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Spie e spettacolo

In Europa fanno tutti gli ingenui, come se non sapessero dell’enorme potenza di controllo degli Stati Uniti d’America su ogni gesto, parola, decisione dei nostri popoli e dei governi che li hanno svenduti.
E quand’anche? Il signore non ha forse diritto a controllare il proprio maggiordomo?
Se non si vuole subire la sorte dei servi bisogna togliersi la livrea, non lamentarsi perché il padrone ti guarda.
«Mais l’ambition la plus haute du spectaculaire intégré, c’est encore que les agents secrets deviennent des révolutionnaires, et que les révolutionnaires deviennent des agents secrets».
(Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle [1988], Gallimard 1992, § IV, p. 25)

 

Nord

Nord
(Gallimard, 1959)
di Louis-Ferdinand Céline
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
In TRILOGIA DEL NORD
Edizione presentata, stabilita e annotata da Henri Godard
Einaudi, Torino 2010
Pagine XXXIX-1092 (Nord, pp. 293-683)

 

Zornhof è il luogo a cento chilometri a nord di Berlino dove il narratore viene confinato dopo aver girovagato da un castello all’altro. Ancor più che a Sigmaringen, la putrefazione del regime nazionalsocialista è qui evidente. Lo è al modo di un teatro di marionette nel quale tutti -feudatari prussiani, matrone russe, prigionieri politici, militari tedeschi, zingari, profughi- recitano la propria parte di folli in un mondo estremo, il mondo nel quale «la ragione è morta nel ’14, novembre ’14…dopo è finito, tutto scazza…» (pag. 443).
In questo mondo di pazzi la lucidità di Cèline è stupefacente. Lucidità su se stesso, sulla «magia della sua povera persona, così gratuita» e capace d’essere riuscita «in questa acrobazia che si trovano tutti d’accordo, un attimo, destra, sinistra, centro, sagrestie, logge, cellule, carnai, il conte di Parigi, Joséphine, mia zia Odile, Krukrubezev, l’abate Tiralira, che [io] sono la più gran sozzeria vivente» (469 e 599).
L’inquietudine che non gli fa godere l’istante è stata presa per inaffidabile cattiveria. L’innata curiosità che gli farebbe «scalare la torre Eiffel con i miei due bastoni» «per imparare anche una piccola cosa, una sciocchezza» (548) è scambiata per cinismo. L’anarchismo -«anarchico sono, come ieri domani, e me ne frego proprio delle opinioni!» (383)- è diventato immoralità. Ma è che «tutti i vinti son spazzatura!…lo so…eccome…» (303).
E tuttavia questo sconfitto della storia ha saputo persino profetizzare il futuro dell’Europa fatto di moneta  unica, di pensiero unico: «Berlino, Parigi, un’ora appena! […] il progresso di domani! dopo la guerra!…una sola moneta e l’aereo! un’ora!… piú passaporti!» (458-459). Questo sconfitto dalla passione ha descritto il patetico dell’umano e dell’amore come solo Proust ha saputo fare:

Ma i «figami» non sono solo corpi!… zotico! sono «compagne»! e i loro cinguettii, incanti e ghingheri? buon pro vi facciano! se ci avete il gusto del suicidio, incanti e cinguettii, tre ore al giorno, impiccarvi vi farà un bene boia!… lunga! corta!… sia detto senza cattiva intenzione! o passerete tutta la vecchiaia ad avercela col vostro uccello per avervi fatto perdere tanti di quegli anni a piroettare, scalpitare… fare il bello, sulle vostre zampe anteriori, su un piede, l’altro, per avere l’elemosina di un sorriso…(463)

