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Mafiosi

La mafia non è più quella di una volta
di Franco Maresco
Con: Ciccio Mira, Letizia Battaglia, Franco Maresco
Italia, 2019
Trailer del film

23 maggio 2017. Palermo ricorda e festeggia i venticinque anni dalla strage di Capaci, dalla «scomparsa» di Falcone e Borsellino. Il ricordo del massacro viene trasformato da una folla di boy scout e da altri sentimentali in una sagra di paese, palloncini colorati, cori da stadio: «Giovanni e Paolo là là là là». Una sanguigna, tenace e attardata Letizia Battaglia rimane sconvolta da questa spettacolare banalizzazione. La gente della Vucciria e dello Zen parla molto male dei due «sbirri e cornuti». L’intramontabile e straordinario impresario di spettacoli Ciccio Mira organizza la più improbabile delle feste, quella che allo Zen (quartiere palermitano edificato negli anni Sessanta) fa esibire cantanti neomelodici e artisti vari per una serata in ricordo dei due magistrati. Il rifiuto da parte di tutti costoro di gridare «No alla mafia». Il giovane, spento e stonato cantante Cristian Miscel indossa magliette con le immagini dei due magistrati ma ribadisce tenacemente che non dirà mai «No alla mafia», neppure se a chiederglielo fossero Santa Rosalia, Gesù, il Padreterno. Cantanti country; ballerine ottantenni; sosia di Raffaella Carrà; neomelodici aggressivi; lo «scanturino» (vigliacco) produttore Matteo Mannino cede alle minacce del quartiere; Mannino e Mira scrivono e riscrivono il testo di presentazione della serata, cancellando alla fine ogni riferimento alla mafia; un cartone animato racconta come tanti anni prima il padre di Ciccio Mira e Bernardo Mattarella divennero amici in occasione di un incidente stradale; Ciccio Mira ha ora un favore da chiedere al figlio di Bernardo, Sergio Mattarella; Mira rivolge una grande lode a costui, al suo silenzio sulla sentenza che ha stabilito la realtà della trattativa fra le istituzioni statali e le organizzazioni mafiose, «perché un vero palermitano non parla, come Ulisse. Chi è stato? Nessuno». Un proverbio sentenzia infatti che «cu picca parrà, ma’ si pintì» (chi ha parlato poco non ebbe mai a pentirsene).
E soprattutto la chiusa del film: parte l’Inno di Mameli, sul palco sculettano ballerine avvolte dal tricolore, un cantante esegue l’Inno in versione techno-pop, davanti al palco soltanto un ragazzino, di spalle, nel buio, nel silenzio e nella distanza del quartiere, di Palermo, della Sicilia. Emblematico ed emozionante; degna conclusione di un film lucido, coraggioso, inevitabilmente intriso di volgarità e di spettacolo, libero da formule e atteggiamenti consolatori, progressisti, etici.
Film costruito con un linguaggio cinematografico articolato e complesso, che mescola -come sempre in Maresco- documento e finzione, verità storica e verità dell’immaginazione, rendendo impossibile comprendere quando i personaggi recitano e quando invece sono. Un linguaggio cinematografico intriso del linguaggio denso, carnale, espressionista e profondamente ironico dei palermitani, del loro dialetto, della loro cadenza che viene da lontano e cammina verso il niente. Un linguaggio cinematografico e dialettale che diventa lingua politicamente scorretta, dove l’ormai impoverito e strumentale lessico dell’antimafia si mostra contiguo e funzionale al protrarsi della mafia. La cui antropologia non è più, naturalmente, quella dei mostruosi analfabeti, puttane, trans, cantanti, detenuti, spacchiosi, venditori, pensionati, che popolano questo film ma abita in dimore pulite, asettiche e internazionali.
Anche per questo la mafia non è più quella di una volta ma rimane «cette chose toujours nouvelles / Et qui n’a pas changé» (Prévert) della quale i siciliani siamo intrisi nella nostra solitudine, nel disincanto, nella libertà dalla speranza e dalla disperazione, nel diffidare della giustizia e dei tribunali, nelle soluzioni dirette e veloci (se il problema è una persona, eliminata la persona è risolto il problema), nelle «menti raffinatissime», nel grottesco, nel culto della morte, nel sorriso e nel sonno, nel tutto e nel niente che siamo.

Mafia

Il traditore
di Marco Bellocchio
Italia 2019
Con: Pierfrancesco Favino (Tommaso Buscetta), Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno), Fabrizio Ferracane (Pippo Calò), Maria Fernanda Cândido (Cristina, moglie di Buscetta), Fausto Russo Alesi (Giovanni Falcone), Nicola Calì (Totò Riina), Vincenzo Pirrotta (Luciano Liggio), Goffredo Maria Bruno (Tano Badalamenti), Giuseppe Di Marca (Giulio Andreotti)
Trailer del film

