Il linguaggio umano è una facoltà innata, come pensa Chomsky, o è un’acquisizione evolutiva, come sembra ritenere Darwin? In realtà, anche questa dicotomia è troppo rigida e non dà conto della complessità degli eventi. Il biologo cognitivista W.T. Sherman Fitch III -intervistato da D. Ovadia- ritiene che la struttura linguistica sia fatta di moduli innati che poi il tempo biologico e quello culturale contribuiscono a sviluppare nei modi più ricchi e diversi, non soltanto nell’uomo ma anche -pur se in modi diversissimi- negli altri animali.
«Già interiorizzato in posizione di onnipotenza, già intronizzato, si potrebbe dire, esso diventa ora autorità maiestatica, legge inesorabile, o rigore senza nome». Così Elvio Fachinelli (La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Adelphi, 1992, p. 114) a proposito della nevrosi ossessiva e della sua complessa genesi da un’autorità temuta e amata. È solo un esempio della miriade di disturbi e di sindromi delle quali ogni essere umano è vittima, seppure in maniera differente. Non esiste, davvero, persona “del tutto sana di mente” poiché la psiche è una fragile filigrana che con fatica fa da schermo alle pulsioni e ai desideri estremi in cui la vita consiste. L’immensa tristezza degli umani affonda qui, in questo difficile e ripetuto impegno a sottrarsi alle forze ctonie da cui pure siamo germinati. Anche per questo aveva ragione Sileno nella risposta che, infine, diede a Mida.
Pig Island by Paul McCarthy
Milano – Fondazione Nicola Trussardi – Palazzo Citterio
Sino al 4 luglio 2010
Nei sotterranei di Palazzo Citterio -a pochi passi dalla Pinacoteca di Brera- un uomo dormiente o forse morto accoglie i visitatori e li avvia verso questo suo bulimico e monumentale sogno. Un percorso onirico tra antiche fiabe, pirati e divette del cinema, dame settecentesche e fiumi di ketchup, falli di gomma e video pantagruelici. Un’arte per aggiunta, nella quale il surrealismo sembra trovare uno dei suoi vertici, ma è la realtà che vince. La realtà del potere sempre più folle che dilaga tra gli umani. Una sorta di Presidente Schreber che assume le fattezze dei Bush (una mescolanza di padre e figlio) mentre si accoppiano con una scrofa. Una sorta di Grande Abbuffata e di Salò o le centoventi giornate di Sodoma ma tutto declinato in salsa statunitense con gli hamburger, i cappelli, le forche e soprattutto un senso di pieno che non lascia spazio a nulla che non sia materia, pura materia: legno, plastica, silicone, acciaio, polistirolo, nylon, vetro… È l’orgia dell’opera mai completata, sempre provvisoria, vista mentre la si fa ed è pronta a cambiare, ad aggiungere ancora non senso allo spazio. Una civiltà letteralmente mostruosa si guarda allo specchio. Orripilante. Non l’opera, il mondo.

Eugène Minkowski
Il tempo vissuto.
Fenomenologia e psicopatologia
(Le temps vécu. Études phénoménologique et psycopatologiques [1933], 1968)
Trad. di Giuliana Terzian
Revisione e cura del testo di Anna Maria Farcito
Introduzione di Federico Leoni
Prefazione di Enzo Paci
Nuova edizione
Einaudi, Torino 2004
Pagine XXXIX-401
Il tempo/spazio costituisce l’esperienza fondamentale dell’umano e del suo stare al mondo, è «per ognuno di noi il problema più vivo, più personale» (pag. 5). Anche per questo la radice profonda e l’espressione immediata delle psicopatologie non può che coinvolgere la sua percezione e rappresentazione. Il distacco dalla realtà, qualunque forma essa assuma, è un distacco dal fondamento temporale della vita umana.
Il patologico, mostrandoci che il fenomeno del tempo e probabilmente anche quello dello spazio si situano e si organizzano nella coscienza malata diversamente da come lo concepiamo di solito, mette in rilievo caratteri essenziali di questi fenomeni che, proprio a motivo della poca distanza che ci separa da essi nella vita passerebbero inosservati o sarebbero considerati del tutto naturali. (8)
Il disorientamento temporale si accompagna quasi sempre a un disorientamento nello spazio; la malattia psichica è anche una rinuncia alla dimensione fondamentale del futuro, a quello slancio verso l’ha da essere il cui rallentamento e diminuzione produce «ora l’impossibilità di liquidare le situazioni presenti, ora il sentimento di una determinazione ineluttabile a opera del passato» (279). Della complessità esistenziale e psicologica, della sua varietà, si perdono le differenze e rimane l’identità; si dissolve il molteplice a favore dell’uno; si perde il tempo nel dominio dello spazio. Nello spazio, infatti, «noi cerchiamo il simile e l’identico, nel tempo viviamo il nuovo e il dissimile» (314-315).
La schizofrenia è in gran parte il risultato di tale dinamica esclusiva ed escludente, che tende ad arrestare lo slancio della vita interiore in «atti senza domani, atti congelati, atti a corto circuito, atti che non tendono a concludere» (265), tanto da poter dire che lo schizofrenico venga «attirato solo da quello che è spazio, che solo così si senta a suo agio, e che fugga tutto ciò che è divenire e tempo» (262).
Se una caratteristica primaria del tempo è il divenire incessante di questa “massa liquida” (Bergson) che sta ovunque intorno e dentro all’io e che plasma l’«io-qui-adesso» (258) del corpo umano, i processi morbosi consistono anche e proprio nel ridurre tale struttura a una immobilità densa e senza futuro, nella quale i ricordi tendono ad assumere sempre più la figura deformata della persecuzione e di una infinita tristezza. La memoria, infatti, non si limita a registrare l’accaduto ma lo reinventa di continuo. La malattia mentale è una reinvenzione parziale, statica, deformata sino all’allucinazione.
