In Italia non ha storicamente senso parlare di rivoluzione. Quelle tentate sono sempre state di minoranza e dunque sconfitte (ad esempio il 1799 a Napoli). Il Risorgimento si è rivelato, secondo la condivisibile analisi di Gramsci, “una rivoluzione mancata”. Ragioni per attuare almeno una rivolta generalizzata ce ne sono ormai di molto serie: l’impoverimento economico è evidente, così come la chiusura provinciale o l’asfissia sociale che toglie respiro a chi non faccia già parte di famiglie, gruppi, ceti privilegiati. Ma tranne la straordinaria e costante azione NO TAV in Piemonte, l’Italia attuale è incapace di rivolte. Anche perché quando esse esplodono, come a Genova nel 2001, la repressione è feroce e i massacratori invece che essere puniti fanno carriera nei loro corpi di appartenenza. Su tutto, poi, domina il cloroformio televisivo, a sedare qualunque velleità di ribellione.
Dall’interno non è dunque possibile trarre alcuna speranza. La prospettiva che ormai siamo costretti ad auspicare è che sia l’Europa a spingere verso la caduta di Berlusconi. L’incapacità totale che questo personaggio e i suoi complici (Tremonti compreso) mostrano nel gestire una crisi che prima sono stati inabili a vedere, una volta vista hanno irresponsabilmente negato per ragioni di propaganda e ora sono del tutto inattrezzati ad affrontare, rischia infatti di trascinare con sé l’economia dell’intero Continente. Si può sperare dunque che non per rispetto dell’Italia -la più parte dei suoi abitanti non ne merita alcuno- ma per propri interessi di sopravvivenza, i poteri europei inducano Napolitano e altri decisori politici a sbarazzarsi di questo peso morto, di questo cadavere cialtronesco il cui fetore dopo quasi vent’anni di malgoverno ammorba ancora la nazione.
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La civiltà dell’Occidente medievale
di Jacques Le Goff
(La civilisation de l’Occident médiéval, Arthaud, Paris 1964)
Trad. di Adriana Menitoni
Einaudi, Torino 1999
Pagine XX-533
Les Annales hanno trasformato la storiografia in una indagine globale sulle strutture materiali e intellettuali delle diverse epoche e società. Del Medioevo occidentale Le Goff descrive non soltanto il pullulare degli eventi ma anche e soprattutto la profondità dei parametri culturali e di mentalità. La distinzione di base è tra un Lungo medioevo, che durerebbe dal III secolo alla metà del XIX, nel quale «l’essenziale è costituito dal lungo equilibrio del modo di produzione feudale, dominato dalla ideologia cristiana» e un Corto medioevo che va dall’anno Mille alla Peste nera (p. XIV). Il testo incentra la propria analisi su quest’ultimo periodo, «il cuore del Medioevo», infanzia della nostra età e «vero inizio dell’Occidente medievale» (pp. XIII-XIV). In questi secoli la profonda unione tra il reale e l’immaginario fa scaturire idee, strutture, narrazioni, miti, obiettivi.
Due degli elementi centrali sono l’analogia e il simbolismo. La prima è una ontologia e gnoseologia dell’eco: «esiste veramente solo quello che ricorda qualcosa o qualcuno, quello che è già esistito» (188). Il secondo fa del pensare una costante ierofania, un continuo apparire di significati nascosti nelle strutture materiali. Per quanto riguarda la continuità tra il mondo antico e quello medievale, Le Goff osserva che «il pensiero antico nel Medioevo è sopravvissuto solo atomizzato, deformato, umiliato dal pensiero cristiano» (131); un autentico vandalismo condusse alla distruzione dei monumenti e delle testimonianze antiche, attuata «sia per ignoranza, sia per ostilità al paganesimo» (508).
