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Brassaï

Brassaï . L’occhio di Parigi
Palazzo Reale – Milano
A cura di Philippe Ribeyrolles
Sino al 2 giugno 2024

Brassaï, pseudonimo dell’ungherese Gyula Halász (1899-1984), è stato uno dei grandi fotografi che in Francia hanno documentato la pienezza della vita, dell’eros, degli spazi, di Paris città-mondo, e in tutto questo hanno percepito con lucidità, rassegnazione, forza, malinconia, che stavano fotografando e descrivendo «le ultime vestigia un mondo che stava scomparendo», come Brassaï sinceramente dirà.
Il suo metodo per scoprire, alla lettera, il reale, per dargli significato e dunque trasformarlo restandogli fedele, è ciò che definiva «ubbidire alla dittatura dell’occhio». E l’occhio di Brassaï vede tutto, di tutto è curioso, tutto documenta, tutto cerca di ricordare, a tutto vuole offrire la pienezza della forma. L’acciottolato delle strade nelle notte riverbera di luce lo spazio. Un rigagnolo lungo la strada ha la sinuosità di un grande fiume.

Brassaï. Rigagnolo, strada

Una patata e delle gocce d’acqua sulle foglie diventano sculture e volumi sferici in uno spazio astratto. Dei vetri frantumati scandiscono il ritmo musicale del pieno e del vuoto. Il banale è trasformato in paradosso.
Una lunga galleria di ritratti di pittori e scrittori del Novecento (tra i quali Picasso, Braque, Léger, Giacometti, Cocteau, Beckett, Ionesco, Nin, Dalí, Breton…) si alterna a immagini che descrivono ambienti sociali e circostanze tra loro molto diversi: proletari, bande di piccoli delinquenti, prostitute, feste e personaggi dell’alta società e del mondo della moda. Una curiosità antropologica inesauribile anima infatti questo artista.
Due sezioni sono dedicate ai graffiti di Parigi e di altri luoghi – nei quali Brassaï scorgeva forme espressive di grande significato e valore – e alle sculture e ai disegni. Soprattutto le sculture sono di grande pulizia e suggestione formale. E poi i luoghi proustiani, il Bois de Boulogne, i ponti, le chiatte, la Senna, le balere, le trattorie, i bordelli, i bistrot, le ballerine, un bacio sulla ruota vorticosa di un luna park, bacio reso immobile dalla tecnica raffinata del fotografo. Il quale nella camera oscura operava sulle lastre creando ciò che chiamava «la seconda realtà», e invocando attraverso il proprio sguardo, mediante l’occhio e la sua ‘dittatura’, con l’ausilio di ogni possibile strumento tecnico, invocando il tempo. Brassaï scrive esplicitamente che la sua opera è un tentativo di andare «alla ricerca della poesia del tempo». Per restituirne la musica, il segreto, la potenza.
L’immagine di apertura si intitola Les Escaliers à Montmartre (1932) e (durante una conferenza tenuta a Boston nel 1977) di essa Brassaï disse che «prima di essere colpito dal soggetto, l’occhio dello spettatore deve essere catturato dalla sua forma, dalla struttura dell’immagine […] Solo le immagini rigorosamente costruite possono entrare nella memoria e diventare indimenticabili. La composizione di questa fotografia deve risultare istintiva e non studiata». Parole e immagine dove c’è per intero Brassaï, dove emerge la struttura dello spaziotempo come ombra e come luce.

Brassaï. Strada, acciottolato, hotel

Hyle

Recensione a:
Davide Ragnolini
Hyle. Breve storia della materia increata
Rubbettino, 2023
Pagine 133
in Discipline Filosofiche, 4 dicembre 2023

