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Sull’Università italiana: numeri e pregiudizi

L’obiettivo è anestetizzare il corpo sociale e indurlo ad accettare le decisioni prese dalle istituzioni finanziarie e dai poteri politici a esse subordinate. Quali i mezzi? Due sopratutto, tra di loro strettamente coniugati: la droga televisiva (distrazione e disinformazione) e l’umiliazione della conoscenza. Il risultato sarà -deve essere- la limitazione del pensiero critico a individui isolati e a piccoli gruppi, additati al pubblico disprezzo delle masse.
Uno degli ambiti nei quali tale strategia si dispiega è quello della formazione universitaria. È in questa sede, infatti, che dovrebbe arrivare a maturazione e compimento il percorso di conoscenza, e quindi di libertà, che comincia con la scuola. E allora ecco che in Italia un gruppo di bocconiani fanatici e di agguerriti professori collaborazionisti che scorrazzano nei “più grandi quotidiani del Paese”, coadiuvati da pittoreschi giornalisti e da una signora laureata in giurisprudenza a Brescia (fuori corso e con il voto di 100 su 110, che andò a prendersi l’abilitazione in Calabria e che poi divenne persino ministra dell’Università) cominciano a ripetere ossessivamente che per l’Università italiana si spende troppo, che professori e studenti sono in numero spropositato, che la laurea non serve a nulla. I loro nomi? Eccoli: Mariastella Gelmini, Francesco Giavazzi, Roberto Perotti, Francesco Profumo, Michel Martone, Andrea Ichino, Oscar Giannino, Sergio Benedetto. Costoro diventano direttamente decisori politici (Gelmini, Profumo) o potenti consiglieri dei decisori.
La loro tenace arroganza è tuttavia pari alla loro impreparazione. È quanto si desume dall’edizione 2013 del Rapporto OCSE Education at a Glance, i cui risultati sono sintetizzati e discussi da Giuseppe De Nicolao su «Roars»: Education at a Glance 2013: cosa dice l’OCSE dell’università italiana?
Da tale studio risulta che l’Italia è la 30° su 33 Paesi dell’OCSE nella spesa per l’Università; che soltanto l’Ungheria effettua tagli superiori a quelli dell’Italia, la quale è l’ultima come percentuale dell’istruzione sul totale della spesa pubblica; che nel rapporto studenti/docenti su 26 nazioni soltanto 5 stanno peggio di noi; che nei costi per ogni singolo studente siamo al 14° posto su 24; che lungi dall’essere «quasi gratuita» (Giavazzi dixit) l’Università italiana è al 3° posto come somme richieste alle famiglie; che l’età media dei laureati di primo livello è la più bassa in Europa; che ben lontani dall’avere troppi laureati, siamo al 34° posto su 36; che i benefici pubblici di un laureato italiano sono superiori del 3,7 ai costi sostenuti; che i laureati hanno un reddito medio superiore del 48% a quello dei diplomati; che la percentuale di laureati che trovano lavoro è del 79% rispetto al 75% dei diplomati nelle scuole superiori e al 58% dei diplomati nella scuola media.
Le conclusioni di De Nicolao sono le seguenti: «Una nazione che investe poche risorse umane e finanziarie nell’istruzione universitaria e che negli ultimi anni ha tagliato ulteriormente nel contesto di un generale disinvestimento riguardante l’intero settore dell’istruzione. Una percentuale di laureati che ci vede ultimi in Europa e penultimi nell’OCSE. Una spesa per studente che è sotto la media mentre è in aumento la percentuale di costo scaricata sulle spalle degli studenti e delle loro famiglie. Per l’Italia, i dati OCSE dipingono con efficacia il quadro di una nazione che ha intrapreso con decisione la via del declino civile, culturale ed economico».
L’Università italiana ha certamente limiti e problemi di varia natura. Uno di essi è la presenza al proprio interno di professori come quelli elencati sopra, i quali stanno dando un attivo contributo -fatto di di superficialità e di pregiudizio- alla sua distruzione. I numeri dell’OCSE bocciano tali professori e la loro impreparazione come studiosi e come cittadini. Ma si sa che i collaborazionisti sono di solito più zelanti dei loro padroni.