Tutti cerchiamo di elemosinare un sorriso dentro «sta troia merda di esistenza…» (444). C’è chi per carattere e per storia ha imparato a pensare soltanto a sé, e sono la più parte -«quando la gente si preoccupa di te è a loro che pensano» (622)- e c’è chi commette l’errore che anche Proust aveva compreso quando afferma che «le due massime cause d’errore nei nostri rapporti con un’altra persona sono di aver buon cuore, oppure, quell’altra persona, amarla. Si ama per un sorriso, per uno sguardo, per una spalla. Tanto basta» (La fuggitiva, Einaudi 1978, p. 121). Anche Céline pensa che «il crimine, umanamente parlando, l’imperdonabile errore: pensare agli altri!…Prudenza, Egoismo fanno una coppia perfetta, schifosa, merdosa, ma così compatta; adorabile, solida!» (520). Non è forse vero, ad esempio, che bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore? Quante persone conosci, lettore, capaci di tale rispetto?
Ma nonostante la nostra specie che «infila, genera, stronca, squarta, si ferma mai da cinquecento milioni di anni…che ci sono uomini e che pensano…storto e di traverso, vai a capire, ma forza! copulano, popolano, e braoum! tutto esplode! e tutto ricomincia!» (517), nonostante la storia e la ferocia degli umani «c’è del buon cuore dove che sia, non si può dire che tutto è crimine…» (409).
Quel qualcosa di buono che pur esiste va prima visto per poter essere poi anche vissuto. E «non vediamo che quel che guardiamo e non guardiamo se non quello che abbiamo già in mente…» (479). La più parte degli umani è cieca alla luce. E forse soltanto il bagliore immenso di una catastrofe tecnologica e bellica potrà aprirle gli occhi.
Tutto questo può fare a meno del contesto in cui Nord si svolge. Al di là della storia, al di là della contingenza e dell’ora di un momento -che sia il 1944 o altro- la parola di Céline è al sempre che guarda, è il sempre che coglie.

 

Africa / Europa

Angola
di Bonga Kwenda e  Bernard Lavilliers
da Hora Kota (2011)

«C’est le blues d’Angola / mineur et solitaire / qui nous vient de Luanda / c’est un chant de poussière» intona Bernard Lavilliers, in un controcanto che alla dolce profondità del francese alterna la voce roca, malinconica e potente di Bonga. Tra il Portogallo e l’Africa suoni che danzano, vita che fluisce, ritmo che affonda nella terra e nella memoria.

[audio:Bonga_Angola.mp3]

L’Oppio

«I sovietici leggevano la Pravda, ma non le credevano. Gli italiani guardano la televisione e le credono». Sta qui una delle spiegazioni della condizione oppiacea dentro la quale noi italiani continuiamo a dormire mentre altrove -come in Grecia, in Spagna o in Turchia, dove sembra sia iniziata la «Rinascita mentale di un popolo consapevole di aver perso molti diritti che vuole riacquistare al più presto, a qualsiasi costo»- c’è almeno un tentativo di ribellione contro la dittatura liberista. In Italia no. Il coro universale che dalla destra e dalla sinistra politico-mediatiche investe ogni giorno e a tutte le ore la vista, l’udito, la mente dei cittadini italiani canta la responsabilità, la serietà, l’onestà del potere democratico-berlusconiano. Canto maligno di sirene che interpreta artatamente ogni parola e comportamento dell’unico movimento che a tale squallore tenta di opporsi.
A me sembra persino moderato il linguaggio di Grillo nei confronti dei giornalisti, categoria -con le dovute e proverbiali eccezioni- di fronte alla quale ogni prostituta conserva un’indefettibile dignità. Costoro, infatti, vendono qualcosa di ancora più personale degli organi genitali: vendono il proprio pensiero. Assunti come praticanti, debbono abituarsi sin dall’inizio a non indagare e a non criticare se non chi e che cosa i loro direttori vogliono che venga indagato e criticato. Servilismo e non pensiero diventano in tal modo un habitus della persona che scrive sotto dettatura del potere. Quando la parola del giornalista si coniuga all’immagine televisiva, il mondo si dissolve nell’ermeneutica del potente, quella che permette ancora a milioni di italiani di credere che Berlusconi non sia un delinquente e che il Partito Democratico sia di sinistra.
La Democrazia è fatta di almeno quattro elementi: divisione dei poteri, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, elezioni libere e segrete, informazione indipendente da chi governa. In Italia si vota periodicamente e in modo -più o meno- segreto ma gli altri tre elementi sono assenti. L’Italia è quindi un Paese fintamente democratico. La parossistica dipendenza che il nostro popolo nutre verso la televisione è anche il bisogno di un’autorità che dica cosa si deve pensare e come si deve vivere. La televisione è forse la meno percepita ma anche la più dura smentita della democrazia. Di un sistema che necessariamente presuppone il desiderio di vivere liberi e la capacità di esserlo da parte di qualsiasi individuo. Ma non è così: chi è servo cercherà sempre un padrone, ne va della sua stessa identità. Con il progressivo tramonto delle autorità religiose, ideologiche, scientifiche, tale bisogno trova pieno appagamento nello schermo televisivo: nuovo oracolo, divinità all’apparenza poco esigente, la si gratifica con uno dei più antichi segni di sottomissione, l’ipse dixit: “L’ha detto la televisione”.
In questo niente, in questo vuoto colorato e costante, tramonta la capacità di pensare e annega con essa ogni libertà. La miseria del dominio catodico va individuata e distrutta. Si tratta di un passaggio necessario per individuare e distruggere la masnada di banchieri criminali che, con l’aiuto della televisione, governa l’Italia e l’Europa.

