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Uno spettro s’aggira per la scena

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Il panico

di Rafael Spregelburd
Trad. di Manuela Cherubini
Scene di Marco Rossi
Con: Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti, Clio Cipolletta, Fabrizio Falco, Iaia Forte, Elena Ghiaurov, Lucrezia Guidone, Manuela Mandracchia, Valeria Milillo, Maria Paiato, María Pilar Peréz Aspa, Valentina Picello, Paolo Pierobon, Alvia Reale, Bruna Rossi, Sandra Toffolatti
Regia di Luca Ronconi
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 10 febbraio 2013

Uno spettro s’aggira per la scena. È Emilio Sebrjakovich. Non sa d’essere morto. Si stupisce dunque che Rosa, un’agente immobiliare, voglia vendere l’appartamento che condivide con la sua amante. Tentativi di vendita infruttuosi, anche per la strana atmosfera che in questa casa si respira.
Emilio si stupisce anche che moglie e figli sembra quasi non lo vedano mentre cercano disperatamente la chiave della cassetta di sicurezza nella quale lui ha conservato tutto il denaro della famiglia.
La figlia Jessica, ballerina, prova intanto uno spettacolo di danza con una regista assai esigente, la cui coreografia descrive un mondo inquietante, un mondo forse di non più viventi.
Un labirintico Libro dei morti è questo spettacolo. Libro che rimane sempre aperto sulla scena dall’inizio alla fine, libro che la sua amante ha regalato a Emilio; libro al quale si ispira la coreografa Elyse; libro che parla di una chiave che soltanto il dio Seth conserva e che è capace di far entrare in contatto i defunti con i viventi; libro che Emilio legge e racconta nella magnifica scena finale.
Un terapeuta, chiamato a sciogliere i nodi familiari che legano e separano Lourdes e suoi due figli, afferma che «in certe società organizzate intorno al capitalismo ormai non dovremmo parlare di pazzia, ma di mero adattamento». E certamente questa commedia fa riferimento al folle capitalismo finanziario che rovinò l’Argentina -patria dell’Autore- alla fine del XX secolo, anni nei quali i cittadini non potevano ritirare i propri  soldi dalle banche, come accade a Lourdes. E i morti dei quali si sperava il ritorno -i Desaparecidos–  si sono aggirati nel cuore della vita di quel popolo sino a quando non è stato ammesso tutto l’orrore dei crimini militari.
Ma la storia è un elemento tra gli altri di questo testo divertente, orrorifico, erotico e metafisico, nel quale tutto scivola, si inclina, è sempre altrove e sempre in bilico, come si vede subito dalla struttura obliqua del palcoscenico. Una danza macabra che richiede vigile attenzione da parte dello spettatore, il quale «deve andare alla connessione da battuta a battuta […]. In effetti, i personaggi non pensano molto a quello che dicono, è come se le loro parole venissero suggerite da una specie di mente universale, da un suggeritore unico per tutti. Per questo le connessioni tra i termini e le scelte sintattiche sono molto importanti» (Luca Ronconi, Programma di sala, p. 14).
Rafael Spregelburd è riuscito nella sua scommessa «di costruire un’opera sulla Trascendenza utilizzando solo mattoncini di Banalità» (Ivi, p. 19), di restituire con ironia l’orrore del contatto tra i vivi e i morti, di cogliere in ogni pianto per la scomparsa di chi si ama la paura che Orfeo prova al pensiero che l’amata possa davvero tornare. Anche per questo si volge indietro e perde per sempre la sua Euridice.
Una recitazione geometrica e insieme costantemente spaventata rende palese all’orecchio e alla vista il panico che tutto questo produce.

Meditazione, speculazione, figliolanza

Mente & cervello 97 – Gennaio 2013

Gran parte della sofferenza interiore che proviamo è costituita da ciò che nel gergo psicologico si chiama ruminazione, condizione nella quale «la mente è assorbita da pensieri ripetitivi e focalizzati su precise preoccupazioni» (C. André, p. 44). Uno dei significati delle pratiche meditative consiste nel liberarsi da tale condizione. Per il buddhismo, ad esempio, «la meditazione ha per obiettivo l’eliminazione della sofferenza mentale, come pensieri ossessivi o emozioni negative» in modo da raggiungere l’equanimità, «ossia la facoltà di conservare uno stato emotivo stabile» (A. Lutz, 34-35). Se, come recita un proverbio cinese, non possiamo impedire agli uccelli di volare sopra le nostre teste, possiamo però evitare che facciano il nido tra i nostri capelli. Proprio perché siamo una profonda unità psicosomatica

