L’anello di congiunzione tra il mondo e l’osservatore (pdf)
il manifesto
23 agosto 2016
pag. 11
Percepire è un modo della struttura temporale del mondo.
L’anello di congiunzione tra il mondo e l’osservatore (pdf)
il manifesto
23 agosto 2016
pag. 11
Percepire è un modo della struttura temporale del mondo.
Recensione a:
Percezione
di Vincenzo Bochicchio
(Guida, 2013; pp. 228)
in Discipline Filosofiche (28 giugno 2016)
Martedì 15.3.2016 alle 15,00 nella Biblioteca del Liceo Classico Spedalieri di Catania condurrò un seminario dedicato alle Lezioni di Husserl sulla coscienza interiore del tempo.
Leggeremo i seguenti brani tratti dall’edizione italiana curata da Alfredo Marini con il titolo Lezioni per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (Franco Angeli 2001): Introduzione, § 1, 2, 14 ; Testi integrativi nn. 12 e 31.
Le pagine husserliane sono disponibili (in pdf) sulla piattaforma Studium al link Husserl.Spedalieri.pdf
L’incontro fa parte delle iniziative organizzate dalla sezione di Catania della Società Filosofica Italiana.
Recensione a Husserl di Vincenzo Costa, Carocci 2009, pagine 232.
In Fenomenologia & Società, numero 3/2014 (uscita nel 2015), pagine 134-137.
Riscoprire Husserl significa scoprire ogni volta la filosofia, il dono di un significato radicale che essa regala alla vita.
Edmund Husserl
MEDITAZIONI CARTESIANE
con l’aggiunta dei DISCORSI PARIGINI
(Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge [1950])
Nuova edizione italiana a cura di Filippo Costa
Presentazione di Renato Cristin
Bompiani, 1989
Pagine XVIII-179
Le Cartesianische Meditationen costituiscono una sintesi efficace e assai chiara del programma filosofico di Husserl. Soprattutto la Quinta fa da tramite fra le riflessioni logiche e gnoseologiche -oggetto delle grandi opere husserliane- e la sempre più densa attenzione nei confronti del ‘mondo della vita’. È in quest’ultima meditazione infatti che l’ego cogito mostra la propria costitutiva intersoggettività. Già nei Discorsi parigini (1929) Husserl aveva proposto il superamento della questione cartesiana dell’ego, affermando che «per tanto che io mi appercepisco come uomo naturale, debbo avere già prima appercepito il mondo dello spazio, essermi colto nello spazio in cui io ho anche un fuori-di-me!» (p. 27).
Il debito della fenomenologia verso il cartesianesimo è dunque sempre un debito critico, dal quale nascono i suoi concetti fondamentali, quelli che la rendono non una corrente tra le altre nella cultura teoretica del Novecento ma un sinonimo stesso della filosofia. L’obiettivo da Husserl costantemente perseguito è infatti fare della filosofia una «scienza universale» (I Med., p. 43) da conseguire tramite l’«unità di una fondazione razionale assoluta» (D.P., p. 3). Per realizzare tale obiettivo -che sembra in ogni caso asintotico, infinito- bisogna guardare il mondo, osservare ciò che si offre alla nostra percezione e riflessione «prima di ogni considerazione filosofica» (V, 166), La filosofia è insomma, prima di tutto, la sapienza dell’evidenza.
Dopo aver sospeso ogni giudizio -tramite l’epoché- l’evidenza che rimane fuori da ogni possibile dubbio è l’ego, non però inteso in senso astratto e neppure empirico, tanto meno solipsistico, bensì l’ego nel «flusso costante dell’essere e del vivere cogitante», per cui la sua formula completa sarà «ego cogito cogitatum» (D.P., 12), dove il ‘cogitatum’ è tutto ciò verso cui la coscienza si rivolge intenzionalmente per coglierne il senso. In tal modo l’essere delle cose è costituito dall’essere dell’ego puro: «Il piano d’essere naturale è secondario nel suo valore d’essere; esso presuppone costantemente quello trascendentale» (I, 54). Trascendentale significa che l’intero è costituito non dagli enti ma neppure dall’io -l’io parziale e psicologico dei singoli soggetti– bensì dalla relazione costante tra la coscienza e il mondo. Husserl descrive la fenomenologia come «teoria trascendentale della conoscenza» (IV, 105), «autorappresentazione mondanizzante» (V, 121), «metafisica trascendentale» (V, 160). Ed è per questo che l’io fenomenologico «deve divenire spettatore imparziale» (II, 67), garanzia di uno sguardo che è tutt’uno con il mondo. La purezza di tale sguardo è possibile soltanto tramite un «a priori innato» (D.P., 24), cioè tramite una forma del conoscere che non presuppone nulla ma contiene in sé le leggi costanti della percezione, della riflessione, dell’analisi e del giudizio. Il trascendentale è dunque una sorta di innatismo metodologico che subordina a sé ogni soggettività empirica.