Come esempio della ricchezza analitica di questo libro valga la discussione sul tema del feudalesimo, da non opporre -come spesso invece accade- alle strutture urbane, in quanto «feudalesimo e movimento urbano sono due aspetti di una stessa evoluzione, che organizza contemporaneamente lo spazio e la società» (105). Un altro esempio è costituito dall’evento politico e militare delle Crociate: in esse si riassumono per molti versi la violenza, il razzismo religioso, l’intrico di problemi sociali che agitarono l’Occidente medievale. Il loro portato fu secondo Le Goff completamente negativo, esse esasperarono i contrasti tra l’elemento latino e Bisanzio, la cristianità e l’islam, l’universalità e la dimensione locale, impoverirono l’economia, moltiplicarono la violenza. Prende così forma un «Medioevo delle profondità» (7), che è tempo del dolore, della miseria, della furia. Una società primitiva, tradizionalista, seminomade, povera e malata. Già le invasioni barbariche diedero il tono ai successivi dieci secoli: «le armi, la carestia, l’epidemia, le belve, questi saranno gli infausti protagonisti» (28). Pensiero e sensibilità furono impregnati di «un fondamentale pessimismo», quello di un mondo limitato e morente: «Mundus senescit» (183). L’Occidente medievale è l’universo della fame, delle miserie fisiche, dell’ostracismo verso gli stranieri, i lebbrosi, i poveri, i malati; dell’odio verso «colui che non si unisce alla maggioranza» (301); dei supplizi inauditi, della furia degli uomini tra di loro, dell’insicurezza materiale e morale. L’uscita dalla crisi prodotta dalla Grande Peste del 1348 «dà origine alla società del Rinascimento e dei tempi moderni, più aperta e, in genere, più felice dell’opprimente società feudale» (125).
In ogni caso, questo testo si pone al di là della denigrazione e dell’apologia, documentando in modo chiaro e assai ricco ogni sua affermazione, tesi, interpretazione. Il riconoscimento degli elementi di crescita individuale e collettiva è scevro da qualsiasi nostalgia; allo stesso modo, l’analisi dei numerosi aspetti di sofferenza non nasce da alcun pregiudizio e anzi parte dall’affermazione che «il fatto essenziale è comunque l’innegabile potenza creatrice del Medioevo» (XV). Le Goff offre un quadro complesso e plausibile del Medioevo, contro ogni Legenda aurea e insieme al di là di ogni ingenuo progressismo.
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di Joseph Conrad
(Hearth of Darkness, 1902)
Trad. di Alberto Rossi
Einaudi, Torino 1989
Pagine XLVI-127
Mentre si avanza, una progressiva assenza. Nel procedere dello spaziotempo vengono meno gli eventi, le parole, la luce. L’immenso fiume dal non detto nome introduce alla nebbia fittissima del senso, al buio della comunicazione. È anche questo il segreto di Hearth of Darkness: un’identità di forma e contenuto che nulla lascia fuori di sé ma che nel compiersi sospende la parola
Il comandante Marlow dà inizio, mentre sul Tamigi scende la tenebra notturna, al racconto del suo viaggio nel cuore dell’Africa, alla ricerca dell’avorio e di Mister Kurtz. La narrazione si avvicina in modo progressivo, lento, indiretto al suo obiettivo, esattamente come il procedere del battello per centinaia di miglia sulle acque. Quando, infine, si arriva è al di là del bene e del male che si è giunti. Lungo tutto il viaggio l’aria, il tempo, i giorni scorrono lenti fra luce e tenebre nella massiccia e lontana densità di una foresta impenetrabile, viva e respirante, sacra. Un pellegrinaggio nell’incubo, come se tutto ciò che il Guernica di Picasso racchiude nell’istante atemporale della pittura fosse dilatato nel tempo lungo della narrazione. Che cos’è lo Hearth of Darkness a cui ci si approssima senza mai coglierlo?
È la conquista del mondo. Il demone e il destino dell’Europa. Ai popoli dell’Africa la schiavitù «era giunta addosso come un incomprensibile mistero proveniente di là dal mare» (pag. 23). Lo Hearth of Darkness è quindi quel «lezzo di rapacità imbecille», diffuso da funzionari tanto grotteschi quanto feroci e che «circolava per ogni dove a zaffate, come il fetore d’un qualche cadavere» (35). Ma il predare e sottomettere, la schiavitù e il massacro delle genti africane preesistono agli europei, ebbero inizio già al tempo dell’espansione araba. Hearth of Darkness è qualcos’altro. È l’infinita solitudine dell’uomo, il silenzio e l’oblio che avvolgono ogni anima e ogni vita: «il silenzio di quella terra penetrava dritto in fondo al cuore, col suo mistero, la sua vastità, la realtà stupefacente della sua vita recondita» (40). Una effettiva, e quindi totale, comunicazione fra gli umani è di fatto impossibile. La verità, il significato, la penetrante essenza di un attimo qualunque della vita, non si può trasmettere ad alcuno: «Si vive come si sogna: perfettamente soli» (42). Il silenzio senza traccia delle primordiali età dell’uomo è destinato a richiudersi su qualunque creazione, orma, documento, memoria come l’oceano sul capo di chi annega. Il viaggio verso la tenebra è quindi l’inoltrarsi «nella notte di età che scomparvero lasciando appena qualche traccia, e nessuna memoria» (56).