[Un commento sintetico e vivace a questi dati si può leggere sul «Fatto Quotidiano» a opera di Thomas Mackinson: Università, l’Ocse sbugiarda stampa e politica. “Troppi costi e studenti”: falso. Segnalo anche due articoli dedicati da Francesco Coniglione allo stesso tema, usciti su «Vita pensata»: Università sotto tiro. Miti e realtà del sistema universitario italiano (I parteII parte), poi ulteriormente elaborati nel volume Maledetta Università. Fantasie e realtà sul sistema della ricerca in Italia, Di Girolamo Editore, 2011]

 

Crisi

Mi sembra sorprendente ed estremamente positivo che un popolo innamorato del calcio come quello brasiliano stia avendo la forza di denunciare «le spese faraoniche in vista dei Mondiali, a scapito della qualità dei servizi sanitari e educativi, e la gigantesca corruzione, vero buco nero delle risorse statali. […] Negli stadi, incuranti del divieto della Fifa, molti tifosi hanno sostenuto le proteste: “Brasile svegliati, un professore vale più di un Neymar”». Ma anche di questa rivolta, come di quella turca, l’informazione italiana parla il meno possibile. E allora di fronte alla pervicacia istupidente del mainstream mediatico -teso sempre a sopire, troncare, tacere, ingannare– è opportuno ricordare come e perché si sia generato quell’insieme di eventi che vengono definiti «crisi»:

Il punto di partenza della crisi del 2008 è stato, da un lato, la deregolamentazione quasi totale delle prassi dei mercati finanziari e, dall’altro, la comparsa di “paesi emergenti”, a cominciare dalla Cina, che si sono accaparrati una parte crescente della produzione mondiale grazie al dumping salariale. Quella concorrenza, che spiega anche le delocalizzazioni, ha comportato un calo generale dei redditi nei paesi occidentali, calo che i nuclei familiari sono stati incoraggiati a compensare con un indebitamento crescente, che si supponeva potesse permettere di conservare il loro livello di vita. Ovviamente, le cose non sono andate affatto così, e il sistema è crollato quando i mancati pagamenti si sono accumulati. È quel che è accaduto negli Stati Uniti con la crisi dei crediti ipotecari (subprimes). Gli Stati sono stati allora costretti ad indebitarsi a loro volta per impedire al sistema bancario di sprofondare. Il problema dell’indebitamento privato si è così tramutato in problema dell’indebitamento pubblico.
[…]
Le banche, che potranno contrarre presiti all’1% dalla Bce, concederanno presiti al Mes [Meccanismo europeo di stabilità] ad un tasso di interesse nettamente superiore, dopo di che il Mes presterà agli Stati ad un tasso ancor più elevato. […] In ultima analisi, le banche daranno agli Stati, imponendo interessi, del denaro che consentirà a quei medesimi Stati di rimpinguare le casse di quelle stesse banche. Una situazione davvero surrealista, la cui causa prima, come è noto, è la proibizione fatta a partire dal 1973 agli Stati di contrarre prestiti ad interesse minimo o nullo con le loro banche centrali, il che li ha posti sostanzialmente alle dipendenze del settore privato. (Alain De Benoist, Diorama letterario, n. 314,  pp. 8-9)