Di contro, gli stati d’equilibrio -sempre fragili- della psiche consistono nel mantenimento della «innata solidarietà spazio-temporale» che è «paragonabile a quella della solidarietà organico-psichica» (22). Ha quindi ragione Heidegger, (del cui libro del 1927 Minkowski afferma comunque di non aver potuto discutere) a definire il tempo come avvenire-essente stato-presentante, «gewesend-gegenwärtigende Zukunft» (Sein und Zeit, § 65, p. 916 dell’edizione Mondadori 2006) e il futuro come «il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica» (Ivi, § 65, pp. 925-927).
Secondo Minkowski, infatti, c’è un’asimmetria tra passato e futuro: «l’avvenire vissuto ci è dato incontestabilmente in modo più primitivo del passato. Esso reca con sé nella vita il fattore creatore, di cui il passato sembra essere interamente privo» (39). Ogni raggiungimento apre ad altri obiettivi, ogni luogo dispiega nuovi itinerari, ogni qui è un oltre. Dove ciò non accade il corpo è diventato salma. Perché anche questo è il tempo vissuto, «una riserva eterna e inestinguibile di forze, senza la quale non si potrebbe vivere» (76).
I testi che compongono il libro furono redatti lungo una ventina d’anni e a volte emergono differenze e ripetizioni. Il fondamento è tuttavia sempre chiaro e unitario, radicato com’è nelle tesi bergsoniane e husserliane dei dati immediati della coscienza e delle visioni d’essenze. La prima parte è un Saggio sull’aspetto temporale della vita, la seconda mette alla prova i postulati teorici mediante il confronto con numerosi casi clinici. Il risultato è un testo che offre conferma anche empirica della ricchezza teoretica ed esistenziale della temporalità fenomenologica.
Apan – The Ape
di Jesper Ganslandt
Con Olle Sarri, Francoise Joyce, Niclas Gillis, Sean Pietrulewicz
Svezia, 2009
Trailer del film
Un uomo si muove in modo teso per casa. Poi esce e si reca alle sue consuete attività: lavoro, tennis, visite alla madre. Tornato, prende suo figlio e lo porta in ospedale. Pensa al suicidio, che evita all’ultimo istante. Compra un giocattolo e lo regala al bambino, che gli confida di aver fatto un sogno in cui tutti erano degli animali tranne il padre. «E io chi ero?», gli chiede. Risposta: «Tu eri tu». Quando la scena si apre sulle altre stanze della casa, appaiono le ragioni di tutta quella tensione.
Opera ambiziosa ma anche noiosa. La cinepresa sempre addosso al protagonista -sicuramente bravo- restituisce l’angoscia dell’uomo e della situazione. Non basta tuttavia descrivere in modo più o meno completo la giornata di una persona che ha distrutto la propria vita per creare un film che sia qualcosa di più di un documentario della psiche.
Shutter Island
di Martin Scorsese
USA, 2010
Con: Leonardo Di Caprio
(Teddy Daniels), Mark Ruffalo
(Chuck Aule), Ben Kingsley
(Dr. John Cawley), Michelle Williams (Dolores Chanal), Emily Mortimer
(Rachel Solando), Max Von Sydow
(Dr. Jeremiah Naehring)
Dal romanzo di Dennis Lehane
Trailer del film
1954. Reduce dall’Europa, dove è entrato da soldato anche a Dachau, l’agente federale Teddy Daniels è incaricato di indagare sull’impossibile scomparsa di una paziente dal manicomio criminale di Shutter Island, nella costa orientale degli Stati Uniti. La donna, colpevole di aver annegato i suoi tre figli, viene ritrovata ma gli scopi di Teddy sono anche altri: comprendere che cosa davvero succede in quell’isola e incontrare il piromane che ha causato la morte della moglie. Il tempo si dilata, gli spazi diventano liquidi, gli incontri acquistano una coloritura livida come quella del cielo e del mare. In fondo all’enigma, o in cima a una scala, la verità è delirio.
Il grigio sontuoso che tutto intride fa emergere il colore dei sogni di Teddy Daniels come dei lampi difficili da comprendere e da accettare. L’acqua che lo trasporta e che lo circonda è l’elemento che lo scuote e lo trafigge. Le riprese dal basso offrono alle situazioni e alla luce la sostanza dell’inquietudine. E ovunque -anfratti, cielo, sguardi, oggetti, alberi, rocce, corpi- il mondo diventa un’immensa e pervasiva allucinazione. Un film potente, una disperata vivisezione della psiche, una esatta rappresentazione della follia ma soprattutto della sua asintotica vicinanza alla realtà. Quale realtà? Che cos’è reale al di fuori della mente, dei suoi significati?
Uno psicolabile ha lanciato un oggetto contro un altro psicolabile mentre l’imponente apparato di sicurezza si apriva come il burro di fronte all’entusiasmo della folla festante. Entusiasmo del quale la vittima non può fare a meno, anche a costo di rischiare la propria incolumità. Perché tale soggetto è -come sua moglie ha attestato, oltre che le sue stesse azioni e parole- vittima anche di un delirio egocentrico da tempo senza più limiti. Non c’è nulla di politico in questo fatto. Si tratta di una questione interna alla psichiatria.
Di politico c’è invece l’odio totale che la folla di lacchè nei giornali, nelle tv, in parlamento, scaglia da anni e ora senza più freni contro le regole democratiche e la libertà di chi non si è definitivamente venduto o asservito alle follie del Padrone.