«Una storia teologica della materia» che va dai filosofi greci delle origini sino a Tommaso d’Aquino e ai suoi avversari. Una storia vivace, attentamente documentata e con una posizione teoretica definita e chiara. Per Ragnolini, infatti, lo snodo della comprensione che la filosofia europea ha tentato del mondo è la questione della ὕλη, della materia prima ben individuata da Aristotele, della quale l’intero è intessuto e il mondo è generato. L’essere è pienamente temporale come permanenza della ὕλη nel mutare delle forme poiché «fra ciò che è e ciò che non è c’è sempre di mezzo la cosa che diviene» (Aristotele, Metafisica, II, 2, 994a) ed è insieme eterno  «poiché è autosufficiente rispetto a qualsivoglia potere esterno a esso».
I pensatori delle origini, gli atomisti, Aristotele, ma anche Platone e i neoplatonici, videro sempre nel cosmo e nella sua potenza, e dunque nella materia, il vero archetipo al quale cerca di attingere il limite umano. Un archetipo che Platone afferma essere fatto di un tempo diverso rispetto alla temporalità umana ma in ogni caso a essa sempre contiguo. Perché è dalla terra, dal cielo e dal tempo – Γῆ, Οὐρανός, Χρόνος – che tutto si è generato, è da ὕλη che la potenza del cosmo e del tempo è formata.

Architettura teoretica

Angelo Mangiarotti
Quando le strutture prendono forma
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Fulvio Irace, con la collaborazione della Fondazione Angelo Mangiarotti
Sino al 23 aprile 2023

Pochi milanesi conoscono il suo nome, molti invece le sue opere. Angelo Mangiarotti (1921-2012) ha infatti impresso su molti luoghi della città una forma architettonica molteplice e insieme unitaria, riconoscibile. Alcuni esempi:
Le abitazioni modulari di via Quadronno (zona di Porta Vigentina), il cui esito fu stabilito dai primi acquirenti, che scelsero come e dove collocare i vari moduli che l’architetto aveva inventato. Una personalizzazione dell’abitare non limitata quindi agli interni ma alla struttura stessa dell’edificio.
La casa a tre cilindri di via Gavirate, nel quartiere di San Siro (vicino a dove abito, immagine di apertura), una soluzione formale veramente originale, inconfondibile.
Le stazioni ferroviarie di Rogoredo, Certosa, Villapizzone, Rho-Fiera e quelle del Passante ferroviario di Repubblica e Porta Venezia.
La chiesa di vetro di Baranzate.
Mangiarotti progettò anche delle fabbriche intendendole come monumenti pubblici, cercando di coniugare estetica e funzionalità, e unire dunque ingegneria e architettura. È questo l’elemento più significativo che identifica e costituisce la sua cifra creativa.
L’attività di Mangiarotti non si limitò comunque alla ideazione e costruzione di edifici e di spazi ma si rivolse anche alla scultura e al design. E infatti è possibile vedere in questa mostra maniglie, bicchieri, tazze, lampade, macchine da cucire («Salmoiraghi 44» del 1957), un tavolo in marmo denominato Eros. Manufatti segnati tutti dallo stesso principio plastico, che applica a materiali diversi un’idea dell’oggetto come manifestazione di luce, di essenzialità, di struttura spaziale. I titoli di alcune sezioni della mostra ben descrivono le intenzioni e i risultati di questo lavoro:  Serialità e variazioni; Industrializzazione e tradizione; Forma e plasticità; Assemblaggio e modularità.
È bello vedere in questo modo unite architettura, design e scultura sul fondamento della indissolubilità di materia e tecnologia, di una materia naturale e artificiale che la tecnologia plasma in nome e sulla base di un’idea platonica dell’abitare umano e delle nostre relazioni con gli oggetti.
Ci si trova dunque di fronte a un’idea dell’architettura vicina all’identità e ai modi della filosofia teoretica: vale a dire universale, transdisciplinare, creativa come l’arte e rigorosa come le matematiche. 

Forme / Vibrazioni

Ruggero Savinio. Opere 1959-2022
Palazzo Reale – Milano
A cura di Luca Pietro Nicoletta
Sino al 4 settembre 2022

Le stanze assai belle dell’Appartamento dei Principi di Palazzo Reale sono arredate con preziosi mobili dell’Ottocento. In singolare e armoniosa continuità, questo luogo ospita sino al settembre del 2022 alcune opere di Ruggero Savinio, che vanno dalle strutture e modalità più lineari degli anni Sessanta sino allo stile sempre più agglutinato del presente. Sempre però le macchie diventano colori, i colori diventano forme, le forme diventano figure. I gialli e gli azzurri sono intensi, puliti, pompeiani, geometrici, dinamici. Un sentimento panico del paesaggio si esprime come materia che vibra, pigmenti che si fanno tempo. E questo può accadere perché gli oggetti che percepiamo e che ci sembrano stabili – dai sassi alle montagne, dai sorrisi di chi ci sta vicino alle onde del mare – sono in realtà un flusso continuo e continuamente variabile, una vibrazione senza fine, una costante e inoltrepassabile incostanza. Sono tempo.
Spesso i titoli dei quadri sono vergati sui quadri stessi, insieme alla firma e a volte con l’aggiunta di alcuni versi. Roma, città privilegiata dall’artista, appare come densa e dissolta tra il suo pieno e le sue rovine. Un quadro dedicato alla Sicilia scolpisce il blu del mare e del cielo, il rosso dei campi, l’impotenza e la bruttura delle costruzioni, la prospettiva e la fuga delle linee. Forme umane, forme architettoniche, forme paesaggistiche disegnano e fanno emergere «il cuore luminoso delle cose», come si intitola un libro di Savinio. Una luce che ha il sapore di antichi e lunghi crepuscoli invernali, quieti, placati nel silenzio degli spazi.

Europae / Segno

Europae
Associazione Lyceum – Scuola delle Cose  – Oliveri (Messina)
A cura di Davide Di Maggio e Nino Sottile Zumbo
Sino al 19 dicembre 2021

La disponibilità della Fondazione Mudima di Milano e la tenacia di Nino Sottile Zumbo hanno prodotto un piccolo miracolo, hanno fatto sì che in un paesino della riviera tirrenica della Sicilia convergessero ventotto tra i più importanti artisti del Novecento e del XXI secolo, tra i quali Francis Bacon, Christo, Marcel Duchamp, Lucio Fontana, Mimmo Rotella, Daniel Spoerri.
La poetica Dada e il gruppo Fluxus dominano la mostra di di Oliveri che è «la prima di una serie di mostre sull’Arte moltiplicata: serigrafie, grafiche, multipli, libri  d’artista dei maggiori artisti europei» (D. Di Maggio, La Scuola delle Cose, p. 1). Il titolo della mostra nasce dal fatto che «secondo alcuni linguisti il termine Europa risale all’etimo eurus (ampio) e ops (occhio): l’Europa è continente dall’ampia visione» e uno dei suoi obiettivi è contribuire a «un’Europa non di cartapesta, ma comunità di destino», scrive Sottile Zumbo con accenti heideggeriani (La Scuola delle Cose, p. 2)
Quella di Oliveri è un’antologia del Contemporaneo permeata dai simboli in bronzo di Spoerri, posti quasi a difesa e a significato dell’intero evento, che accoglie invenzioni cinematiche, corpi contratti e insieme dilatati, simboli arcaici, poesie grafiche, il sangue, l’oro, la luce, le linee, i segni, le geometrie, l’astratto e il materico. Che accoglie insomma alcune delle espressioni e dei capisaldi di un’arte la cui tensione verso la purezza della forma svicola, converge e si compie nella centralità ed essenzialità di ogni segno, anche del più piccolo, periferico, apparente; converge nel gioco tra Gegenstand e Bedeutung, tra il dato e il significato, poiché ogni segno è un oggetto/evento composto di significante, significato e riferimento. E questo accade perché l’umano «is a sign; so, that every thought is an external sign. That is to say, the man and the external sign are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my language is the sum total of myself; for the man is the thought» (Peirce, Collected Papers, 5. 314). Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi, un mondo che è sempre temporale.
«Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne, v. 1), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno. Anche per questo le forme contemporanee significano sempre tutto e non hanno bisogno di significare nulla di specifico, limitato e particolare. Anche per questo l’arte contemporanea, qualunque cosa si indichi con tale espressione, è un’ermeneutica della materia. Poiché  «qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete» (C.W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni, Paravia 1955, p. 31). La natura più profonda del segno consiste in questo suo legame con la verità molteplice del mondo, nel suo saperla dire, indicare, custodire.
Ed è esattamente questo che le invenzioni molteplici, diverse, enigmatiche e avvolgenti di Europae operano nello spazio: dicono, indicano, custodiscono.

Il carcere, i sogni, la forma

Luisa Lambri
Autoritratto

A cura di Diego Sileo e Douglas Fogle

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Zehra Doğan
Il tempo delle farfalle

A cura di Elettra Stamboulis

PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
Sino al 17 settembre 2021

Situazioni, contesti, luoghi, diversi. Tragici quelli di Zehra Doğan, artista curda rinchiusa nelle prigioni turche. Più liberi quelli di Luisa Lambri.

L’Autoritratto di quest’ultima è un dialogo fitto e costante con altri artisti, architetti, fotografi. Un dialogo anche e soprattutto con l’intero che non dipende dall’umano -la natura- e l’intero dall’umano costruito: i luoghi urbani, gli edifici, le opere. Si susseguono così alberi luminescenti dentro l’aria a formare una serialità vegetale che sprofonda dentro i rami e nella luce, ai quali si accompagnano fotografie che con strumenti molto semplici scavano volumi nello spazio, profondità nella materia. Case e finestre diventano trapezi e quadrati, si trasformano in righe dentro le quali oscillano colori fatti d’aria. E alla fine natura e artificio vengono ibridati in prismi che riflettono, rifrangono e moltiplicano la forza sottile e potente della visione, la sua forma.

Zehra Doğan nel febbraio del 20217 a causa della pubblicazione di un disegno su Twitter durante l’attacco dell’esercito turco a Nusaybin venne arrestata e condannata a 2 anni e 9 mesi di prigione. Qui crea Il tempo delle farfalle utilizzando asciugamani, imballi di cartone, carta stagnola, avanzi alimentari, sangue mestruale, fondi di te e di caffè. E con questi strumenti cerca di dare voce ai sogni, a ciò che rimane -come lei stessa afferma- quando ogni immagine, libro, rivista è preclusa dentro un muro, dentro l’esclusione, la discriminazione, la violenza imposte per il bene di una qualche comunità, per il bene degli altri. Almeno questa è la costante tiritera dell’autorità, questa la sua «fake news», questa la sua menzogna. Da sempre e ora e ancora e ovunque. 

Il carcere, i sogni, la forma.

Forme

Il numero 25 di Vita pensata è dedicato alla forma, con una varietà di contributi che studiano l’estetica  del viaggio, della parola, dell’anamorfosi, della narrativa statunitense, del modernismo, della scultura, delle metamorfosi, dell’attualismo gentiliano, della tragedia antica, delle epidemie moderne, dell’epistemologia.

Un mio saggio presenta la figura di Apollo a partire dagli studi di Walter Otto sugli dèi della Grecia e dunque sulla centralità e fecondità dell’elemento religioso -o per meglio dire sacro– nella civiltà degli Elleni. Gli dèi greci non sono invenzioni della fantasia o deduzioni teologiche ma entità che possono soltanto essere vissute nel limite che caratterizza la materia, nel rifiuto di ogni pretesa di dettare le regole agli eventi, nell’assenza di ogni culto narcisistico e borghese verso l’io, la sua volontà, la sua pretesa interiorità abissale di soggetto. Sta qui una delle differenze principali tra la religione greca e quella cristiana. Nel mondo ellenico non domina la magia, come in altre culture, ma semplicemente la natura. Un mondo dove convivono le potenze ctonie -gli antichi Titani, signori dei morti- e le potenze celesti -i nuovi Dèi dell’Olimpo, signori dei vivi. Un mondo dunque estraneo ma nel quale affonda e dal quale continua ad assorbire senso l’identità dell’Europa, almeno sin quando essa «non soggiacerà totalmente allo spirito dell’Oriente o al razionalismo utilitaristico».
Gli dèi della Grecia, la loro molteplicità e differenza, sono il mondo, semplicemente. Sono l’immanente totalità dell’essere: inscalfibile, perfetto, temporale. Questo è la religione, la vera religione. Non una forma del narcisismo umano e del suo spasmodico bisogno di salvezza ma lo splendore affilato della luce.

 

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