La natura non soltanto assurda di queste transazioni -assurda per il bene pubblico ma assai sensata per gli interessi dei banchieri- è aggravata dal fatto che essa è stata resa per legge irreversibile, privando in questo modo parlamenti e governi di ogni potere, riducendoli a ornamento della finanza. Ha dunque ragione Gaby Charroux -deputato francese comunista e sindaco di Martigues- a osservare che in questo modo «consegniamo direttamente le chiavi della nostra politica economica e di bilancio ai tecnocrati di Bruxelles e scivoliamo verso […] una forma morbida, giuridicamente corretta, di dittatura finanziaria» (Ivi, p. 11). Con l’ascesa al potere anche politico di impiegati e funzionari della Goldman Sachs ad Atene, a Roma, a Francoforte (Mario Draghi), gli Stati sono diventati evidentemente degli Stati di classe diretti dal capitalismo finanziario: «Le banche, che controllano anche i mezzi di pagamento dei cittadini, hanno preso lo Stato in ostaggio per conto dei loro ricchi azionisti. Lo Stato diventa una macchina per ricattare le popolazioni a beneficio dei più ricchi» (Emmanuel Todd in un’intervista a Le Point, 13.10.2011).
Uscire da una spirale irrazionale e violenta come questa sarebbe possibile se il potere politico fosse altro da quello finanziario e prendesse provvedimenti come i seguenti: applicazione di un protezionismo europeo, nazionalizzazione delle banche, rifiuto di pagare il debito pubblico. Provvedimenti gravi ma praticabili se -appunto- i governi non fossero ormai ridotti alla condizione di impiegati della finanza il cui mandato è di agire contro i loro popoli, cominciando con l’ingannarli. Popoli i quali «non credono più nell’Europa, che confondono a torto con l’Unione europea. Non hanno più fiducia nella polizia […], non hanno più fiducia nei tribunali, che non sanzionano mai i delinquenti in colletto bianco e nemmeno i banditi della finanza di mercato» (de Benoist, Diorama letterario, n. 214, p. 23).
Anche le operazioni di killeraggio internazionale sono mosse dagli stessi scopi speculativi e di controllo delle risorse, come accaduto in Libia, con i massacri perpetrati da Sarkozy e Obama, «assassinando il capo dello Stato libico Muammar Gheddafi e la sua famiglia, inclusi i bambini piccoli»; come accaduto  in Iraq, dove le potenze anglosassoni e i loro servi italici hanno causato «due milioni di morti, affamato intere popolazioni, distrutto un paese unificato, allora il più evoluto industrialmente, socialmente ed economicamente della regione, averlo consegnato alla guerra civile, agli scontri tribali o religiosi, alla persecuzione delle minoranze come quella cristiana e agli attentati omicidi quotidiani. Del resto, George W. Bush non aveva dichiarato di voler riportare l’Iraq all’età della pietra?» (Maurice Cury, ivi, p. 24). La stessa operazione si sta ferocemente tentando contro il popolo siriano.

 

L’Oppio

«I sovietici leggevano la Pravda, ma non le credevano. Gli italiani guardano la televisione e le credono». Sta qui una delle spiegazioni della condizione oppiacea dentro la quale noi italiani continuiamo a dormire mentre altrove -come in Grecia, in Spagna o in Turchia, dove sembra sia iniziata la «Rinascita mentale di un popolo consapevole di aver perso molti diritti che vuole riacquistare al più presto, a qualsiasi costo»- c’è almeno un tentativo di ribellione contro la dittatura liberista. In Italia no. Il coro universale che dalla destra e dalla sinistra politico-mediatiche investe ogni giorno e a tutte le ore la vista, l’udito, la mente dei cittadini italiani canta la responsabilità, la serietà, l’onestà del potere democratico-berlusconiano. Canto maligno di sirene che interpreta artatamente ogni parola e comportamento dell’unico movimento che a tale squallore tenta di opporsi.
A me sembra persino moderato il linguaggio di Grillo nei confronti dei giornalisti, categoria -con le dovute e proverbiali eccezioni- di fronte alla quale ogni prostituta conserva un’indefettibile dignità. Costoro, infatti, vendono qualcosa di ancora più personale degli organi genitali: vendono il proprio pensiero. Assunti come praticanti, debbono abituarsi sin dall’inizio a non indagare e a non criticare se non chi e che cosa i loro direttori vogliono che venga indagato e criticato. Servilismo e non pensiero diventano in tal modo un habitus della persona che scrive sotto dettatura del potere. Quando la parola del giornalista si coniuga all’immagine televisiva, il mondo si dissolve nell’ermeneutica del potente, quella che permette ancora a milioni di italiani di credere che Berlusconi non sia un delinquente e che il Partito Democratico sia di sinistra.
La Democrazia è fatta di almeno quattro elementi: divisione dei poteri, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, elezioni libere e segrete, informazione indipendente da chi governa. In Italia si vota periodicamente e in modo -più o meno- segreto ma gli altri tre elementi sono assenti. L’Italia è quindi un Paese fintamente democratico. La parossistica dipendenza che il nostro popolo nutre verso la televisione è anche il bisogno di un’autorità che dica cosa si deve pensare e come si deve vivere. La televisione è forse la meno percepita ma anche la più dura smentita della democrazia. Di un sistema che necessariamente presuppone il desiderio di vivere liberi e la capacità di esserlo da parte di qualsiasi individuo. Ma non è così: chi è servo cercherà sempre un padrone, ne va della sua stessa identità. Con il progressivo tramonto delle autorità religiose, ideologiche, scientifiche, tale bisogno trova pieno appagamento nello schermo televisivo: nuovo oracolo, divinità all’apparenza poco esigente, la si gratifica con uno dei più antichi segni di sottomissione, l’ipse dixit: “L’ha detto la televisione”.
In questo niente, in questo vuoto colorato e costante, tramonta la capacità di pensare e annega con essa ogni libertà. La miseria del dominio catodico va individuata e distrutta. Si tratta di un passaggio necessario per individuare e distruggere la masnada di banchieri criminali che, con l’aiuto della televisione, governa l’Italia e l’Europa.