la riduzione dello stress attraverso la meditazione è di grande interesse per i ricercatori, perché può essere studiata anche a livello biologico dettagliato, in particolare nell’ambito della psiconeuroimmunologia, che studia le connessioni strette e reciproche tra lo stato psicologico e  l’attività del sistema nervoso e di quello immunitario, definita «medicina psicosomatica» (C. André, 45).

Non a caso Francisco Varela -più volte citato in questo numero di Mente & cervello ha coniugato in modo argomentato ed efficace il buddhismo e le neuroscienze. Il buddhismo, infatti, «non invoca l’esistenza di un essere supremo o di una trascendenza. Si propone piuttosto di rimediare alla sofferenza umana attraverso una conoscenza migliore dell’Io e praticando regole semplici e universali» (F. Rosenfeld, 28), le quali sembra abbiano un effetto positivo anche sui telomeri, probabilmente perché queste strutture vengono danneggiate dallo stress, che la meditazione contribuisce invece a tenere sotto controllo. In ogni caso, come la filosofia, «in realtà la meditazione non deve servire a niente» (Id., 31) se non a vivere con misura e a pensare con radicalità.

Esattamente il contrario di ciò che succede nel trafelato, ossessivo e idiota stile di vita di molti contemporanei, tra i quali spiccano i brokers, gli umani che investono e speculano nelle Borse di tutto il mondo. Uno studio neuropsicologico dei loro comportamenti mostra sino a che punto siano dettati da irrazionalità, tanto da confermare l’ipotesi «che gli alti e bassi della borsa sono correlati alla logica della nostra mente più che ai dati economici» (M. Reiter, 81). Hanna e Antonio Damasio hanno scoperto che pazienti con danni permanenti nella corteccia orbitofrontale -e quindi assai meno soggetti alle emozioni- sono capaci di prendere decisioni finanziarie più vantaggiose rispetto agli individui sani. Le crisi che investono le borse sono quindi anche crisi di panico e non soltanto tecnico-economiche. E il panico, si sa, è contagioso. Un celebre esperimento di Salomon Asch dimostrò quanto sia forte il condizionamento del gruppo -anche temporaneo- del quale si fa parte. Se vi chiedono a quale delle tre linee di destra corrisponda la lunghezza di quella di sinistra nella figura qui accanto, nessuno dubiterà che si tratti della n. 2. E tuttavia se alcuni nostri compagni di esperimento -segretamente d’accordo con lo sperimentatore- dichiarano più volte e senza esitazioni che la risposta corretta è la 1 o la 3, molti di noi alla fine concorderanno con questa risposta, per quanto contrasti in modo clamoroso con l’evidenza: «È grave che un singolo operatore prenda decisioni sbagliate […]. Ma in più, seguendo l’istinto del branco, gli investitori miopi, che vendono in preda al panico, si contagiano a vicenda. Un esperimento classico dello psicologo sociale Salomon Asch aveva indicato già nel 1951 che è difficile resistere a una forte pressione dei pari» (Id., 85).

Pressione che costituisce parte del senso di fallimento che molte persone provano per non aver avuto dei figli, tanto da affidarsi in modo totale alle diverse tecniche di fecondazione artificiale e a cadere «in una sindrome ossessivo-compulsiva che induce chi ne è affetto a organizzare tutta la propria vita intorno al tentativo di procreare» (D. Ovadia, 74). Uno dei più gravi nodi psicologici ed esistenziali legato a questa condizione è la vera e propria «perdita di senso della vita. L’idea di invecchiare senza un figlio rende il trascorrere del tempo acutamente doloroso. Solo chi riesce a riconoscere l’importanza del proprio contributo sociale indipendentemente dalla presenza di un bambino può superare questo che sembra essere lo scoglio più duro» (Id., 76). Si tratta dell’ennesima dimostrazione che l’evento del procreare ha ben poco a che fare con l’amore verso l’altro, il nascituro, ed è radicato piuttosto in una forma biologica di amore di sé, di proiezione psichica del proprio narcisismo in un figlio, di esistenziale paura di dover morire per sempre senza lasciare i propri geni in giro per il mondo.

Come avevo già accennato su questo sito, tra le espressioni del conformismo la società dello spettacolo ne amplifica alcune in modo radicale e patologico. Varie serie televisive non soltanto durano anni e decenni ma entrano nella vita di milioni di persone come parte reale e decisiva della loro identità. «Legioni di adolescenti, professionisti, casalinghe, impiegati, persone di ogni età e senza caratteristiche particolari» incontrano «parte dei loro amici -della loro famiglia allargata, si potrebbe dire- all’interno della tv o del computer», tanto che «la fine della propria serie tv preferita può scatenare sintomi depressivi e un senso di angoscia e smarrimento simile a quella generata dalla fine di un amore» (P.E. Cicerone, 88 e 93). L’articolo che ne parla indulge un po’ troppo in un paragone tra serie televisive come le soap opera o fiction quali Lost, Sex and the City, Dr. House e la grande letteratura epica e romanzesca. Un’analogia insensata poiché per la nostra specie l’attenzione visuale, lo scorrere passivo delle immagini che attraversano il nostro orizzonte, è pura natura; il leggere è attività costruttiva della mente, è cultura diventata natura. Anche per questo la lettura costituisce un livello evolutivo assai superiore rispetto alla dipendenza televisiva, la cui essenza è quindi pre-umana e subumana.

Progressisti

Nel corso degli anni ho criticato -su varie liste telematiche, con interventi e libri– l’atteggiamento di chi accusava di “conservatorismo” e “passatismo” quanti si opponevano alle “novità” distruttive verso la scuola e l’università che vari ministri (primo tra i quali il progressista Luigi Berlinguer) andavano imponendo. La natura del tutto retorica, ideologica e truffaldina dell’equazione “nuovo=bene; vecchio=male” emerge ora per tutti (almeno spero) dall’utilizzo che il replicante non umano Mario Monti e i suoi complici fanno delle stesse parole.
Costoro infatti accusano di conservatorismo e vecchiume quanti semplicemente intendono difendere le persone -le persone vere, non le statistiche- dai crimini che la finanza internazionale e le grandi banche vanno perpetrando in tutto il mondo, mondo che vorrebbero ridurre al desolato deserto delle borse e degli scambi monetari.
A proposito di deserto, un grande italiano e una grande mente –Giacomo Leopardi– aveva già nel 1836 (nel pieno quindi di un’altra ondata “progressista”) ironizzato nella sua Ginestra o il fiore del deserto sulle «magnifiche sorti e progressive» verso le quali ci si illudeva l’umanità stesse felicemente e inesorabilmente andando.
Al di là di questo uso infantile e disonesto di termini come “vecchio” e “nuovo”, la differenza reale passa forse tra coloro che non si fanno illusioni ma continuano a tendere a una società più giusta, a una trasformazione faticosa e tenace dello stato di cose esistente -senza mai dimenticare i limiti dell’essere e della vita-, e quanti invece promettono nuovi mondi e terre nuove, le terre e i mondi del loro dominio.

Realtà

Reality
di Matteo Garrone
Con: Aniello Arena (Luciano), Loredana Simioli (Maria), Nando Paone (Michele), Raffaele Ferrante (Enzo), Nello Iorio (Massimone), Ciro Petrone (barista)
Italia, 2012
Trailer del film

«Osservate la locandina del film (magari cliccando sopra per ingrandirla). Un ambiente visto dall’alto. Con alcune poltrone intensamente illuminate. Su quella in alto a sinistra sta sdraiato un uomo con le braccia incrociate dietro la testa. Tutti possono guardarlo. Il luogo è insieme chiuso e aperto. Quel soggetto ha raggiunto la pace. È diventato una sola cosa con lo splendore dell’immagine, con l’iridescenza della “Casa”. La vita di quest’uomo è cambiata da quando, quasi per caso, ha partecipato a una delle tante selezioni per il Grande Fratello. Lavoro, affetti, amici, famiglia, si sono a poco a poco dissolti nell’ossessione di un futuro di notorietà, di soldi, di luci. L’ambiente di lavoro ha cominciato ai suoi occhi a pullulare di persone inviate dal Grande Fratello a controllare se abbia detto o no la verità. Per mostrare a queste presenze la propria forza e originalità Luciano dà inizio a un vero e proprio potlatch, a uno spreco di beni, di risorse, di tempo, di senso».

