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Corpotempo

Lucy
di Luc Besson
USA – Francia, 2014
Con Scarlett Johansson (Lucy), Morgan Freeman (Professor Norman), Choi Min-sik (Kang), Amr Waked (Pierre Del Rio)
Trailer del film

CPH4 è una nuova droga che viene impiantata con la forza nello stomaco di Lucy, per costringerla a trasportarla da Taiwan in  Europa. Il sacchetto però si apre e la potentissima sostanza le si diffonde in tutto il corpo, aumentando esponenzialmente le capacità cerebrali della ragazza. Che -come il Funes di Borges- non dimentica più nulla, comincia a ricordare i primi mesi di vita e il sapore del latte materno, sente parole pronunciate da lontano, vede la vita brulicare nelle piante, viaggia nel tempo sino a incontrare l’antica Lucy, l’australopiteco. In tutto questo è aiutata da Norman, un famoso professore di neurologia, al quale si rivolge per capire che cosa le stia succedendo ma ben presto diventando assai più sapiente di lui. E però è sempre inseguita dai feroci criminali ai quali ha sottratto la sostanza blu. Questo il plot, da integrare senz’altro con l’appassionante recensione di Mario Gazzola su posthuman.it, capace sia di dare conto di ciò che accade nel film sia di come leggerlo (il titolo, significativo, è Lucy – odissea nel cervello).
Lucy è un esempio di spettacolare fantascienza neurologica fondata sulla tesi che l’umanità attuale utilizzi soltanto una parte -il 10% si dice spesso- delle capacità del nostro cervello. Questa ipotesi è poco più di una leggenda metropolitana, priva di fondamento e assai rozza nelle sue ragionieristiche percentuali. E tuttavia il vero film sta altrove. Sta nella profonda unione di biologia e tecnologia, nella consapevolezza che la mente è un fenomeno del tutto radicato nella materia, che ciò che è esiste soltanto perché i nostri neuroni ne decifrano con la loro potenza il significato e lo volgono in azione, sta nella ibridazione tra natura e artificio, sta nel trasformarsi dell’umano in una comprensione totale dell’eventuarsi del mondo.
Nel suo linguaggio iperbolico e fumettistico, negli occhi della sua eroina, nel fracasso delle pistole e dei coltelli, nelle immagini roteanti delle cellule e delle galassie, nelle sue citazioni dall’odissea di 2001 e dalla meditazione di Home, Lucy è un’illustrazione della tesi aristotelica secondo cui «la mente è, in qualche modo, tutte le cose» (psyché tà onta pós estin, De anima, III, 431 b). Ciò che succede alla ragazza consiste infatti nella metamorfosi del mondo dentro di lei, nel suo progressivo allontanarsi dall’umano fatto di finitudine e di limite. E lo dice con chiarezza: «Non sento più dolore, non temo più la morte. Sto perdendo la mia umanità». Perché l’umano è finitudine consapevole di sé, è una «contingenza avveduta, contingenza che si avvede di sé» (E. Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, il melangolo, 2004, p. 9).
Il punto più vero e più profondo è raggiunto dal film nel momento in cui Lucy aggiunge che dunque l’umano è tempo. Quando Norman le chiede perché ne sia così convinta, lei risponde proiettando l’andare di un’auto sulla strada: «Vede, se aumento la sua velocità all’infinito l’auto non si vede più, scompare. La materia è questo ritmo, questo andare. La materia è tempo, soltanto tempo. Noi siamo tempo». Musica per i miei occhi di cinefilo e per la mia mente di filosofo, per il corpomente che ora è questo raggrumarsi della materia in divenire che sono stato, che sono, che sarò.