Insetti / Depressione

Effetti collaterali
(Side Effects)
di Steven Soderbergh
Con: Rooney Mara (Emily Taylor), Jude Law (Jonathan Banks), Catherine Zeta-Jones (Victoria Siebert),  Channing Tatum (Martin Taylor), Vinessa Shaw (Deidre Banks)
USA, 2013
Trailer del film

Il giorno del suo matrimonio Emily vede arrestare il marito Martin per un reato finanziario, l’insider trading (o “asimmetria informativa” nelle operazioni di compravendita finanziaria). Un elemento, questo, che all’inizio sembra secondario ma che nel corso della vicenda diventerà centrale. In ogni caso, Emily ne viene sconvolta e cade in uno stato di profonda depressione che la spinge a tentare il suicidio anche dopo che Martin è uscito dal carcere. In ospedale incontra uno psichiatra -il dottor Banks- che le propone l’utilizzo di un nuovo ansiolitico in corso di sperimentazione. Gli effetti collaterali di questo farmaco si riveleranno però drammatici, sino a sconvolgere la famiglia di Emily e quella di Banks. Sullo sfondo sta Victoria Siebert, la psichiatra che aveva avuto precedentemente in cura la donna.

Nella prima parte il film tenta -riuscendoci- qualcosa di temerario: mostrare il mondo come lo vede un depresso. Grigiore, nebbia interiore, oggetti e situazioni senza reciproche relazioni, stanchezza, insignificanza, raggomitolarsi in se stessi, pianto, vuoto. La raffinata tecnica cinematografica di Soderbergh è capace di entrare in questi meandri interiori e trasformarli in immagine. È sicuramente la parte che vale l’intero film. Poi, Effetti collaterali diventa un buon thriller teso e conseguente. Ma niente di più. L’opera accenna anche agli enormi interessi finanziari che stanno dentro e dietro l’attività e i profitti delle case farmaceutiche ma il significato del film sta nello sguardo freddo e nelle modalità oggettive con le quali il mondo del depresso viene analizzato sin nei dettagli. La cinepresa diventa un entomologo che osserva, scruta, fruga la psiche diventata puro movimento di un insetto triste.

 

Il Partito Unico

E così tutto è compiuto. Il sogno della fazione di destra del Partito Comunista Italiano -ricondurre una forza anticapitalista dentro l’alveo di un’Europa subordinata agli Stati Uniti d’America- si è realizzato al di là delle stesse speranze di colui che ha tenacemente operato per decenni in questa direzione: Giorgio Napolitano. Passato dallo stalinismo all’ultraliberismo, costui ha mantenuto costante il nucleo autoritario che lo ha sempre ispirato, sino a negare ora apertamente i tre capisaldi di qualunque democrazia degna di tale nome: la distinzione tra maggioranza e opposizione, la divisione dei poteri, l’informazione come strumento di critica dell’azione politica.