Così comincia la recensione pubblicata sul numero 15 – ottobre 2012 di Vita pensata (pp. 65-67). Qui aggiungo quanto scrive Franco Berardi Bifo in un suo articolo dal titolo Incubi e schermi. La cornice perfetta, pubblicato a pagina 28 del numero 25 – dicembre 2012/gennaio 2013 di Alfabeta2:
«La fascinazione dello schermo e la cattura della mente sono irreversibili, e Reality di Matteo Garrone è il film definitivo sul potere biopolitico contemporaneo. Proprio oggi che in Italia credono che Berlusconi abbia perduto il potere, Garrone dice la verità: è vero il contrario. Berlusconi può essere sconfitto sul terreno fittizio della politica, un consulente della Goldmann Sachs può andare al suo posto per realizzare lo stesso programma, magari una coalizione di centro-sinistra può vincere le prossime elezioni. Ma l’Italia non esce dallo schermo.
Neo-realismo e barocco si incontrano perché il barocco è la realtà della storia italiana moderna. Quelli che credono che la corruzione e la demenza italiana siano il lato malato della sana austerità liberista, come al solito, non capiscono niente. Non capiscono cos’è la realtà del Semiocapitale, che si fonda sull’illusione ottica, l’ipertrofia dell’immagine, l’inflazione proliferante di flussi linguistici e la manipolazione predatoria dello scambio (semiotico ed economico tra loro confusi, interdipendenti). […] L’Italia è il laboratorio barocco della dittatura mondiale dell’ignoranza».
Reality è uno dei film più belli e più importanti di questi anni.

Il vulcano della storia

Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013

Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di  Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.

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I barbari

Il governo della Goldman Sachs guidato da Monti-Napolitano sta compiendo delle scelte ben precise. Tra le più importanti c’è la detassazione delle cosiddette “Grandi Opere” -grandi per i profitti che producono a favore delle «voraci grandi imprese che assediano il governo»- come il TAV, il Ponte di Messina (se mai si farà) e altre strutture distruttive del territorio e dell’ambiente. Si conferma, inoltre, la folle spesa di 20 miliardi di euro per i cacciabombardieri F-35.
“Detassazione” significa che tali opere graveranno ancora di più sulle casse pubbliche a danno della sanità, dei trasporti, della scuola, dell’università, della ricerca. Si premiano i palazzinari, le imprese di proprietà della malavita, le aziende che avvelenano scientemente pur di moltiplicare i profitti, e si impongono tasse più alte agli studenti universitari, si accentua il peso fiscale sui lavoratori dipendenti, si costringe alla chiusura l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Invito a guardare il breve filmato nel quale il fondatore dell’Istituto -Gerardo Marotta- parla con amara commozione di quanto sta accadendo. Marotta somiglia a Céline negli ultimi suoi anni, e come Céline denuncia la guerra che il potere finanziario muove al sapere, alla cultura, alla filosofia. Perché sapere, cultura e filosofia sono espressioni di quella libertà e gratuità che “i servi di Mammona” (per dirla con i Vangeli) giudicano giustamente un pericolo gravissimo per la loro egemonia.
Non basta: si propone anche di “dismettere”, vale a dire svendere, il patrimonio pubblico costituito da palazzi, terreni, beni culturali.
Angelo Mastrandrea scrive che «È l’Italia alla rovescia di come la vorremmo, quella che ancora oggi -con Monti e Passera e non con Berlusconi- prepara un regalo inaspettato ai cementificatori e lascia chiudere le biblioteche. Un tempo l’Iva più bassa riguardava i libri e la cultura, beni di cui incoraggiare il consumo, e non la Salerno-Reggio Calabria. L’Istituto italiano di studi filosofici deve smobilitare perché, tra Tremonti e Monti, in pochi anni i contributi statali sono stati praticamente azzerati. I lanzichenecchi insediati alla Regione Campania hanno provveduto al resto, lasciando cadere nel dimenticatoio una vecchia delibera che prevedeva l’istituzione di una biblioteca per accogliere le migliaia di libri dell’Istituto e consentire a studenti e ricercatori di poterli consultare».
Chiudere le biblioteche, affamare i cittadini, distruggere il territorio, arricchire i predoni. Dietro la loro apparenza robotica i ministri dell’attuale governo italiano sono degli autentici barbari, i quali stanno realizzando i sogni del governo Berlusconi. Di peggio c’è che Berlusconi doveva almeno fronteggiare un’opposizione mentre il governo dei banchieri ha il sostegno della grande stampa e di quasi l’intero parlamento, compreso il Partito Democratico.
I senatori romani hanno aperto le porte ai barbari per spartirsi insieme il bottino.

