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Ippolito

Teatro Greco- Siracusa
Ippolito portatore di corona
(ππόλυτος στεφανοφόρος)
di Euripide
con: Riccardo Livermore (Ippolito), Alessandra Salamida (Fedra), Gaia Aprea (nutrice), Alessandro Albertin (Teseo), Ilaria Genatiempo (Afrodite), Giovanna Di Rauso (Artemide)
traduzione di Nicola Crocetti
con scene e costumi di Gary McCann
regia Paul Curran
Sino al 28 giugno 2024

Ippolito, e non Fedra, è il vero protagonista della tragedia. La comparsa della moglie di Teseo è intensa ma veloce nel comunicare lo strazio che la consuma per un amore non corrisposto, un amore doloroso per  avere come destinatario il figlio del marito. Fedra ritorna poi su un letto, morta, e lì rimane coperta da un velo rosso, praticamente assente. Ippolito invece è una figura quasi costantemente presente, dalla festa iniziale nella quale canta la sua devozione per Artemide, sino alla fine sobria e composta durante la quale passa dalle braccia del padre a quelle di Ade. Nel mezzo si svolge l’intera vicenda tra passioni che possono diventare assai pericolose se non si vivono con misura; tra sentimenti a un tempo dolci e strazianti, tra azioni e pensieri che mostrano la disposizione naturaliter imperfetta dell’umano che vive sotto lo sguardo nascosto ma presente degli dèi che sono molteplici ma desiderano tutti rispetto, attenzione, misura. È proprio perché sono mancati questi elementi che Afrodite decide di punire Ippolito e di farlo con l’aiuto (inconsapevole) di Fedra.

I Greci accettano che la nostra natura sia intrisa di limite, tempo, balbettio, tramonto. Assai più grande è infatti la forza degli dèi rispetto alla fragilità di una condizione finita quale è la nostra. Se destino dell’umano è il dolore, questo è dovuto infatti alla volontà degli dèi, che sono anch’essi passione e materia che brama. Passione che spinge Afrodite a vendicarsi dell’offesa che le arreca il troppo fanaticamente casto Ippolito. La dea lo colpisce instillando in Fedra un innamoramento senza quartiere, una passione totale e profonda verso il figlio di suo marito. Ippolito infatti è caduto nella ὕβρις che gli fa rendere onore soltanto ad Artemide – dea vergine e come lui dedita alla caccia – sino a fargli disprezzare la dea nata dallo sperma e dal sangue di Οὐρανός, dal cosmo stellato. E Ippolito non poteva farlo, nessun umano può trascurare Afrodite. Di se stessa infatti la dea canta che «tutti quelli che vedono la luce entro i confini del Ponto Eusino e dei monti d’Atlante, io li tengo in onore se s’inchinano al mio potere, mentre abbatto quanti sono verso di me sprezzanti e alteri» (trad. di Filippo Maria Pontani). In questo atteggiamento Afrodite è gemella di Dioniso.
Da una tale potenza discende il piano inclinato dell’innamoramento di Fedra per il ragazzo. Un piano che la conduce alla catastrofe, al suicidio e alla vendetta. Fedra infatti lascia una lettera per Teseo nella quale accusa Ippolito di averla violentata. Teseo il saggio cade anch’egli nella dismisura e lancia contro il figlio una maledizione che di lì a poco avrà come effetto la morte atroce del giovane.
Artemide nulla può per salvare il proprio devoto, poiché, come esplicitamente dichiara, «vige fra gli dèi questa legge: nessuno vuole opporsi al volere di un altro dio, ciascuno si ritira», senza che però questo escluda la vendetta della dea, che colpirà Afrodite nel più profondo degli amori di lei, quello verso Adone. Accomunati sono quindi umani e divini nella passione. E «non c’è per l’uomo una vita che trista non sia, né tregua c’è dell’affanno», tanto che «la cosa migliore è, senza coscienza, morire».
Accanto ad Afrodite, che nella rappresentazione si mostra intrisa di atteggiamenti assai più umani che divini, c’è Artemide che giunge soltanto alla fine ma in verità è presente sin dall’inizio nella grande testa/volto di donna che riempie la scena, la domina e la trasforma. Essa diventa così immagine di morte (assumendo la sembianza di un teschio) e di dolore (assumendo la sembianza umana di un volto ferito); ripropone il volto dell’acqua che travolge Ippolito e quello del fuoco che costituisce il principio e la fine, che brucia come una passione accesa, sfavillante, travolgente e incendia infine la casa di Teseo che Gary McCann (preferibile assai più come scenografo che come costumista) ha volutamente lasciato irrisolta nella forma di una semplice impalcatura, permettendo così di vedere gli eventi che si svolgono al suo interno e che alla fine rimane in grado di sorreggere soltanto il volto sereno della dea della caccia sotto il cui sguardo le luci si spengono.

