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Stefano Palumbo su Animalia

Stefano Palumbo
Recensione a Animalia
 in Scienza & Filosofia
numero 26 / dicembre 2021
Pagine 234-238

«Recuperando una visione dell’essere umano nella sua dimensione biologica, considerando cioè l’animale umano per quello che è, e cioè un animale tra gli animali, è possibile aprirsi alla costruzione di nuovi orizzonti interpretativi dell’umano sull’umano stesso, di coniare cioè un’antropologia che sia anche un’etologia.
È esattamente attorno a questo snodo, tra scienze biologiche e filosofia, che si muove il saggio di Alberto Giovanni Biuso – Animalia. Un saggio agevole e di facile consultazione, ricco di spunti e di suggestioni multidisciplinari interne al “problema” dell’animalità in tutte le sue declinazioni particolari. […]
L’umano è invece immerso in una complessa matrice naturalculturale, è cioè dipendente da entrambe le dimensioni, che sono un tutt’uno e che forniscono la base della sua esperienza sempre in divenire, e sempre in relazione con l’altro da sé. L’umano è cioè sempre e innanzitutto un animale, per quanto possa sforzarsi di negarlo, attraverso la sicumera delle sue elaborate costruzioni linguistico-concettuali; la sua specifica filogenesi, il suo “allevamento” come essere materiale messo in forma dall’evoluzione e sempre imbrigliato nel qui e ora della temporalità e delle relazioni, specie-specifiche ed eterospecifiche, conterrebbe già al suo interno l’urgenza della fondazione di una nuova eto-antropologia». 

Nomadismo

Nomadland
di Chloé Zhao
USA, 2020
Con: Frances McDormand (Fern), David Strathairn (Dave), Linda May (Linda), Charlene Swankie (Swankie)
Trailer del film

Tutti i nostri antenati lo erano. Puntini di materia consapevole sparsi e vaganti nella potenza della materia apparentemente immobile: vegetale o minerale che sia. Sovrastati dalla sua potenza, dai pericoli, dalle risorse da individuare, conquistare, conservare, difendere. Poi la grande invenzione: la città, la πόλις, frutto e insieme origine dell’agricoltura e dell’allevamento di altri animali. Una sedentarietà in ogni caso apparente, visto che rimanere fermi a lungo significa essere malati, depressi o ipocondriaci; visto che  definiamo «navigare» persino il rimanere ore e ore immobili davanti a un monitor/tastiera; visto che una delle tante forme di disagio interiore è stata chiamata «mente errante»; visto che siamo occhi, gambe, polmoni fatti per muoverci nello spaziotempo. Una casa dalla quale non si esce si chiama prigione. Una casa è quindi struttura sempre funzionale, transitoria e periodica. Anche per questo a una ragazza che le riferisce «la mamma dice che sei senzatetto», Fern risponde «no, sono senzacasa, non senzatetto; non è la stessa cosa».
Dopo la chiusura della fabbrica di uno sperduto posto nel deserto del Nevada, che si chiama «Empire», dove è rimasta nonostante la morte del marito e proprio per onorare l’amore di lui per quel luogo, Fern ha preso il proprio camper e vive di lavori saltuari qua e là, vive di aria e strada, vive di scomodità, vive di una solitudine intrisa della compagnia provvisoria, che è però anche una stabile amicizia, di altri come lei. Il nomadismo è talmente intimo alla persona di Fern da far apparire allo spettatore strane quelle poche circostanze nelle quali la donna si trova dentro mura, in una casa, nella condizione quotidiana di tutti noi.
«Tutto va, passa, diviene nel dominio incontrastato delle forme e del tempo. La verità è quindi qualcosa di nomade, l’innocenza sta nel transitare, il senso abita nel cammino e non nella stasi. […] Un pensiero sperimentale, nomade, aperto alle aurore che sempre si rinnovano di fronte allo sguardo che sa cogliere l’enigma stupefacente, tesissimo ma affascinante della vita. Il nomadismo benedicente si esprime e sintetizza in un invito –ancora una volta- a diventare: ‘Diventa necessario! Diventa limpido! Diventa bello! Diventa sano!’ […] È anche un fugitivus errans, un nomade che in pochi anni sposta di continuo la propria tenda nelle località più diverse dell’Europa centrale e meridionale: Naumburg, Zurigo, Basilea, Lipsia, Genova, Nizza, Mentone, Roma, Messina, Sils-Maria, Recoaro, Venezia, Rapallo, Bellagio, La Spezia, Riva del Garda, Stresa, Marienbad, Tautenburg, Berlino, Lucerna, Torino… […] Tale è il soggetto selvaggio e nomade che opera sempre al fondo dell’agire» (Nomadismo e benedizione, Di Girolamo Editore 2006, pp. 106; 172; 41-42; 90).
Un «nomadismo spirituale», come venne definito dallo stesso Nietzsche, che affonda nel nomadismo filogenetico della nostra specie. #iorestoacasa lo dicono i morti.