Contro la fisiologica e necessaria dialettica parlamentare tra governo e opposizione, Napolitano esorta da anni alla formazione di una maggioranza che si estenda a tutte le forze politiche, ha promosso un’unità intessuta di complicità, di interessi personali, di reciproci ricatti. Quando si poteva cancellare l’anomalia criminale del berlusconismo -nel novembre del 2011- sciogliendo le Camere e dando vita a un governo di sinistra, ha invece affidato l’Italia a un banchiere spietato, incapace e clericale, offrendo alla destra più corrotta d’Europa tutto il tempo per ricostituirsi. Ha poi predeterminato il risultato politico qualunque fosse stato l’esito delle elezioni. E infatti nonostante il 75% degli italiani che si sono recati alle urne abbia espresso con chiarezza la volontà di farla finita con Berlusconi, Napolitano ha operato affinché costui fosse di nuovo al centro della dinamica politica, esito non contrastato dal defunto Partito Democratico anche per la ragione indicata da Franco Berardi Bifo: «Il cinismo è il suo [del medium televisivo] tono morale predominante, perché l’inconscio collettivo prevale sulla ragione critica, e l’inconscio collettivo si identifica ora con la figura narrativa del vincente. La sinistra pensava che l’immoralismo avrebbe portato alla sconfitta del mammasantissima. Sbagliava perché gli italiani che vivono nel mondo descritto in Reality da Matteo Garrone voteranno Berlusconi anche quando lo vedranno inculare il bambino Gesù (purché sia mostrato in tivù)» («L’evento italiano», in Alfabeta2, n. 28, aprile 2013, p. 6).
Contro la divisione dei poteri ha lentamente ma inesorabilmente eroso l’autonomia del legislativo sottoponendolo all’azione dilatata di un esecutivo che a sua volta risponde soltanto a un potere -quello del Presidente della Repubblica- al quale la Costituzione nega un simile spazio. Napolitano ha poi sistematicamente umiliato il potere giudiziario sino alla clamorosa richiesta di un intervento della Corte Costituzionale che gli desse ragione nei confronti di chi stava indagando sui suoi amici.
Contro la libertà dell’informazione ha evocato il dovere per quest’ultima di «collaborare» con il governo. Affermazione di inaudita gravità antidemocratica.

La logica dell’Identità, il monoteismo autoritario e verticale del Padre, ha così prevalso sulla logica della Differenza e sulla pratica della molteplicità. Il panorama è quello plumbeo dei vecchi paesi sovietici, verso il totalitarismo dei quali l’anima di quest’uomo non ha in realtà mai cessato di rivolgersi.
E affinché sia ancora più chiara la fine che devono fare quanti osano davvero proporre la differenza, Napolitano e i suoi complici nel governo e nei partiti assistono gelidi all’inusitato attacco alla libertà e ai diritti dei parlamentari del M5S eletti da più di otto milioni di cittadini, assistono compiaciuti alla violazione delle loro caselle di posta elettronica, dei loro computer, delle loro vite private e delle azioni politiche, in modo che nessun personaggio importante che tenga a se stesso e voglia far carriera si azzardi a stare dalla parte di questi appestati. Sta accadendo qualcosa di simile a ciò che si verificò tra il 1922 e il 1924, quando l’immunità parlamentare garantì i fascisti ma non Gramsci e i nemici del Duce.
C’è molta ideologia nell’azione di Napolitano e dei suoi complici, c’è molta fedeltà al fascismo perenne della storia italiana e al sogno di società chiusa del comunismo sovietico. Ma credo ci sia anche la potenza di un ricatto che lo stesso Presidente subisce. Ricatto del quale le intercettazioni prontamente distrutte dopo la sua assurda ma emblematica rielezione sono la prova, il sigillo, il veleno.