All’ingenuità della «vita pratica quotidiana» (D.P., 31; cfr. anche Conclusione, p. 168) che esperisce, valuta, agisce entro un mondo già dato di cui comprende ben poco -pur illudendosi di possederne le chiavi- Husserl oppone la filosofia come attingimento della verità nella coscienza-mondo: «La via che conduce necessariamente a una conoscenza che nel senso più alto possieda il fondamento ultimo, ossia a una conoscenza filosofica, è quella della conoscenza universale di sé, prima monadica e poi intermonadica. Il motto delfico gnōti sauton ha ora un significato nuovo» (D.P., 33; Conclusione, 171-172).
Epoché; fondazione razionale assoluta; evidenza; trascendentalismo; a priori; intenzionalità; riduzione fenomenologica; intuizione eidetica; noesi e noema; interiorità e intersoggettività. Questi sono i concetti cardine delle Meditazioni che hanno offerto alla filosofia successiva il suo più speculativo e rigoroso strumento di elaborazione teoretica. La filosofia è in primo luogo non l’analisi di questo o di quell’ambito ma è una teoresi pura e universale.
La questione della ‘attualità’ della fenomenologia non si pone, proprio perché essa è viva e presente ogni volta che si tenta di pensare davvero. La sua «base ultima non è data dall’assioma ‘ego cogito’ ma dall’autoriflessione universale» (Conclusione, 171). La filosofia è quindi ciò che una parte della materia -la mente- fa quando cerca di pensare la propria condizione; quando cerca di pensare la propria struttura nella potenza degli atomi, delle molecole e delle leggi che li guidano; quando cerca di pensare lo spaziotempo con il quale e dentro il quale costruisce ogni volta il proprio mondo.
Recensione a:
Dieter Lohmar, Ichiro Yamaguchi (eds.)
On Time – New Contributions to the Husserlian Phenomenology of Time
Springer, Berlin-London-New York, 2010
Collana: Phaenomenologica, vol. 197
Pagine: xx-344
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Anno 5 – Numero 2/2014
pp. 240-241
Husserl
di Vincenzo Costa
Carocci, 2009
Pagine 232
La fenomenologia fu dal suo fondatore sempre concepita e praticata come un metodo, anzi «come il metodo stesso della filosofia», in grado di «abbracciare la totalità dei problemi filosofici» (p. 24).
Il rifiuto del naturalismo non è soltanto metodologico ma è anche metafisico e consiste nella critica a ogni forma di ingenuo realismo che ritiene di poter cogliere un mondo indipendente dal fenomeno, vale a dire da come la soggettività trascendentale (non quella empirica) costruisce la realtà stessa mentre la percepisce, la valuta, la vive. Il contenuto di qualsiasi percezione può costituire un errore ma il fatto che io veda ciò che vedo non può essere mai un inganno, proprio in quanto è ciò che la mia coscienza sta in questo momento vivendo. Come anche Meinong sostiene, gli enti possono consistere (Bestehen) anche quando il loro correlato fisico ed empirico non esiste: «L’albero che vedo forse non esiste, ma non vi è dubbio che io vedo un albero» (27). Se «posso essere colpito da oggetti che non esistono» questo significa che a costituire il mondo della coscienza, e dunque il mondo, non sono le cause empiriche bensì le motivazioni intenzionali poiché -scrive Husserl- «la relazione reale viene meno quando la cosa non esiste, la relazione intenzionale invece sussiste» (134). La riduzione fenomenologica è quindi il darsi del mondo senza presupporne l’esistenza al di là del suo apparire, della sua radicale fenomenizzazione. Possiamo essere certi dell’immanenza degli enti, del modo in cui ci appaiono, non della loro trascendenza, del mondo in cui sarebbero al di là del loro apparire. È esattamente questo il luogo della certezza filosofica. Esso si chiama intenzionalità ed è fatto della materia sensibile che appare (hyle), del modo in cui appare -come percezione, immaginazione, credenza, calcolo o altro- (noesi), del contenuto di tale apparire in quanto apparire, dell’ente/evento come viene percepito, immaginato, creduto, calcolato (noema).
Materia, noesi e noema sono sempre semantici e temporali; sono «il senso che lega in unità una molteplicità di sensazioni» (46); sono « la forma che essi delineano» (90); sono l’insieme degli enti, degli eventi e dei processi per noi colmi di significato. E tutto questo è possibile perché questo senso e tale forma costituiscono se stesse come strutture temporali, essendo la temporalità «una forma di ordinamento senza della quale niente potrebbe apparire» (51). Non, però, come struttura esterna ed estranea agli enti, agli eventi e ai processi ma come il modo stesso della loro manifestazione, che in fenomenologia equivale al modo stesso del loro costituirsi ed essere.