Ellenismo

I secoli che vanno dalla battaglia di Cheronea vinta da Filippo di Macedonia contro le città greche (338 a.C.) alla dinastia imperiale dei Severi sono noti -a partire dalla definizione di Droysen- con il nome di Ellenismo. Sono secoli in cui l’identità greca si conferma, si amplia e trasforma. Dopo le imprese di Alessandro il Grande tre regni si disputano l’egemonia sull’impero da lui fondato: la Macedonia degli Antigonidi, l’Asia dei Seleucidi, l’Egitto dei Lagidi. L’intervento romano -o meglio i vari momenti nei quali Roma si alleò con alcuni Greci contro altri Greci- chiude l’esperienza politica degli Elleni (definitivamente nel 146 a.C.) ma non quella culturale, linguistica, civile che anzi si rafforza ed estende fino a far sì che «per non insignificanti aspetti l’impero romano dev’essere letto come realizzazione suprema dell’ellenismo» (I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di Salvatore Settis, vol. II/3 Una storia greca. Trasformazioni, Einaudi, 1980, p. 680). La storia delle πóλεις muta ma non scompare, anzi si rafforza e da vicenda di guerre permanenti diventa storia di una cultura complessa e ricca, garantita dalla pax alessandrino-romana.
Quella ellenistica è una società fortemente urbanizzata, culturalmente raffinata, in grado di vedere in se stessa la realizzazione di un principio universalistico e dedita in ogni suo aspetto e livello alla pienezza del vivere. Fondazione di nuove città e contatti sempre più intensi fra di esse determinano il potenziamento della πóλις classica, sino a fare di quasi ogni centro urbano -piccolo o grande- un luogo di diffusione della lingua e della cultura greche. La città ellenistica costituisce il modello della stessa Roma e quindi di tutta la successiva cultura urbana che caratterizza così fortemente la civiltà europea.
Nelle città ellenistiche –Pergamo, Siracusa, Alessandria, Atene– i successori di Alessandro dedicano grande attenzione e finanziamenti alle scienze, alle arti, alla filosofia. Quest’ultima vide forse proprio nell’Ellenismo la maggiore realizzazione del progetto platonico se è vero che «in molti, se non nella maggior parte dei contesti politici, la presenza e la visibilità dei filosofi fu altamente apprezzata» (468), tanto che nella stessa Roma -a partire dalle lezioni tenute nel 155 a.C. dai maggiori scolarchi greci- iniziò un interesse e «un desiderio per la filosofia che non sarebbe diminuito per il resto dell’antichità» (476). Lo sviluppo delle scienze durante l’Ellenismo dà ragione all’ipotesi di Lucio Russo, per il quale il III secolo a.C. fu il tempo di una vera e propria rivoluzione scientifica negli ambiti più diversi, una rivoluzione che non è stata soltanto l’anticipatrice di quella ben più famosa del XVII secolo ma la sua vera e propria fonte. E infatti: «Il secolo e mezzo successivo al presunto floruit di Euclide vide lo sviluppo davvero straordinario di una ricerca matematica di prim’ordine» (687), di una astronomia il cui valore fu riconosciuto da Copernico, di una filologia rigorosa in grado di elaborare le metodologie di lettura e di analisi dei testi «che costituiscono ancor oggi il fulcro della disciplina filologica: l’ eàkdosiv, o edizione, e il commento continuo dei testi» (1201), di una geografia fisica e antropica frutto della convergenza di calcoli geometrici, di conoscenze climatiche, di contatto diretto con i popoli.