In un denso articolo del 24 aprile scorso, Barbara Spinelli paragona l’azione del Movimento 5 Stelle al “folle volo” dell’Ulisse dantesco, al testardo rifiuto di morire nella quiete della non speranza, alla lotta contro «l’ideologia […] con cui Pangloss indottrina l’inerme Candide, in Voltaire: stiamo andando verso il migliore dei mondi possibili, l’Europa meravigliosamente si integra, ed ecco  – horribile visu!-  una coorte di paradossali e tristi sovvertitori mirano proprio al contrario: alla dis-integrazione».
Soltanto delle menti e delle vite profondamente autoritarie, meschine e complici dell’ingiustizia possono interpretare come “dis-integrazione” la parola che dice no, l’anelito alla differenza, la molteplicità politica e ontologica. Nel fallimento di quel folle volo -che non è di Beppe Grillo o del Movimento 5 Stelle ma è di chiunque voglia ancora vivere libero- c’è tutta la tragedia di un’Italia destinata alla miseria antropologica prima che economica; c’è il lutto senza fine di un Paese che da secoli è servo; c’è la prefigurazione di ciò che si vorrebbe diventasse l’intero pianeta, le cui risorse e bellezza e differenze devono cedere alla rapace azione di un unico potere che prende di volta in volta le maschere della finanza, dei Bilderberg, di tutte le massonerie e di tutte le mafie; un mondo le cui risorse e bellezza e differenze devono inabissarsi in un solo gorgo.
«E la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»
(Commedia, «Inferno», canto XXVI, vv. 141-142).

Economia dell'irrazionale

È importante che il parlamento di Cipro abbia respinto la pretesa della troika finanziaria di un prelievo forzoso (furto) sui conti correnti dei cittadini. Al di là, infatti, della particolare situazione cipriota di dipendenza dagli investimenti russi, si è trattato anche di una prova generale di quanto l’Italia e altri Paesi potrebbero subire. I dogmi e gli ordini del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea (controllata ormai dalla Germania) sono l’espressione di una irrazionalità della quale la finanza è ormai la più pericolosa manifestazione, più della politica, delle guerre e dei sentimenti.
Il problema del debito -che è di fatto il vero problema della storia contemporanea- ne costituisce palese testimonianza. Ricordiamo ancora una volta che cosa è accaduto dopo la crisi che ha colpito le banche soprattutto statunitensi -per loro precisa responsabilità- e che ha condotto l’intera Europa all’impoverimento: «Una delle cause immediate dell’innalzamento del debito risiede nei piani di salvataggio della finanza decisi dagli Stati nel 2008 e nel 2009. Per salvare le banche e le compagnie di assicurazioni, gli Stati hanno dovuto a loro volta contrarre prestiti sui mercati, il che ha accresciuto il loro debito in proporzioni enormi. Somme astronomiche (800 miliardi di dollari negli Stati Uniti, 117 miliardi di sterline in Gran Bretagna) sono state spese per impedire che le banche sprofondassero, decisione che ha gravato in pari misura sulle finanze pubbliche. Complessivamente, le quattro principali banche centrali (Riserva federale americana, Banca centrale europea, Banca del Giappone e Banca d’Inghilterra) hanno iniettato 5.000 miliardi di dollari nell’economia mondiale fra il 2008 e il 2010. È il più grande trasferimento di ricchezze della storia dal settore pubblico al settore privato! Un trasferimento che ha permesso alle banche salvate dagli Stati di ritrovarsi creditrici dei propri salvatori» (A. De Benoist, Diorama Letterario, 312, novembre-dicembre 2012, p. 2).
Banche che somigliano sempre più a dei gruppi criminali e come tali operano nella vita collettiva: «In conseguenza della crisi, l’Europa del Sud si trova oggi ad essere governata da tecnocrati e banchieri formatisi in Goldman Sachs o in Lehman Brothers. “Essere governati dal denaro organizzato è altrettanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato”, diceva Roosevelt» (Ivi, 4).
Molto interessante è a questo proposito quanto sostiene l’economista svizzero-egiziana Myret Zaki, la quale individua il maggiore rischio per l’economia mondiale nella pervicace volontà degli USA di mantenere il predominio del dollaro sull’economia globalizzata. Si tratta di una volontà politica che confligge in modo clamoroso con le regole della stessa economia liberista: «La zona  euro è molto più solvibile degli Stati Uniti. Molti studi lo dimostrano» e tuttavia il tasso di interesse pagato dagli USA rimane a meno del 3%, «un tasso anormalmente basso per un debito che definisco inadempiente», che raggiunge il 300% del Pil (quello europeo rimane sotto il 200%) e che produce una realtà sociale nella quale «46 milioni di americani vanno alla mensa dei poveri» e «il 15% della popolazione è uscito dal circuito del consumo e del risparmio». Tutto questo è dovuto a «un’amministrazione totalmente interventista. Qualcosa di mai visto in un sistema che pretende di essere liberale. L’economia americana è oggi un’economia amministrata e assistita, che manipola il valore del suo debito obbligazionario e in questo modo mette a soqquadro il mercato mondiale del debito»  (Ivi, pp. 4-6).
La vita collettiva è a volte geometrica e conseguente. Tutto questo è infatti il risultato di ciò che Heidegger chiamava Gestell, la Forma-Capitale fondata sul principio dell’illimitatezza: «Sempre più mercato, sempre più merci, sempre più profitti, sempre più reificazione dei rapporti sociali e così via. […] Da questo punto di vista, il capitalismo non è più soltanto un sistema economico, ma è anche portatore di un’antropologia che gli è propria, fondata sul modello dell’Homo œconomicus» (Intervista di L. Montarnal a A. De Benoist, Ivi, p. 7).

