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Mente & Cervello 54 – Giugno 2009

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Per quanto parziale sia la conoscenza che abbiamo del cervello, sappiamo comunque che il potere della mente nell’interpretare la realtà -e dunque nel produrla- è davvero molto grande. Il caso del placebo è una delle prove più evidenti. L’effetto placebo agisce persino su malattie gravissime -quali i tumori- poiché «le aspettative e le convinzioni del paziente hanno una grande influenza sul decorso della malattia» (M.B. Niemi, pag. 29). Un’altra e assai diversa manifestazione di tale potere sono le allucinazioni, quegli stati mentali «il cui contenuto è cosciente, involontario e, sotto certi aspetti, simile al sogno e alla percezione» e che in alcune culture sciamaniche svolgono una reale funzione terapeutica (A. Lehmann e J. González, pp.76 e 80).

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Mente & Cervello 53 – Maggio 2009

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L’utilizzo del lettino sul quale far stendere i pazienti fu suggerito a Freud non da un’esigenza intrinseca all’analisi ma solo dal fatto -assai più banale- che «non sopportava di dover guardare in faccia il paziente e di essere osservato per tante ore al giorno»; e anche questo conferma il sostanziale disinteresse del fondatore della psicoanalisi «per gli aspetti specificamente terapeutici, a fronte di un’attrazione per le questioni teoriche» (A. Castiello d’Antonio, pp. 46-47).

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Etologia umana

Irenäus Eibl-Eibesfeldt
ETOLOGIA UMANA
Le basi biologiche e culturali del comportamento

(Die Biologie des menschlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie
R.Piper GmbH e Co. KG München, 1984)
Edizione italiana a cura di Rossana Brizzi e Felicita Scapini, con gli aggiornamenti dell’autore per l’edizione USA, 1989.
Bollati Boringheri, Torino 1993
Pagine XII-554

«L’etologia umana può essere definita come la biologia del comportamento umano» (pag. 4) dove si definisce comportamento ogni azione che abbia uno scopo e sia consapevole, pianificata e intenzionale. Studiare la biologia del comportamento vuol dire analizzarne le componenti innate, quelle insite nell’organismo, sapendo comunque che nei mammiferi gli elementi innati e quelli acquisiti cooperano sempre nel produrre l’una o l’altra azione. Dal punto di vista etologico innatismo non vuol quindi significare che la natura umana sia immutabile, proprio perché la capacità di apprendere e quindi adattarsi meglio all’ambiente è costitutiva della nostra specie. «La vecchia contrapposizione tra empirismo e innatismo è oggi senz’altro superata. I tentativi del behaviorismo di ricondurre ogni comportamento a semplici collegamenti stimolo-reazione che si formano attraverso l’esperienza, possono considerarsi falliti. Il nostro sistema nervoso centrale non viene riempito di contenuti solo attraverso le percezioni sensoriali. Esso, al contrario, è predisposto a percepire, e dunque non è una tabula rasa. Il behaviorismo sopravvive tuttavia nelle idee di molti profani e le sue tesi semplicistiche sono accolte da una certa parte delle pedagogia, psicologia e sociologia» (380).
L’unità profonda di corpo e psiche fa sì che la cultura sia «per l’uomo una seconda natura e ciò influisce in maniera determinante sul destino della nostra specie» (441). L’invenzione della cultura ha aperto nuove prospettive nel percorso umano, tanto che Eibl-Eibesfeldt arriva a ritenere probabile «che cambiamenti culturali dello stile di vita possano indurre in futuro anche cambiamenti genetici; a favore di questa ipotesi vi sono già buoni indizi» (12). È stata l’intelligenza l’elemento più adattativo della specie e quindi un’evoluzione di grado superiore potrebbe riguardare le caratteristiche più tipicamente umane come la creatività, l’eticità, la razionalità. Le nostre possibilità di estinzione sono elevate quanto quelle di una ulteriore evoluzione e noi potremmo davvero rappresentare «un missing link, ossia un ipotetico anello di congiunzione» (437) a condizione che si riesca a sopravvivere.

La gravità della condizione umana oggi è data anche dal fatto che nel corso della filogenesi non vi è stata alcuna pressione selettiva contro la guerra, contro l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, contro l’esplosione demografica del Novecento -quando è chiaro che «se proseguirà anche in futuro la crescita esponenziale della popolazione terrestre, che fino ad oggi sembra inarrestabile, si profila per i prossimi decenni una catastrofe generale» (IX)- contro il potere delle immagini televisive -fenomeno evidentemente nuovissimo e il cui impatto è ancora difficile da valutare in termini evolutivi anche se è possibile fin d’ora coglierne i rischi di omologazione politica e culturale. Vicino alle riflessioni di Nietzsche, l’antropologo indica il compito primario della scienza -oggi- nell’«insegnare a pensare rigorosamente, a giudicare prudentemente e a ragionare conseguentemente», dando spazio alle speranze evolutive della specie «purché lo sviluppo della ragione umana non si arresti!». (Umano, troppo umano I, af. 265 e Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra , af. 183). Anche Eibl-Eibesfeldt, infatti, individua nell’ethos scientifico «l’unico ethos culturale di portata universale. Esso si basa sull’accettazione del realismo scientifico, sul presupposto della libertà di pensiero e di ricerca, e anche sull’idea che la conoscenza sia un bene e quindi che il sapere sia sempre meglio dell’ignoranza» (477). Non a caso l’autore conclude il suo libro ricordando la necessità socratica di diffondere almeno la consapevolezza dei problemi di fronte ai quali la specie umana oggi si trova e delle conoscenze che possono renderne più concreta la soluzione, in questo rimanendo «fedele all’invito che si trovava anticamente inciso sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso” » (479).

Il metodo utilizzato da Eibl-Eibesfeldt è quello comparativo, reso possibile dalla grande quantità di dati raccolti dallo scienziato nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni presso alcune popolazioni dell’Africa, del Centro America e dell’Oceania: i Boscimani, gli Yanomani, gli Eipo e altri ancora. Verso di loro lo studioso rivolge uno sguardo scientifico e oggettivo ma anche e soprattutto empatico e partecipe: «al loro ricordo provo un forte senso di nostalgia per quella che è stata quasi la mia seconda patria» (459).

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