lettera, il reale, per dargli significato e dunque trasformarlo restandogli fedele, è ciò che definiva «ubbidire alla dittatura dell’occhio». E l’occhio di Brassaï vede tutto, di tutto è curioso, tutto documenta, tutto cerca di ricordare, a tutto vuole offrire la pienezza della forma. L’acciottolato delle strade nelle notte riverbera di luce lo spazio. Un rigagnolo lungo la strada ha la sinuosità di un grande fiume.
Una patata e delle gocce d’acqua sulle foglie diventano sculture e volumi sferici in uno spazio astratto. Dei vetri frantumati scandiscono il ritmo musicale del pieno e del vuoto. Il banale è trasformato in paradosso.
Una lunga galleria di ritratti di pittori e scrittori del Novecento (tra i quali Picasso, Braque, Léger, Giacometti, Cocteau, Beckett, Ionesco, Nin, Dalí, Breton…) si alterna a immagini che descrivono ambienti sociali e circostanze tra loro molto diversi: proletari, bande di piccoli delinquenti, prostitute, feste e personaggi dell’alta società e del mondo della moda. Una curiosità antropologica inesauribile anima infatti questo artista.
Due sezioni sono dedicate ai graffiti di Parigi e di altri luoghi – nei quali Brassaï scorgeva forme espressive di grande significato e valore – e alle sculture e ai disegni. Soprattutto le sculture sono di grande pulizia e suggestione formale. E poi i luoghi proustiani, il Bois de Boulogne, i ponti, le chiatte, la Senna, le balere, le trattorie, i bordelli, i bistrot, le ballerine, un bacio sulla ruota vorticosa di un luna park, bacio reso immobile dalla tecnica raffinata del fotografo. Il quale nella camera oscura operava sulle lastre creando ciò che chiamava «la seconda realtà», e invocando attraverso il proprio sguardo, mediante l’occhio e la sua ‘dittatura’, con l’ausilio di ogni possibile strumento tecnico, invocando il tempo. Brassaï scrive esplicitamente che la sua opera è un tentativo di andare «alla ricerca della poesia del tempo». Per restituirne la musica, il segreto, la potenza.
L’immagine di apertura si intitola Les Escaliers à Montmartre (1932) e (durante una conferenza tenuta a Boston nel 1977) di essa Brassaï disse che «prima di essere colpito dal soggetto, l’occhio dello spettatore deve essere catturato dalla sua forma, dalla struttura dell’immagine […] Solo le immagini rigorosamente costruite possono entrare nella memoria e diventare indimenticabili. La composizione di questa fotografia deve risultare istintiva e non studiata». Parole e immagine dove c’è per intero Brassaï, dove emerge la struttura dello spaziotempo come ombra e come luce.
La fotografia, lo hanno notato in tanti, è un’arte che ben documenta la pervasività della morte. Del numero sconfinato di immagini che costituiscono l’archivio dell’umanità da quando questo dispositivo fu inventato, la parte preponderante rappresenta strutture, luoghi, città, paesaggi, animali umani e non umani che sono stati e più non sono. Ma l’essere è sempre in qualche modo luce. Tanto è vero che Palazzolo ha potuto intitolare due sue mostre siciliane di qualche anno fa con le espressioni Imago Lucis (a Comiso) e Chiedi alla luce (a Scicli).
L’artista fotografa la struttura della dissolvenza e non la potenza dello stare. I suoi soggetti in parte esistono ancora e già non ci sono più. Già e non ancora è una delle formule più dinamiche per cercare di cogliere l’incoglibile del tempo. Dissolvenza e luce, quindi. Vale a dire due degli elementi tecnici e formali che costituiscono e costruiscono il lavoro fotografico.