Dracula a Milano

Dracula e il mito dei vampiri
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di: Gianni Canova, Giulia Mafai, Margot Rauch, Italo Rota
Sino al 24 marzo 2013

Uno degli oggetti più curiosi di questa mostra è una piccola ampolla intitolata Diavolo sotto vetro. Sotto il vetro della loro comprensione gli umani vorrebbero porre il morire. Sotto il vetro della loro speranza vorrebbero mantenere la vita oltre la fine. È anche così che nascono le leggende dei non vivi e non morti, degli zombi, dei fantasmi, dei vampiri. Le origini storiche e psicologiche di tali narrazioni ne mostrano per intero la natura totalmente superstiziosa.
Il conte Vlad esistette davvero nella Transilvania del XV secolo. Fu feroce nello sterminio e -come altre famiglie del luogo- aveva nel simbolo araldico un drago, in rumeno Dracul. Ma morì anche lui e non fece più ritorno. Intorno ai cimiteri e alla loro putrefazione (quanto preferibile è la cremazione delle culture non cristiane) fiorì nelle culture contadine un catalogo di terrori. Ma la presunta crescita delle unghie e dei capelli è data dalla disidratazione della pelle e sono i rumori biologici dei cadaveri a essere interpretati come voci.
La nascita della leggenda moderna di Dracula è tutta dovuta alla letteratura e al cinema. Prima del Settecento, ad esempio, i vampiri non avevano alcun legame con i pipistrelli. Fu il naturalista Buffon a chiamare “vampiro” una nuova specie di questi mammiferi da lui scoperta. Lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblicò nel 1897 il romanzo Dracula e da allora un esercito di vampiri abitò l’immaginario. Due delle opere cinematografiche più interessanti furono il Nosferatu gentile e timido di Herzog (1979) -chiara ripresa del capolavoro di Murnau (1922)- e il Dracula di Bram Stoker di Coppola (1992).

Al di là della storia, dell’arte e delle leggende popolari, perché? Qual è il significato di questa persistenza della vita dentro la morte in un’età così razionale come la nostra? Le risposte possono essere molte.
Karl Marx paragona il Capitale a un lavoro morto che vive del sangue del lavoro vivo e quanto più ne beve tanto più è vivo. Affermazione davvero attuale se si pensa al Capitale finanziario e alla sua natura implacabile, gelida e assassina.
La donna vamp è la sintesi della capacità femminile e in generale umana di succhiare agli altri sangue, amore, amicizia, denaro, per poi buttarli via quando più non ci servono.
La luce della ragione -opportuna metafora illuministica- dovrebbe coniugare la scienza alla pietà per i morti e per noi stessi che lo saremo. Questa luce dovrebbe accettare che la materia segua il suo corso di trasformazioni e di irreversibile entropia, dovrebbe regalarci la serenità epicurea che deriva dal sapere che dopo la fine rimane davvero e soltanto il niente. E liberarci quindi dalle paure che stanno al fondo dei racconti che la mostra milanese documenta con antichi libri e quadri, con brani dalle opere cinematografiche, con  ricostruzioni d’ambienti, con costumi e fumetti. Una mostra didascalica alla quale manca però, è il caso di dire, l’anima.

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