La Biblioteca di Alessandria è solo la maggiore e più famosa delle tante istituzioni di ricerca che trasformarono il libro, la lettura, lo studio in strumenti di crescita economica e culturale. La lingua di questa cultura è il greco, sempre più diffusa nel mondo -dal I sec. a.C. al III dell’era volgare-, la più usata in Oriente insieme all’aramaico, parlata e scritta dalle persone colte di tutto l’Occidente. I Greci dell’Ellenismo sono certamente diventati cosmopoliti, hanno ampliato enormemente il proprio orizzonte di vita ma sono ancora i Greci attenti alla libertà del singolo, a quei principi di autonomi@a ed eleuqeri@a che rappresentano uno dei fattori di continuità, di lunga durata, della storia greca dall’età arcaica sino all’impero di Roma. I rapporti fra la Grecia e la romanità costituiscono certamente uno dei temi centrali dell’indagine sull’Ellenismo. Dall’incontro fra Roma e la Grecia è infatti nata l’Europa medioevale e moderna, con il suo peculiare stile di vita urbano, tecnico e teso all’espansione. Sembra di poter dire con sufficiente sicurezza che «non c’è momento della storia romana del quale si possieda documentazione che non riveli il marchio della cultura greca» (941).
L’uomo dell’Ellenismo è dunque ancora l’uomo Greco, con la sua gioia di vivere, incarnata da Dioniso dispensatore di ebbrezza e di distruzione; dalla miriade di Satiri, Ninfe, Menadi, Centauri, Eroti il cui riso e felicità sono ancora vivi nella plastica ellenistica; da Pan con la sua sessualità straripante, innocente, doppia: «Gli antichi […] erano affascinati dalla bisessualità come da un fenomeno di intensificato piacere dei sensi. Nei giochi della fantasia ci si poteva augurare di provare allo stesso modo sia le gioie maschili che quelle femminili» (592). Per questi Greci una vita senza piacere e festa, senza la gioia del corpo, non vale la pena di essere vissuta; abbiamo «a che fare con un’epoca interessata a organizzarsi la vita in maniera comoda e piacevole» (593), un’epoca che così vuol vivere anche perché consapevole della dimensione aleatoria dell’esistenza, cosciente del potere che l’attimo e il caso -καιρóς e tu@ce- sempre esercitano sul mondo degli umani.
Questi Greci sono davvero diversi da noi, dallo sfondo sacrificale e ascetico della civiltà cristiana, sono lievi, disincantati, ironici e sereni. E sono anche politicamente più avanzati per la loro capacità di distinguere l’interesse privato da quello pubblico, per la loro volontà di non subire pericolosi conflitti di interesse. Fra di loro chi aveva da difendere i propri beni e aziende (ta# iòdia, oikeia) non poteva né doveva farli prevalere e confondere con il bene di tutti, con la sfera della politica (ta# dhmo@sia, politika@). E anche socialmente avremmo da imparare da uomini meno ipocriti, che non proclamavano ideali di eguaglianza e fratellanza universale ma che di fatto consentivano agli schiavi di «possedere beni ed effettuare transazioni legali» (713) mentre nelle nostre società umanitaristiche sono ampiamente tollerate le più subdole e feroci forme di schiavitù. Ma forse vale in particolare per i Greci quanto Strabone afferma dell’Europa intera:

Bisogna dunque cominciare dall’Europa, perché è la regione che più di ogni altra si trova nelle migliori condizioni per varietà di forma e per eccellenza di uomini e di governi e che più di ogni altra ha elargito i propri beni al resto del mondo (Geografia, 2.5.26).

Il vulcano della storia

Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013

Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di  Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.

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Terrorizzati

Fremono, complottano, tremano, strepitano, sognano percentuali, propongono cifre a un tempo grottesche, insensate e oligarchiche -il 42,5%- come condizione per ottenere alle elezioni il premio di maggioranza. Non pensano ad altro, insomma, che a neutralizzare la democrazia, a rendere ancora una volta nulla la volontà dei cittadini italiani, giusta o sbagliata che sia. E questo dopo che per cinque anni si sono tenuti ben stretta la pessima legge che ha contribuito a eleggerli. Non ci avrebbero neppure pensato se ogni giorno che passa non crescesse la possibilità di non essere rieletti nel prossimo parlamento. E dunque di perdere tutto ciò su cui hanno puntato e investito per ottenere prebende, privilegi, vitalizi, soldi, autorità.
Per quanto mi riguarda, la democrazia rappresentativa è un fantasma di libertà e, se proprio si vuole votare, meglio un sistema proporzionale puro o con sbarramento minimo al 2% e nessun premio di maggioranza, in modo da garantire la rappresentanza di molti dei ceti sociali, delle visioni del mondo, dei legittimi interessi che formano il corpo collettivo. Ma ora che vedo queste orde di deputati e senatori composte per lo più da analfabeti, mafiosi e puttane, questi sciami di cialtroni che se non fossi animalista paragonerei a delle cavallette che stanno depredando la nazione, ora che li vedo terrorizzati di fronte alla prospettiva che in parlamento arrivino persone incensurate, persone che non facciano della politica un mestiere e dunque non si ricandidino dopo due mandati, persone che si impegnano a rendere conto al corpo sociale di ciò che decidono e di come operano, persone quindi molto diverse da loro, ora mi sembra che si debba rispettare “il monito dell’Europa” quando chiede ai Paesi membri che «gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria» (Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, Codice di buona condotta in materia elettorale, pag. 10).
I “democratici ed europeisti” Napolitano e Monti non hanno nulla da dire di fronte allo sconcio di una legge elettorale pensata contro qualcuno -come esplicitamente ammesso da Renato Schifani, presidente del Senato- invece che a favore della volontà popolare? No, qualcosa dicono. Auspicano, difendono e sostengono lo sconcio. La verità è che pur con i suoi limiti il Movimento 5 Stelle adotta un metodo ultrademocratico nella scelta dei candidati. Che la grande stampa e la televisione convincano molti italiani del contrario è la conferma che il potere nelle società contemporanee è un potere mediatico. Anche per questo spero che il Movimento 5 Stelle rimanga intransigente nel proibire ai suoi rappresentanti di partecipare a programmi televisivi dove i giornalisti si pongono al servizio dei potenti.
Per molto tempo ho condiviso il giudizio nietzscheano sulla Rivoluzione francese come «orgia della mediocrità» (Frammenti postumi 1887-1888, 9 [116]) ma ora comprendo sempre più come una somma insostenibile di privilegi, di arroganza e di ingiustizie si possa spezzare soltanto attraverso la violenza e il sangue. Avevo due rimpianti nella mia vita. Adesso se ne aggiunge un terzo: temo che non vedrò mai rotolare le teste dei banditi che depredano l’Italia. Ma vederli perdere il loro titolo di “onorevole”, con i privilegi ai quali si accompagna, quello almeno sì.

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