Nelle gabbie della loro nientità. Nuddu ammiscatu cu nenti sono infatti e appaiono gli umani dentro Cosa Nostra. Sia quando strangolano ragazzi che hanno visto nascere, che hanno accompagnato alla prima comunione, con i quali hanno condiviso  gli spazi e il tempo delle feste, sia quando dietro le sbarre di un’aula bunker ululano, fingono crisi epilettiche, si spogliano per mostrare a minchia, parlano vastasu o cercano pateticamente di parlar forbito.
La mafia nella sua componente militare è questa umanità miserabile, ossessionata e turpe. Gorgogliata da miserie antiche – Buscetta era il decimo di 17 figli e ne generò otto–; vivente nella più grave ristrettezza intellettuale -Riina era praticamente analfabeta e Contorno parla soltanto in siciliano– ; stolta nel confondere il danaro con la gloria –Pippo Calò si abbassa a qualunque tradimento pur di mantenere patrimoni.
La mafia nella sua componente più profonda, quella delle istituzioni politiche e finanziarie, ha una pluralità di espressioni che qui si condensano nella figura di un Giulio Andreotti prima intravisto in una sartoria di Roma e poi intento a prendere  appunti durante la deposizione di Buscetta a suo carico. Il politico democristiano vi appare come figura insignificante e scialba, sin dall’aspetto dell’attore che lo interpreta. Una scelta intelligente, volta a demitizzare un soggetto che la storia è destinata a dimenticare, un mafioso con qualche lettura in più rispetto ai suoi amici palermitani. Tra questi il più determinato, Riina, si muove come un minerale nella ossessione del silenzio. Si rivolge infatti a Buscetta soltanto per dirgli che lui ha una moralità che non gli permette di parlare con un adultero. Buscetta –al quale il moralista Riina ha sterminato la famiglia– indica invece nel suo nemico il vero «distruttore di Cosa Nostra», il traditore dei suoi valori, colui che ha scannato donne e bambini e ha esteso il traffico di droga sino a far morire di eroina molti degli stessi figli dei mafiosi.
Immersi e viventi nell’esercizio della violenza militare, dell’astuzia politica, dell’avidità economica, i mafiosi rappresentano un distillato dell’umanità perduta. È a quest’essenza che il film di Bellocchio mira, è quest’essenza che coglie come credo nessun altro film ‘di mafia’ abbia saputo fare poiché non è un film di mafia ma è opera antropologica, che sa coniugare in modo equilibrato da un lato la vicenda politica che si coagula intorno a Cosa Nostra e dall’altro i caratteri personali dei suoi maggiori esponenti. Tra questi caratteri emergono con particolare forza la malinconia di Favino e la vitalità di Lo Cascio, davvero straordinario nel suo siciliano espressionista, infantile, ironico.
La cinematografia di Marco Bellocchio ha al centro il revenant, i morti che appaiono ai vivi, che ritornano nei loro incubi, che formano i loro assilli, che li afferrano nella loro fine. Tale carattere trionfa  in questo film poiché la mafia è un memento mori che mai si ferma e mai si stanca. La morte sta infatti al centro dei dialoghi tra Buscetta e Falcone e compare nel primo finale, quando un Buscetta ormai anziano sogna finalmente di compiere quell’omicidio che gli era stato ordinato da giovane e che ancora non aveva portato a termine. Il secondo finale è costituito da alcuni secondi di un video nel quale il vero Buscetta canta una canzone brasiliana colma di saudade, con la voce e lo sguardo di chi sente –anche se non possiede gli strumenti culturali per pensarlo che non valiamo niente, «δειλῶν, οἳ φύλλοισιν ἐοικότες ἄλλοτε μέν τε / ζαφλεγέες τελέθουσιν ἀρούρης καρπὸν ἔδοντες, / ἄλλοτε δὲ φθινύθουσιν ἀκήριοι», ‘miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, / altra volta cadono privi di vita’ (Iliade, XXI, 464-466; trad. di G. Cerri).

Borsellino e il presidente

Il 19 luglio del 1992 Paolo Borsellino veniva massacrato insieme alla sua scorta. Dopo qualche settimana un mio conoscente catanese, imparentato con una delle famiglie mafiose più potenti dell’Isola, mi disse che le morti di Falcone e Borsellino erano state in realtà un favore fatto da Cosa Nostra a importanti uomini politici. Pensai, naturalmente, che fosse un modo per giustificare i suoi familiari. Invece aveva ragione. L’ultima conferma è il modo con il quale Giorgio Napolitano si comporta alla prospettiva che si sappia quanto si sono detti lui e Nicola Mancino, che nel 1992 era ministro degli interni e con il quale Borsellino si incontrò pochi giorni prima di morire. Un incontro dal quale il giudice siciliano uscì sconvolto.

Invece di contribuire all’accertamento della verità -o almeno della verosimiglianza- su quella tragedia, la massima carica della repubblica italiana attacca i magistrati palermitani che indagano tra grandi difficoltà su quei fatti. Inserisco qui sotto il decreto con il quale Napolitano solleva un conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Per comprendere il significato di questo testo, nel quale le parole sono utilizzate per nascondere e non per comunicare, consiglio la lettura del breve commento di un giurista che ben ne chiarisce il contenuto e dell’intervista a un altro giurista il quale afferma che rispetto a quanto asserisce Napolitano «le norme dicono l’opposto a lettori informati ed equanimi». La sorella e il fratello di Borsellino esprimono giustamente il loro sconcerto di fronte a tutto questo. Ai miei occhi è l’ennesima conferma della natura criminale dello Stato. Elias Canetti sostiene che il segreto indicibile è uno dei nuclei del potere. È vero. Il contenuto dell’incontro di Borsellino con Mancino era segnato nell’agenda rossa del magistrato, che fu sottratta da un carabiniere in occasione dell’attentato. Il contenuto dei colloqui tra lo stesso Mancino e Napolitano deve rimanere segreto. Possiamo intuire perché.
Se non fossero morti nel 1992, Falcone e Borsellino sarebbero stati accusati, disprezzati, emarginati dai governi -in gran parte berlusconiani- che si sono poi susseguiti, dalla stampa, da molti dei loro colleghi, da chi oggi li celebra. Dallo Stato e dalla società.

 

 

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