Maternità

Stitches
(Savovi)
di Miroslav Terzic
Con: Snezana Bogdanovic (Ana), Jovana Stojiljkovic (Ivana), Pavle Cemerikic (Marko), Dragana Varagic (ginecologa)
Serbia, Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, 2019

Belgrado, 2018. Ana lavora come sarta e – tra un punto e l’altro della macchina da cucire – la sua mente, la sua memoria, la tensione, il silenzio tornano di continuo a diciott’anni prima, quando in ospedale le dissero che il figlio che aveva messo al mondo era morto. Non le avevano consentito di vederlo. Ana cerca la tomba del bambino e tuttavia sente o meglio sa che suo figlio è ancora vivo.
Un gorgo di corruzione e di avidità ha fatto sparire, in Serbia ma non solo, centinaia di neonati, che ginecologi, infermieri, poliziotti hanno destinato a un vero e proprio traffico di bambini sottratti e venduti. Il muro di fronte al quale Ana si trova sembra inscalfibile. È costruito con i mattoni non dei singoli ma delle istituzioni, a cominciare dagli ospedali e dalla polizia. Anche il marito, la figlia, la sorella, sono stanchi di una ostinazione che non si rassegna. A questa impossibilità Ana oppone una determinazione silenziosa, uno sguardo teso, un camminare incessante. Che la porteranno al nome che cerca, al luogo, alla verità. Gli ultimi gesti saranno i più generosi. Su tali gesti il film si chiude.
La vicenda è ispirata a eventi realmente accaduti, a una cupidigia che di fronte a nulla si arresta pur di soddisfarsi. La cupidigia di persone che pur di avere un bambino sono disposte a corrompere, giungono al crimine. Ma che cosa c’è di così potente nel desiderio di pulire gli escrementi infantili, di trascorrere notti insonni al pianto incomunicabile di un pargolo, di osservare adoranti un volto ancora informe e in tutti uguale, volti brutti come quelli dei neonati della nostra specie? L’unica motivazione plausibile è l’egoismo ontogenetico – del singolo – che si fa perpetuazione filogenetica –della specie. Il desiderio di sopravvivere, insomma, nei geni che trasmettiamo ad altri conspecifici, e che ci renderanno in qualche modo ancora vivi anche quando saremo morti.
Questo vale per i genitori naturali. Ma l’ossessione che porta a desiderare un figlio non proprio pur di chiamarsi ‘madre’, pur di dirsi ‘padre’, è inspiegabile, è una delle tante forme della patologia mentale degli umani. Una delle più oscure.
A queste dinamiche il film accenna con un’idea formale ben precisa, fatta di sottrazione. Il montaggio è asciutto, la sceneggiatura sobria, la recitazione di Ana (Snezana Bogdanovic) tanto più potente quanto silenziosa nel suo muoversi in una spirale che sembra continuamente tornare su se stessa, scendere nel buio e in questa oscurità trovare finalmente pace.

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