Ma c’è di più, assai di più, al di là del rimpianto per la propria caducità. Hearth of Darkness è l’orrore dell’umano, l’umano come orrore. È questa la mortale sapienza alla quale infine Kurtz arriva. Il male dentro di sé, il male in ognuno che desidera, la tenebra della specie più luminosa, il dionisiaco dell’apollineo. La straordinaria eloquenza di Kurtz, i suoi pensieri reconditi, i sentimenti e le sconfinate sue passioni sono sempre e soltanto allusi e mai vengono detti. A esprimere la tenebra c’è solo qualche brandello di disincantata sapienza: la bizzarria della vita e il dominio su di essa del dolore, la ferocia della storia, l’incerta e terribile conoscenza di se stessi, la messe di inestinguibili rimpianti. Solo nell’ultima prova della sua misteriosa eloquenza Kurtz esprime qualcosa di semplice, qualcosa di definitivo. Il suo «sguardo fisso […] era vasto abbastanza da abbracciare tutto l’universo, abbastanza acuto per penetrare in tutti i cuori che battono nella tenebra. Egli aveva tirato le somme -e aveva giudicato, “Quale orrore!”» (112) («his stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”»).
Quest’ultimo grido si riverbera sùbito sul quotidiano, a scanso di ogni esotismo: «Mi ritrovai di nuovo in quella città sepolcrale, irritato alla vista di gente che correva per le strade a rubarsi a vicenda qualche poco di denaro, a divorare quella sua infame cucina, a ingoiare la sua birra impossibile, a sognar i suoi sogni insignificanti e balordi» (113). Un’altra condanna gnostica si è abbattuta sull’umano e ha creato un racconto a volte forse ripetitivo, che continuamente insiste su quella parola Darkness, ma che -cosa davvero unica- dà la sensazione di sfiorare l’eterno: «Risalire lungo quel fiume era come viaggiare all’indietro nel tempo verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra, ed alberi immensi stavano come imperatori» (52).
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di Robert Hughes
Sottotitolo: La saga del politicamente corretto
(The Culture of Compliant, 1993)
Traduzione di Marina Antonielli
Adelphi, 2003
Pagine 242
Il Sessantotto ha voluto essere antiamericano. Lo è stato veramente? In realtà molte delle parole d’ordine che risuonavano nelle scuole e nelle Università provenivano da correnti pedagogiche statunitensi. Si voleva abbattere la cultura che aveva prodotto il Vietnam utilizzando gli strumenti che essa stessa andava elaborando.
Primo fra questi la riduzione dell’istruzione e più in generale del sapere a terapia. Negli ultimi decenni le scuole e le università hanno progressivamente abbassato «i criteri d’ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo» anche a danno del diritto all’istruzione degli studenti più capaci (pag. 84). Contro gli allievi bravi, contro chiunque mostri di emergere per intelligenza, volontà, interesse si avverte quasi un pregiudizio come se il distinguersi di alcuni suonasse rimprovero alla condizione degli altri. Ogni differenza risulta inaccettabile se la cultura deve servire solo ad attutire le distanze sociali con l’abbassare tutti invece che col permettere a chiunque di emergere.
Il riduzionismo terapeutico -la scuola come guaritrice del “disagio giovanile”- è una delle espressioni più efficaci del principio di deresponsabilità che il Sessantotto ha assimilato dalle correnti pedagogiche nordamericane degli anni Sessanta, anni di sviluppo economico impetuoso, nei quali i figli dei ceti medi ritenevano che tutto fosse raggiungibile con poca fatica e dunque tutto fosse loro dovuto. Quando poi, però, un simile sogno infantile si scontra con le prime difficoltà dell’esistere, dai sentimenti al lavoro, si genera un rancore che ha bisogno di responsabili sui quali scaricare ogni torto. Non è quindi «colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da “famiglie disfunzionali”» (23).