Si tratta di un testo estremo e insieme di una vicenda esemplare del rapporto che gli Elleni intrattengono con i loro dèi. Per mettere in scena questa tragedia è necessario coraggio e insieme rigore. Paul Corran sceglie invece la facile strada di un Ippolito abbigliato con una giacca lustrina e sberluscente, del tutto inadeguata alla rigidità del personaggio, e fa iniziare lo spettacolo con un rito in onore di Artemide danzato da ballerini anch’essi lustrinati e fricchettoni. Si aggiunga che il discorso di Afrodite è recitato non con l’ironica distanza che sempre gli dèi nutrono ma al modo di una borghese ottocentesca piccata per essere trascurata da un ragazzo.
L’incipit dello spettacolo è quindi catastrofico ma nel suo svolgersi questa messa in scena si riscatta quasi involontariamente, perché Curran ha il buon senso di lasciare spazio soprattutto al testo e alla sua radicalità, senza troppi interventi di regia. Il momento di svolta è quando viene pronunciato il nome di Ippolito e il Coro comprende subito che una sciagura irrimediabile si sta addensando sulla casa di Teseo.
Ippolito pronuncia un celebre discorso contro le donne, definite una sciagura con la quale gli dèi hanno voluto punire i mortali (discorso che confligge in modo clamoroso con gli abiti che porta addosso in questa messa in scena). A tale dichiarazione così appassionata e fortemente antifemminista una parte del pubblico ha reagito con disagio, sconcerto e con risatine esorcizzanti. E questo conferma che nonostante la regia Ippolito è uno spettacolo ancora greco.
Per un caso fortunato ed emblematico, mentre la tragedia andava chiudendosi sul corpo straziato di Ippolito tra le braccia di Teseo, alcuni uccelli cantavano in modo meraviglioso tra gli alberi che circondano il teatro di Siracusa. Nonostante gli umani, il mondo è perfetto.

Nella spuma potente del cosmo

Per i Greci c’è nell’umano una suprema innocenza. Essi sanno e accettano che la nostra natura sia intrisa di limite, tempo, balbettio, tramonto. Assai più grande è infatti la forza degli dèi rispetto alla fragilità di una condizione finita. Se «la sorte dell’uomo è patire»1, questo è dovuto alla volontà dei Numi, che sono anch’essi passione e materia che brama. Una passione che spinge Afrodite a vendicarsi del disprezzo che le arreca il troppo casto Ippolito. La dea colpisce ponendo nel cuore di Fedra «una brama violenta, per volere mio» (114) poiché stolto è stato Ippolito a pensare di potersi, lui solo, affrancare dall’universale autorità del desiderio. Di se stessa infatti Afrodite canta la forza: «Tutti quelli che vedono la luce entro i confini del Ponto Eusino e dei monti d’Atlante, io li tengo in onore se s’inchinano al mio potere, mentre abbatto quanti sono verso di me sprezzanti e alteri» (113).
Da una tale potenza discende il piano inclinato dell’innamoramento di Fedra per il figlio di suo marito; delle ingenue trame che la nutrice organizza per dare compimento al desiderio della donna; dell’orrore che agli occhi di Ippolito tutto questo rappresenta; della vergogna e della vendetta di Fedra che morendo lo accusa; della troppo rapida maledizione scagliata da Teseo contro il figlio; della morte straziata di lui.
Artemide nulla può per salvare il proprio devoto, poiché «vige fra gli dèi questa legge: nessuno vuole opporsi al volere di un altro dio, ciascuno si ritira» (156), senza che però questo escluda la vendetta di Artemide che colpirà Afrodite nel più profondo degli amori di lei, quello verso Adone.
Accomunati sono quindi umani e divini nella passione. E se «non c’è per l’uomo una vita che trista non sia, né tregua c’è dell’affanno» (121) -tanto che «la cosa migliore, però, è, senza coscienza, morire» (123)-, agli umani Euripide offre lo strumento supremo della parola che accusa gli immortali dell’impotenza degli dèi di fronte al male profondo. Se, dichiara Artemide, «è normale che l’uomo sbagli, se gli dèi lo vogliono» (160), Ippolito giunge a dire -morendo- «potesse l’uomo maledirli, i numi» (159). Un coraggio filosofico e cosmico che a nulla si piega, se non ad Ἀνάγκη, signora di tutti, umani o divini che siano
Ben conoscendo tale realtà, nella mia vita ho onorato Afrodite e Dioniso, senza seguire la misurata e miserabile saggezza della nutrice: «Dovrebbero amarsi fra loro non più di tanto i mortali, non giungere mai a un affetto che tocca le viscere, sì da allentare o serrare i legami che crea l’amore, senza difficoltà» (123). Lascio un simile equilibrio, lascio tale distanza, ai contabili e preferisco immergermi nella luce della dea venuta dal mare, nella spuma potente del cosmo. 