Religione, invidia, figli

Mente & cervello 99 – marzo 2013

Nell’esagono che compone le scienze cognitive -psicologia, neurologia, linguistica, filosofia, antropologia, intelligenza artificiale-, l’antropologia sta emergendo sempre più. Essa, infatti, rende possibile l’individuazione delle radici più profonde di molti fenomeni della vita individuale e collettiva e mostra la loro dimensione olistica, lontana da ogni interpretazione troppo riduttiva di realtà assai complesse nel loro statuto e nelle loro conseguenze.
Di tali realtà fa parte l’esperienza religiosa. Le ricerche sperimentali sembrano dimostrare che «più ci si impegna in attività religiose e meglio si sta» (S. Upson, p. 25). Le ragioni di questo fenomeno vanno naturalmente al di là delle specifiche credenze dell’ebraismo, del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo o di altre fedi e hanno a che fare anche con i contesti nei quali l’esperienza religiosa viene vissuta: «I credenti saranno forse più felici dei senza Dio, ma solo se la società in cui vivono dà molto valore alla religione, e questo non succede sempre» (Id., 26). Altri studiosi offrono risposte di tipo evoluzionistico. Le credenze religiose, infatti, rispondono assai bene al bisogno che i mortali hanno di trovare un significato forte e totalizzante alle proprie esistenze: «I bambini vengono al mondo con una propensione fortissima ad attribuire significato ai fenomeni dell’ambiente in cui vivono, rintracciando continuamente pattern e relazioni causali negli eventi del mondo» (V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, 34). Tali relazioni causali sono all’origine dell’individuazione di agenti consapevoli ai quali ascrivere l’origine di ciò che accade: è assai più pericoloso attribuire al vento l’agitarsi di un ramo, se invece è un predatore a esserne la causa, che vedere un predatore là dove agisce soltanto il vento. «Questa ipersensibilità del meccanismo per la rilevazione degli agenti deve essere stato un motore cruciale nell’evoluzione delle credenze nel sovrannaturale» (Id., 36). Ovviamente lontano dalla forma mentis evoluzionistica, già Spinoza aveva comunque attribuito a fattori naturali la credenza nel teleologismo, nella presenza di divinità che agiscono al fine di favorire o danneggiare gli umani.
Favoriti o danneggiati siamo dagli altri mortali, i quali a volte -spesso- ci tradiscono e che noi tradiamo. Il tradimento può essere rivolto non soltanto a una persona ma anche a un’idea, un’organizzazione, una fede. Tra le tante possibili cause, una delle più tristi è l’invidia, sentimento che personalmente giudico ripugnante e con il quale il soggetto che lo nutre attesta da sé la propria inferiorità nei confronti dell’invidiato. Intervistato da Paola Emilia Cicerone, Mario Perini sostiene che «le persone, le qualità, le idee oggetto di ammirazione possono trasformarsi in oggetti odiati nel momento in cui la loro superiorità suscita nel soggetto un intollerabile sentimento di inferiorità. Il tradimento può essere un modo per allontanarsi dalla fonte del dolore, e insieme attaccarla e distruggerla» (47).
Quanto meglio sarebbe, invece, valorizzare ciò che ci accade e ciò che siamo, senza confrontarlo con ciò che accade agli altri e con ciò che gli altri sono. Positività e gratitudine, infatti, «migliorano la salute e il benessere psicofisico» non soltanto nostro: «Cercare di essere felici può apparire uno sforzo egoista, ma in effetti è un obiettivo utile da perseguire non solo per se stessi, ma per la nostra comunità» (E. Seppala, 102 e 103).
Motivo di invidia e di tristezza potrebbe essere il non avere figli ma in un loro libro –Senza figli. Una condizione umana, recensito da P.E. Cicerone- Duccio Demetrio e Francesca Rigotti difendono la condizione di «chi sceglie di essere genitore e figlio di se stesso e il senso della vita lo cerca altrove, magari proprio nel “partorire con la mente”. […] E forse, concludono gli autori,  la discriminante vera “non è tra chi di figli ne ha avuti e chi no, ma tra chi non si interroga sul senso amaro, dolente del vivere e chi invece dedica a tale scopo la sua inesausta, sempre incompiuta ricerca”» (104).

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