Eliminare la fatica che ogni impresa umana comporta, rimuovere la dimensione intrinsecamente elitaria del sapere come di ogni opera creativa, significa cedere poi alla «sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per l’ “espressione personale” e l’ “autostima”» (87). Ma nell’arte e nel concetto, ancor più che in altri ambiti, le élites sono necessarie. L’importante è che la loro composizione non rimanga statica, che siano aperte a chiunque mostri talento, rigore, immaginazione, qualunque sia, poi, il suo sesso, il rango sociale, il colore della pelle. Umiliare l’ingegno in nome di un egualitarismo grottesco significa produrre una cultura in cui tutte le opere sono grigie e sul nero dell’intelligenza oscurata rimane a splendere solo la luce catodica dell’immagine elettronica. Sulle macerie del Sessantotto -o forse autentico monumento alla sua vittoria- è rimasta la televisione «musa della passività» (60). La realtà, con il suo spessore complesso e difficile, è sostituita dall’immagine-ideologia il cui enorme merito è l’esentare dalla fatica del pensiero.
Il politicamente corretto è anche la messa in scena del senso di colpa che divora l’Europa e non le consente di fare davvero i conti con la storia della propria sconfinata potenza. Sostenere che il nostro Continente sia l’origine di ogni male per gli altri popoli del pianeta è come ritenerlo intrinsecamente superiore a tutte le culture. Operano in entrambi i casi semplificazione e schematismo. Guerre, schiavismo, distruzione dell’ambiente non sono un portato dell’uomo europeo; le civiltà africane, arabe, asiatiche furono e in gran parte sono ancora ferocemente discriminanti, fondate sulle caste e sull’obbedienza assoluta al sacerdote-signore (cfr. anche J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi 1998).
Un multiculturalismo autentico rappresenta l’opposto degli inviti all’isolamento nella purezza della propria identità tribale. Malcom X potè una volta riunire i propri seguaci insieme a quelli di un gruppo neonazista. Erano d’accordo nel chiedere un’America separatista, divisa in due, bianchi da una parte, neri dall’altra. E invece «nel mondo prossimo venturo, chi non saprà navigare il mare della differenza sarà spacciato» (121). O almeno questo è l’auspicio. Che un uomo valga per quanto riesce a dare a se stesso e al mondo e non per il suo sesso, l’ideologia o la religione che professa, le abitudini sessuali che pratica, la percentuale di melanina nella pelle. Le differenze convivono con altre differenze e di esse continuamente si arricchiscono.
di Philippe Lioret
Francia, 2009
Con: Vincent Lindon (Simon), Firat Ayverdi (Bilal), Audrey Dana (Marion), Derya Ayverdi (Mina)
Trailer del film
Bilal è riuscito ad arrivare a Calais dall’Iraq curdo. A piedi, con ogni mezzo disponibile, subendo per una settimana le sevizie dell’esercito turco. Ora ha solo da attraversare la Manica per giungere a Londra dalla sua Mina, che però il padre ha destinato a un matrimonio combinato. Fallito un tentativo coi camion dei trafficanti, Bilal vuole imparare a nuotare perfettamente, in modo da raggiungere da solo l’Inghilterra. Chiede l’aiuto di Simon, un ex campione e ora istruttore in una piscina. Simon è solo, sta per divorziare senza neppure essere stato capace «di attraversare la strada per fermarla, mentre Bilal vuole attraversare il mare». Tra il ragazzo e Simon nasce un legame forte e insieme tenero, sobrio e profondo, che induce l’uomo a rischiare il carcere per l’amico venuto da lontano. A ottocento metri dal sogno, il sogno si infrange.
Con molto sentimento ma nessuna retorica, in modo sobrio e coinvolgente, con degli attori straordinari -a partire da Vincent Lindon-, il film descrive una realtà di dolore che attraversa il nostro continente in ogni sua parte. La polizia francese distrugge persino i contenitori dei volontari che vogliono offrire un pasto ai clandestini. La legislazione italiana ordina di lasciare i clandestini alle loro malattie e alla morte. Con i nostri eserciti portiamo guerra, fuoco e distruzione tra popoli lontani migliaia di chilometri, che nulla ci hanno fatto e che vorrebbero solo essere lasciati in pace, alle loro culture. E al frutto di queste guerre, ai profughi che cercano salvezza e fortuna, rispondiamo coi mastini. Che cosa è mai diventata l’Europa cristiana, l’Europa dei Lumi, l’Europa cosmopolita? Un fortino che pensa di salvarsi mostrandosi spietato coi deboli e servile con i padroni del mondo.
Francoise Tulkens (Belgio, presidente), Vladimiro Zagrebelsky (Italia), Ireneu Cabral Barreto (Portogallo), Danute Jociene (Lituania), Dragoljub Popovic (Serbia), Andras Sajò (Ungheria), e Isil Karakas (Turchia) sono i sette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno stabilito all’unanimità quanto segue: