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Il contemporaneo a Catania

Arte in Sicilia nel secondo ʼ900
Esposizione permanente

Palazzo Valle / Fondazione Puglisi Cosentino – Catania

Quali siano lo statuto, l’identità e i confini dell’«arte contemporanea» è una questione aperta e complessa, alla quale ha dato e continua a dare un contributo di chiarezza, di scientificità, di grande competenza l’opera di Giuseppe Frazzetto. Insieme alla lettura di saggi, insieme allo studio, è  naturalmente fondamentale accostarsi alle opere, vederle, se possibile toccarle, girare loro intorno, gustarle e in esse immergersi.
Anche per questo avevo accolto con gioia, nel 2009, l’apertura della Fondazione Puglisi Cosentino nella magnifica sede del Palazzo Valle di Catania. Si trattava di un doveroso, eppure sino ad allora assente, spazio per il contemporaneo nella seconda città della Sicilia e in una delle più popolose d’Italia. Nel 2011 Frazzetto scorgeva «nella vicenda dell’arte contemporanea a Catania la facies hippocratica delle contraddizioni cittadine. La città che non si vuole; la città che non si conosce; la città che non si vuole conoscere. Questa sorta di headline potrebbe lampeggiare, come insegna, sul frontone della Fata Morgana, la decine di volte annunciata Galleria Civica» («Catania + Pittura + Moderno AntiModerno + Scultura 1921/1981» in AA.VV., Storia di Catania, a cura di G. Giarrizzo, Sanfilippo Editore).
Catania è inoltre una città universitaria, dove sono presenti sia il Liceo Artistico sia l’Accademia di Belle Arti, e dove l’attività di pittori e scultori è stata nel Novecento di grande significato e qualità. Che in una città con queste caratteristiche non esistesse uno spazio dedicato all’arte contemporanea era un fatto assai grave, un’assenza che veniva in parte sanata. Visitai dunque quasi tutte le mostre organizzate e proposte dalla Fondazione e ne parlai (nei limiti delle mie competenze in questo campo) nelle seguenti pagine:

Poi la chiusura, per ragioni a me ignote. Da qualche mese la Fondazione è stata riaperta, anche se con dei limiti negli spazi, poiché è possibile per ora visitare soltanto il terzo piano di Palazzo Valle, che ospita adesso una selezione dalle collezioni private di Alfio Puglisi Cosentino e di Filippo Pappalardo.
Della collezione Puglisi Cosentino sono presenti due opere (di Salvatore Scarpitta, siciliano, e di Roberto Fabelo, cubano); le altre provengono dalla collezione Pappalardo e disegnano il percorso dell’arte in Sicilia lungo tutto il Novecento sino al presente.
Pochi forse lo sanno ma, come accennato, tra le principali avanguardie, correnti artistiche, riviste d’arte del XX secolo la presenza di artisti siciliani è stata molto alta e soprattutto assai qualificata. Lo si vede percorrendo le sale della Fondazione, nelle quali il figurativo, l’informale, il manierismo degli ‘anacronisti’ (o ‘postmoderni’), l’astrattismo, si confrontano e si alternano, delineando una ricchezza, differenza, complessità e fecondità che finalmente possono essere conosciute, studiate e fruite in uno spazio unitario della città. Un esempio in qualche modo riassuntivo è Centro Storico, un olio di Totò Bonanno (1928-2002).


Ho avuto il privilegio (ché veramente di privilegio si tratta) di accostarmi a queste opere in compagnia e con la guida di Giuseppe Frazzetto, in una bella mattinata dell’autunno siciliano, apprendendo da lui molte notizie sui singoli artisti (decine) e sulle loro opere. Artisti dei quali questo critico è capace di  delineare storia, forme, affinità e identità. Tra le sue molte attività, Frazzetto ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Catania. L’Ateneo della città ha usufruito delle sue competenze e del suo nome soltanto per alcuni anni nei quali ha tenuto i corsi di Storia dell’arte contemporanea nel Dipartimento di Scienze Umanistiche. Per il resto l’Università di Catania si è privata della presenza di uno dei massimi critici viventi del contemporaneo.
Spero che nei prossimi mesi Palazzo Valle sia fruibile per intero ma già adesso il suo terzo piano merita la visita di chi vuole comprendere più a fondo la complessità del reale e dunque vivere meglio.

Solitudine

Vivian Maier. Una fotografa ritrovata
Catania – Fondazione Puglisi Cosentino
A cura di Anne Morin e Alessandra Mauro
Sino al 18 febbraio 2018

Gli umani, la loro costitutiva solitudine, che siano bambini, operai, madri, funzionari, giovani, anziani, commercianti, edicolanti, bianchi, neri, tutti pronti alla morte, ora, dopo. Una solitudine fatta di azioni, di flusso, di sguardi riempiti dello stupore d’esserci. Uno stupore che coinvolge le strade e le case, le contagia, le ferma nello spazio.
New York, Chicago, San Francisco sembrano il luogo di un’ovvia penitenza. Come se i frammenti di materia che le immagini riverberano venissero dall’improvvisa ma inevitabile interruzione della salvezza. L’utilizzo del colore, a partire dagli anni Settanta, banalizza un poco questo sguardo, lo rende più ‘realistico’, meno apparente e quindi meno vero. I video in 8mm restituiscono il movimento frammentario del mondo, la pena delle attività umane, la saturazione degli istanti. E spingono a migrare in qualche redento altrove. In questo altrove vivono e a questo altrove accennano i numerosi autoritratti di Vivian Maier (1926-2009). Realizzati guardandosi in una vetrina sulla strada o preparati in una fuga di specchi dentro casa.
Due di tali autoritratti svelano qualcosa del silenzio di questa fotografa che non espose mai finché fu viva, suggeriscono qualche ipotesi sui suoi pensieri.
Il primo (del 1955) è una compiuta dichiarazione di poetica. Un operaio di una ditta di traslochi solleva uno specchio. Lei, maestra del tempo, coglie l’istante e si eternizza in questo specchio diventando il suo centro, il centro della foto, il centro dello spazio isotropo che da lei si diparte. Un’immagine stupefacente.
Il secondo, a colori e senza data, raffigura poggiate a terra una camicia, un soprabito e un cappello. Dentro i quali non c’è nessuno. Questo è la solitudine. È il nostro non esserci per gli altri, non esserci nello spazio, non esserci. È rinchiudersi nelle stanze del proprio sé e da questo castello alto e desolato tentare di amministrare i feudi della disperazione.

Vivian Maier visse da sola ed è anche questa solitudine che proietta nello sguardo interiore, esatto e distante che posa sul mondo.

[Una mia più ampia analisi dell’opera di Vivian Maier è in preparazione per il prossimo numero della rivista Gente di fotografia]

Uno spasso

Nespolo That’s Life 
Catania – Fondazione Puglisi Cosentino
A cura di Danilo Eccher
Sino al 15 gennaio 2017

«La più alta autorità patafisica italiana», così Ugo Nespolo viene definito nel testo di presentazione della mostra. Della patafisica Nespolo esprime l’ironica giocosità che fa dell’arte uno spasso per adulti rimasti bambini; ha l’apertura a qualunque materiale: carta, vetro, alluminio, legno, acciaio, tessuto, vimini, ottone, nylon, serigrafie, fotografie, acrilici su tela, panno; ha la serietà del pensiero, come testimoniano in modo evidente le Tavole di Pastore (1968), con i sillogismi aristotelici diventati figura, forma, serialità, e anche Addizione (1973) e Grande conto del 1981, opere che hanno il coraggio e la capacità di trasformare l’aritmetica in ludico colore. Danilo Eccher ha giustamente scritto che «Nespolo è artista nel senso più classico del termine, creatore di immagini e racconti, architetto e scienziato, poeta e faber, regista e falegname, o, come si potrebbe riassumere, l’ultimo allievo di Luigi Pareyson».
Questo artista coglie soprattutto il ritmo degli oggetti, poiché anche gli oggetti inanimati sono tempo incarnato. Un tempo che diviene più lentamente ma che si trasforma anch’esso (è chiaro, ad esempio, in Schedario del 1967). Se le opere più recenti di Nespolo sembrano dei mosaici postmoderni, ovunque e sempre si tratta di un mondo colorato, colmo di significati del tutto razionali e insieme profondamente giocosi.

La mente scultorea

Fondazione Puglisi Cosentino – Palazzo Valle – Catania
Louise Nevelson
A cura di Bruno Corà
Sino al 19 gennaio 2014

Nata a Kiev nel 1899, Louise Nevelson ha percorso il Novecento assimilando dal cubismo ciò che lei definiva «la quarta dimensione» della scultura/pittura, che consiste «non in ciò che si vede ma nella facoltà di completare ciò che si sta vedendo». Anche per questo scelse probabilmente la scultura, poiché in essa l’opera diventa viva nello spazio ambiente e nello spazio della mente. Nevelson raccoglieva da ogni parte pezzi di legno e attraverso un’azione di riciclaggio e assemblaggio li trasformava in totem, colonne, dischi, cerchi, pareti. Legno ridipinto quasi sempre di nero e questo dà alla sua opera grande uniformità e rigore. Il legno è un materiale corroso, frammentato, vissuto. E quindi immerso nel tempo assai più del marmo o del bronzo. Ne scaturisce un’arte dinamica al modo di una città -«Vedo New York come un’immensa scultura»- che a volte si amplia a una dimensione cosmica, come nella potente parete dal titolo Homage to the Universe (1968) dove la materia diventa una struttura seriale, un’armonica alternanza che trasforma il legno in musica.
La mostra presenta anche numerose immagini che ritraggono l’artista. Tra queste, una terribile fotografia di Mapplethorpe (1986) nella quale Nevelson appare una divinità della determinazione, un’Erinni. Divinità consapevole di che cosa sono fatti gli umani, del loro legno: «Penso che la cosa più grande che abbiamo sia la consapevolezza della mente» poiché -aggiunge- è mediante essa che costruiamo il mondo, come lo scultore fa con l’opera.

 

Coralli

I grandi Capolavori del Corallo.
I coralli di Trapani del XVII e XVIII secolo

Fondazione Puglisi Cosentino  – Catania
A cura di Valeria Li Vigni
Sino al 5 maggio 2013 – Dal 18 maggio al 30 giugno 2013 la mostra sarà visitabile al Museo Pepoli di Trapani

 

Nell’acqua intere civiltà hanno cercato sostentamento, potenza, meraviglia. E una Wunderkammer accoglie il visitatore che inizia il suo itinerario tra i coralli sradicati dalle rocce profonde per farli diventare amuleti, talismani, crocifissi, monetiere, scatolette, ciondoli, collane, rosari, ostensori, calici, orecchini, specchi. E persino presepi con strutture architettoniche. Come un Mida capace di plasmare e di annientare, qualunque materia sia toccata dall’umano si fa  forma, simbolo, artificio.
Forma della mente che nel rosso del corallo ritrova la morte di un dio alla tortura o il raggrumarsi dell’alga al contatto con il sangue della testa spiccata da Teseo alla Medusa. Simbolo cosmico e privato di una benedizione da portare con sé sin dalla nascita, riproduzione nella materia dura del corallo della forza di altri animali e degli dèi. Artificio di un artigianato una volta splendente e ora declinante ma sempre capace di modellare il ramo vivente del corallo in ogni desiderio voluto da chi compra.
Da Trapani a Catania, dalla Grecia a Gibilterra il rosso vitreo e sensuale del corallo può ben essere metafora del sangue che in questo mare è stato sparso per cercare sostentamento, potenza, meraviglia.

Others

Others. Le Biennali d’arte di Marrakech, Istanbul, Atene a Palermo e Catania

Catania – Fondazione Puglisi Cosentino
Sino al 7 novembre 2010

Molto interessante l’iniziativa realizzata in comune dalle due sedi espositive di Palermo e di Catania dedicate all’arte contemporanea. Palazzo Riso ospita una selezione della Biennale di Marrakech, Palazzo Valle quelle di Istanbul e Atene.

L’alterità delle Biennali visitabili a Catania

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Pre-visioni

Catania – Palazzo Valle
Fondazione Puglisi Cosentino
Sino al 28 febbraio 2010

Palazzo Valle ha aperto un nuovo spazio espositivo al primo piano dell’edificio. A inaugurarlo è una mostra di artisti studenti delle Accademie di Belle Arti di Catania e Palermo.
Angelo Spina ambienta l’Apocatastasi in una scuola abbandonata. Valentina Cirami in Step distende una cassetta della frutta trasformandola da volume a superficie. Inevitabili ma fecondi i debiti con grandi modelli del Novecento. Come queli di Andrea Mangione con Bacon, di Giovanni Sortino con David Schnell (intenso davvero lo spazio grandangolare della sua stanza, deformata ma lieve), di Guè Marco Mangione con Liechtenstein. Una delle installazioni video -quella di Giuseppe Buzzotta- si intitola Luci/stelle del carcere disperse in questo mondo e altri infiniti e vi si può ascoltare una parte della deposizione di Giordano Bruno davanti al Tribunale che lo avrebbe condannato a morte. Pulsa nelle parole del filosofo e nelle immagini dell’artista la stessa meraviglia per una misura che non possiamo cogliere ma soltanto sperare di intuire, almeno qualche volta. E l’arte serve anche a questo. A riempire di grandezza la visione.

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