1. Euripide, Ippolito, in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 121.

Ferite

La potenza della terra generatrice di mali emerge e gorgoglia in queste due donne, in Fedra, in Medea. Non perché «dux malorum femina» (il primo dei mali è la donna, Phaedra1 v. 559) e nulla può opporsi alla volontà femminile che si scontra col limite, nulla resiste alla «feminae nequitia» (perfidia di una donna, Medea 267), ma perché nella loro persona, nell’individualità, nell’identità stessa che le costituisce, esse sono intrise di passione e di ira, di vendetta e di pianto, di impotenza -«sed mei non sum potens» (non so più dominarmi, Phaedra 699)- e di immenso furore. Di sé Medea dice infatti: «Medea superest, hic mare et terras vides / ferumque et ignes et deos et fulmina» (Resta Medea: in lei c’è mare e cielo, e ferro e fuoco, i fulmini e gli dei, 166-167).
Medea invoca «noctis aeterne chaos» (il caos della notte eterna, 9), chiama a raccolta le Erinni, l’oscuro, ogni cupezza ontologica, ogni aspetto tremendo del mondo, perché il limite dell’odio è lo stesso dell’amore: non c’è. E poiché «Amor timere neminem verus potest» (il vero amore non teme nessuno, Medea 416), Medea aggredisce gli dèi, fa crollare dentro sé e nel mondo ogni struttura morale, ogni legame, ogni pietà, ogni λόγος. In lei si inverte la passione di Giulietta -per la quale l’amore era nato dall’odio (Shakespeare, Romeo and Juliet, atto I, scena V)- e l’odio nasce dall’amore tradito. Può quindi alle fine dire a se stessa, trionfante, «Medea nunc sum; crevit ingenium malis» (Ora sono Medea, il mio io è maturato nel male, 910), lei, che il Coro aveva già definito «maiusque mari malum» (male peggiore del mare, 362).
Non a caso il mare. La fine di Giàsone, infatti, insieme a quella della nuova sposa, dei figli, dell’intera città, è il compimento della vendetta che Poseidone e gli altri dèi hanno stabilito nei confronti di chi aveva -con Argo, la prima nave- osato solcare il mare, violare la sacralità delle acque: «Iam satis, divi, mare vindicastis» (avete già abbastanza vendicato il mare, o dei, 668).
E che male, invece, aveva compiuto Fedra? Non lei lo aveva commesso ma Ippolito, sprezzante nei confronti delle donne che odia e soprattutto di Afrodite, dei suoi doni, della sua potenza. E la dea lo colpisce. Lo fa, spietata, attraverso l’amore di una donna che è la moglie di suo padre. «Quid ratio possit? Vicit ac regnat furor / potensque tota mente dominatur deus» (Che può la ragione? La passione ha vinto e mi domina, un dio possente è padrone di tutto il mio essere, 184-185), esclama Fedra, esposta come un fuscello alla più vorticosa delle tempeste. Vorrebbe, certo, resistere. È ben consapevole dell’enormità che la travolge, il desiderio verso un ragazzo generato dal proprio compagno, ma ammette l’inevitabile: «Hoc quod volo [me nolle]» (Io non voglio ciò che voglio, 604).
Incredulo, sconvolto, anch’egli furente, Ippolito grida a Fedra che è lei la peggiore delle donne mai nate, peggiore persino di Medea, la maga, la barbara. La colpa di Fedra è la stessa di ogni umano che ami: amare. «Quisquis in primo obsitit / pepulitque amorem, tutus ac victor fuit; / qui blandiendo dulce nutrivit malum, / sero recusat ferre quod subiit iugum» (Chi resiste in principio all’amore, ha salvezza e vittoria; chi alimenta e blandisce il dolce male, non fa più in tempo a liberarsi dal giogo, Phaedra 132-135).
Ma c’è una colpa ancora più profonda di tutte quelle che attraversano Medea, che schiantano Fedra. La colpa non morale né psichica ma ontologica di esserci, l’evento primordiale che per Anassimandro tutti scontiamo: l’essere nati. «Quod sit luendum morte delictum indica / Quod vivo» (Dì almeno che peccato devi espiare con la morte / L’essere viva, Phaedra 878-879).
Il disincanto totale di Seneca gli fa dire tramite il Coro che «Res humanas ordine nullo / Fortuna regit sparsitque manu / munera caeca, peiora fovens» (Le cose umane sono in balìa del Caso, che sparge i suoi doni con mano cieca, favorendo i peggiori, Phaedra 978-980). E così un’intera città, Corinto, va nelle fiamme per mano di Medea. Una donna semplicemente innamorata, Fedra, causa la morte dell’oggetto amoroso. Un uomo da poco scampato alle potenze di Ade e tornato ad Atene, Téseo, è costretto a elevare roghi funebri per il figlio squartato dalla sua stessa vendetta, frutto dell’inganno di lei. E questo figlio, Ippolito, muore in un modo davvero orribile.
«Peritque multo vulnere infelix decor» (Per tante piaghe se ne va la sua funesta bellezza, 1096). Per tante ferite se ne va il desiderio umano di essere amati.

1. Seneca, Medea – Fedra, introduzione e note di Giuseppe Gilberto Biondi, traduzione di Alfonso Traina, Rizzoli 2016.

Passioni arcaiche

Teatro Greco – Siracusa
Fedra
di Seneca
Traduzione di Maurizio Bettini
Musiche di Paolo Coletta
Costumi di Alessandro Ciammarughi
Con: Imma Villa (Fedra), Fausto Russo Alesi (Ippolito – Teseo),  Bruna Rossi (Nutrice), Sergio Mancinelli (Messaggero)
Regia di Carlo Cerciello

La splendida traduzione di Maurizio Bettini restituisce la potenza del filosofo-poeta Seneca, capace di cogliere con oggettività l’impero delle passioni dalle quali gli umani vengono scossi come alberi nella tempesta. La passione incestuosa di Fedra verso Ippolito, figlio di Teseo suo marito. Ma anche la passione vendicativa di Teseo verso il presunto stupratore della moglie e la passione di Ippolito per le foreste e la caccia. Anche il rifiuto di Ippolito verso le donne -tutte corrotte, tutte maledette- è una passione. In questo coacervo di sentimenti estremi, la passione più gentile è proprio quella di Fedra, la quale vede nel volto, nelle fattezze, nel corpo di Ippolito il volto, le fattezze, il corpo di Teseo da giovane. E glielo dice, supplicando Ippolito di avere pietà verso il sentimento che nutre e che la scuote. Ma il figlio della amazzone Antiope respinge sconvolto e sdegnato la supplica di Fedra.
Si compie così la vendetta di Afrodite -tutto per i Greci è voluto dagli dèi- nei confronti di Ippolito che disprezza il suo culto. Fedra e la nutrice diranno bugie a Teseo che ritorna dall’Ade, accusando Ippolito di avere tentato lo stupro. Teseo maledice il figlio, che morrà orrendamente dilaniato dai suoi stessi cavalli atterriti da un toro che viene dal mare. Di fronte alle disjecta membra di Ippolito, Fedra piange, accusa se stessa di tale orrore e si uccide. Teseo a quel punto comprende gli eventi, si dispera e tenta di ricomporre il figlio smembrato per dargli sepoltura e onore tardivo.
Le musiche di Paolo Coletta immergono la scena in ritmi raffinati e insieme tribali, così come i movimenti del Coro e dei compagni di Ippolito. La scelta registica per un deciso arcaismo esalta l’estraneità di queste opere e della loro Stimmung rispetto a noi, ai moderni. È questo che va sempre fatto con le opere antiche: cogliere e accettare la lontananza che sono. L’intuizione di tale distanza si esprime anche nella scelta di un unico attore per il ruolo del padre e del figlio. In questo modo, infatti, la passione di Fedra appare ancora più giustificata e legittima poiché questa donna ama un unico uomo, pur se in due corpi diversi. La sua ‘colpa’, se una ve n’è, è stata semplicemente di amare. Ancora una volta sembra avere ragione Marcel Proust: «L’amour, sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné»» (Sodoma e Gomorra in «À la recherche du temps perdu», Gallimard, Paris 1999, p. 1358).

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