Tra Chicago e la miseria

Capire l’economia non è facile. Un articolo di Archimede Callaioli -pubblicato sul numero 309 di Diorama letterario, pp. 1/5- aiuta a comprendere meglio gli scenari macroeconomici del presente. Non tutto in questo testo è convincente, a partire da un eccessivo apprezzamento per il modello economico tedesco e dalla distinzione tra i lavoratori cinesi che lavorerebbero dieci ore al giorno per tutta la vita mentre quelli occidentali non aspetterebbero che di diventare “rentier”, godendo per molti anni di una pensione. Liquidazioni e pensioni non sono un regalo dei governi o delle aziende ma soldi che i lavoratori -soprattutto dipendenti- sono obbligati a versare proprio in vista della cessazione dell’attività lavorativa. Non solo: alla stregua di redditieri sarebbero da considerare tutti i salariati e gli stipendiati, tesi semplicemente bizzarra.

Al di là di questi limiti, l’analisi di Callaioli si rivela molto accurata e capace di spiegare bene ciò che sta accadendo all’economia globalizzata. L’Autore riferisce che il capo della Federal Reserve, Ben Bernanke, è uno dei maggiori studiosi delle politiche rooseveltiane, che si propone di ricalcare per uscire dalla crisi attuale. Una differenza clamorosa è però che mentre il New Deal impose la separazione tra le banche commerciali e quelle di investimento, i presidenti statunitensi da Reagan in poi hanno prima depotenziato e poi ufficialmente abolito tale distinzione, lasciando campo libero al dominio della speculazione finanziaria. Ma la differenza principale rispetto agli anni Trenta consiste nel fatto che «fu l’inflazione il vero fulcro dell’azione rooseveltiana, quella che permise di minimizzare i debiti e di ripartire praticamente da zero: le politiche espansive, la guerra e la ristrutturazione industriale ebbero effetto solo in quanto la loro ricaduta fu l’inflazione», la quale azzera i debiti ma anche le rendite. Proprio per questo essa non è più praticabile, poiché la massa dei percettori di rendite -pur se minime- è ormai tale che un loro azzeramento comporterebbe una catastrofe sociale: «una ondata inflattiva getterebbe sul lastrico quasi tutti i pensionati (decine di milioni di persone), con effetti che si possono facilmente immaginare, e che dobbiamo sforzarci di tenere presenti perché questo irresolubile dilemma è un ulteriore indizio del fatto che la crisi è la crisi  definitiva di un sistema».

Importante è anche la critica che l’Autore rivolge al culto tributato al Prodotto Interno Lordo -che è «il valore monetario dei beni e dei servizi finali -consumi, investimenti fissi, variazioni sulle scorte, esportazioni- prodotte in un anno sul territorio nazionale al lordo degli ammortamenti», il quale «può forse misurare la ricchezza prodotta da un paese ma non è una rappresentazione attendibile del suo benessere. Infatti, se aumentano gli ammalati di malattie gravi che richiedono cure costose, aumenta il Pil, ma il benessere generale probabilmente diminuisce». In sistemi dove la sanità e i servizi essenziali sono a carico dei singoli, come quelli anglosassoni, il Pil risulta dunque sovrastimato e per essi «vale il noto aforisma che l’eroe del Pil americano è un malato di cancro che sta divorziando, probabilmente non l’immagine migliore di una persona felice».

Callaioli descrive due modelli assai diversi per uscire dalla crisi attraverso il cosiddetto “rigore”: quello statunitense e quello tedesco. Il primo è dogma della troika costituita dai responsabili dell’Unione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, a proposito del quale «memorabile resta l’invettiva di Hugo Chávez: “su Marte c’era vita, poi ci ha pensato il Fondo Monetario Marziano”».

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