È anche a motivo di questo nostro percepire il tempo che intesse le cose e le loro relazioni che «noi vediamo costantemente più di quanto ci è dato sensibilmente» (82), poiché ciò che Aristotele e Kant hanno chiamato ‘categorie’ non viene soltanto pensato ma ci è dato intuitivamente attraverso la capacità che il nostro corpomente possiede di collocare ogni singolo ente e ogni evento in un tessuto semantico e temporale che non sta evidentemente nella materia ma abita nel modo in cui essa si costituisce nella coscienza, sta -appunto- nel fenomeno.
Un radicale teleologismo della ragione sta al cuore della rigorosa presentazione che Vincenzo Costa ci offre del filosofo. Dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee e alla mole sterminata di manoscritti, la fede -non c’è altro modo di definirla- di Husserl consiste nella convinzione che «storia non significa semplicemente cambiamento, ma sviluppo guidato da un’idea infinita, orientato verso un telos» (178) che affonda nel Wille zum Leben inteso non come volontà senza senso e senza scopo ma in quanto «nucleo di assoluta razionalità in via di dispiegamento, in corso di manifestazione» (203). Non dunque l’accoglimento dell’umano come finitudine consapevole di se stessa ma come vita di un io trascendentale che -scrive Husserl- «è la vita di un essere finito diretto verso l’infinità» (cit. a p. 206).
Qui la differenza con Heidegger è chiara e fu anche esistenzialmente drammatica nel passaggio dalla formula «la fenomenologia siamo io e Heidegger» (anno 1916) al netto distacco testimoniato da una lettera a Ingarden del dicembre 1929: «Sono giunto alla conclusione che non posso inquadrare l’opera [Sein und Zeit] nell’ambito della mia fenomenologia, e purtroppo, anche dal punto di vista del metodo e addirittura nell’essenziale, dal punto di vista del contenuto (sachlich), la devo rifiutare» (pp. 211 e 213).
E tuttavia -e pur nella differenza- Husserl e Heidegger condivisero sempre e sino in fondo lo sguardo fenomenologico verso enti eventi e processi, pur diversamente declinato. Il logicismo si declina -nei manoscritti che via via vengono pubblicati- anche come metafisica fenomenologica che ha nella soggettività trascendentale e nel richiamo all’esperienza i propri fondamenti, qualcosa di non così dissimile e così lontano dall’analitica esistenziale: «Non si tratta più di comprendere perché appare un mondo, ma che cosa caratterizza la struttura profonda dell’essere, e questa è accessibile appunto interrogando quell’essere che noi stessi siamo. Mentre la metafisica classica (compresa quella di Spinoza e Schopenhauer), almeno agli occhi di Husserl, cercava di accedere alle strutture dell’essere oltrepassando il fenomeno, per Husserl non si tratterà di niente di simile, bensì di scavare all’interno della vita del soggetto per mettere in luce ciò che ha permesso e permette ogni storia e ogni movimento dell’essere. Per accedere alle strutture profonde della realtà e dell’essere bisogna cioè interrogarsi e interrogare quella vita trascendentale che costituisce ogni mondo, che permette al mondo di apparire» (193).
Sarebbe stato davvero possibile per Heidegger soffermarsi così a lungo e così genialmente sul Dasein senza avere dietro e a fondamento il primato della coscienza genetica e del Leib? Il primato di quel corpo isotropo per il quale «lo spazio si organizza a partire da un luogo privilegiato, quello di volta in volta occupato dal mio corpo vivo, cioè dal mio qui […] cioè dal mio corpo vivo che funge da punto centrale o centro dello spazio» (128-129). Il primato di una «vita dell’io» che «precede il suo sapersi» (186) prima ancora che esso diventi consapevole di se stesso (e qui sembra di vedere il proto-Sé di cui parla Antonio Damasio). Il primato di una volontà non intellettualistica ma neppure irrazionale, per il quale «la genesi della volontà, e di ciò che chiamiamo soggetto del volere, coincide in primo luogo con la formazione di un soggetto padrone dei movimenti del proprio corpo vivo» (195-196).
L’essere avrebbe potuto coincidere con il tempo senza la convinzione husserliana [Ms. A V 21/61a] che quanto viene «descritto in termini puramente statici è incomprensibile, e non si sa a questo proposito mai che cosa sia radicalmente significativo e che cosa non lo sia» (192) e che dunque «l’assoluto stesso si dispiega in un processo che è temporale da parte a parte» (199)?
Per entrambi, Husserl e Heidegger, la filosofia si genera dalla differenza tra il dato e il significato. Ontologia e fenomenologia sono due modi radicali di pensare questa differenza. L’ontologia di Heidegger è sempre rimasta radicalmente fenomenologica e la fenomenologia husserliana si è sempre posta nell’orizzonte di un’ontologia genetica. Fu facile profeta di se stesso Edmund Husserl quando nel 1935 scrisse a Ingarden che «le generazioni future mi riscopriranno» (214). Riscoprire Husserl significa infatti scoprire ogni volta la filosofia, il dono di un significato radicale che essa offre alla vita.